"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

SPECIALE Ni un art, ni une technique (1)

Un incendio visto da lontano

Lorenzo Esposito

Che l’indolenza trasformata in intensità, ovvero non esattamente il suo modo cinematografico, ma proprio l’attitudine, il carattere di Otar Iosseliani coincidano oggi con un intero mondo in via di sparizione (o peggio che è diventato normale eludere), è al contrario, e con amabile giustezza, luogo centrale da cui si dipartono i fili invisibili di un’opera che più che al filmare si addice all’ordito celato di un arazzo. L’estrema e olimpica auto-ironia riveste le pareti dell’immagine con un tessuto profondo: fare cinema significa prima di tutto cancellarne le tracce. Non sono altro che contrappassi e canti d’inverno i film certo, ma il punto è che raggiungono questa posizione alta, solo defilandosi, armeggiando, fra un capitombolo e l’altro, nei precipizi delle pratiche basse, come un’orchestra malmessa che però dona e custodisce magnifiche illusioni (soprattutto se sbaglia note e accordi), fra uno specchietto per le allodole e l’altro, l’ennesima caccia alle farfalle, l’apertura di porte magiche che scoprono giardini segreti sull’anonimo muro cittadino.

Sarà per questo che infine l’ultimo film di Iosseliani Chant d’hiver richiama così da vicino (e non solo per l’andirivieni parigino) il Cortazar di Rayuela, seppur con meno propensione alla destrutturazione, perché per Iosseliani le strutture e i loro mulinelli intestini, sono già sempre di per sé sintomo di una ricaduta positiva, o di una sparizione, o di un mancamento, gioiosamente conversando così l’invisibile con se stesso. Ma in comune certo c’è la bella possibilità, offerta su un piatto d’argento (entrambi ambiscono a fare i camerieri, così starebbero tutto il tempo in un bar) al lettore e allo spettatore, di smettere di leggere e di fare a meno di vedere. Va bene se vi attenete a quest’ordine dei capitoli, ma da questa pagina in poi inizia un altro romanzo anche per i capitoli che avete già letto. Seguite pure la deriva da immagine a immagine, perdetevi, disorientatevi, ma attenzione è possibile che il film, più che accumulando versioni, stia sottraendo varianti e invitandovi laconicamente a una forma di cecità gloriosa e goliardica.

In ogni caso per Iosseliani in particolare la domanda riguarda la fattibilità del cinema stesso, o meglio la sua consacrabilità all’incompiutezza del mondo. Non si tratta di restituirne il reticolo prodigioso e segreto di casi e casuali ricadute e sollecitazioni, ma proprio di ricostituirne punto a punto l’invisibilità che gli è propria, sottrarlo anzi a questa stessa consapevolezza di ineffabilità (soprattutto quando sempre più spesso scambiata per bulimia del tutto visibile in un sol colpo), e aiutarlo a restare esile, dinoccolato, disincantato, sconnesso. E questo vale anche per il cinema: né un’arte, né una tecnica, ma il documento di quello che sempre, quando un’immagine sembra più aderirgli e aderirci, passa invece velocemente all’inesistenza. Anzi Iosseliani non fa altro che ossessivamente cercare di trattenere l’immagine appena abbandonata nell’immagine successiva. Diceva anni fa a proposito di La chasse aux papillons (anticipando così la sequenza mirabile in Chant d’hiver della porta che si apre su un’altra dimensione in una strada qualunque di Parigi): “L’aprirsi di una porta è l’entrare in un mondo che si richiude, e dietro la porta c’è sempre un segreto. La porta è una sorta di geroglifico1”. Filmare il luogo in cui una cosa che appare, scompare... Sapere che se tutto passa, non è detto che non si possa mantenere una posizione favorevole nella girandola del consumo (che ridere il Capitale che invita al consumo, quando è proprio il consumarsi d’ogni cosa la bellezza terribile di questo mondo)…

Per restare sempre a Renoir e all’apertura delle porte, Iosseliani ha sempre rispettato la regola del gioco (dove l’unica regola è non avere regole), ma ha fatto un passo in più, obliquo come una capriola, quando ha espresso il desiderio di cancellare le tracce anche dell’inatteso colpo di vento, evocato da renoir, che giunge a mettere a soqquadro un set. Attenzione però, questo non significa incuria o imprecisione, al contrario è ricerca della massima concentrazione e intensità, laddove tuttavia si è consapevoli che anche un evento concentratissimo disperde la sua intensità nel momento stesso in cui avviene. Ecco perché nei suoi film tutto sembra il materializzarsi di una fuga, un fugarsi stesso degli avvenimenti, un accelerato dileguarsi di situazioni e personaggi proprio nel momento in cui si accumulano e si aprono a spettri ulteriori di possibilità. Che cos’è il cinema? Non c’è niente da fare, l’incendio va visto da lontano.

 

1 A. Pastor, D. Turco, S. Paba (a cura di), Conversazione con Otar Iosseliani, in Filmcritica n. 429, novembre 1992. 

 

 

The world of time

Andrea Pastor

Da quale zona di luce e di ombra proviene la voce, la parola immagine del cinemaparlato di Malick, quella che, nel tempo, di filmalbero in filmalbero, si è moltiplicata, proliferando, pluralizzandosi a perdita d’occhio, diffondendosi nello spazio sempre più profondo? Difficile iniziare e finire di iniziare a rispondere, specie quando questo interrogativo si pone a poche ore dalla scomparsa di Cimino e Kiarostami, nomi sguardi umili e potenti, anch’essi costruttori sublimi non di arte o tecnica ma di filmmisteriosamenteparla(n)ti. Doloroso ma anche riscaldante e generoso l’inizia, quasi sokuroviano, proferito, come ultima parola, al termine del viaggio, senza forse più possibilità di elegia, Knight of cups. Potrei rispondere dall’altrove. Reinizio. Come descrivere, come identificare l’origine di una voce che è sempre altrove, di una parola ad altissima definizione, incisa, scolpita, più che narrante, o autonarrantesi, nell'indefinito spazio over o off, disciolta nel vento, nel fuoco, nei cieli, nella terra, nelle immagini di una natura sempre (in)contaminata, nei fulminanti raccordi, nei liquidi e densi movimenti di macchina, nei flussi magmatici, nel respiro, nelle carni sanguinanti dei campi di battaglia, nelle pelli desideranti e irrimediabilmente condannate alla solitudine, alla loro natura di segni puramente schermici, alla loro flagranza immaginaria, fatta lievitare con forza dal nero, vera sorgente da cui si origina la visionarietà di Malick, la stessa che, al sopraggiungere di ogni singola opera, finge di dissolversi, magari per lunghi anni, per poi letteralmente risorgere, come negli ultimi tre filmonde, filmellisse, volatili ma più che mai brucianti, depositati, vibranti, tra quelle che però sembrano essere le stesse, acquee, forme solide di un pensiero insostenibile, che si consolida e rigenera, ogni volta, più misteriosamente che mai? Le domande si sono infittite e concentrate in un unica lunghissima interrogazione. Inizia, inizio a provare a rispondere. Dalla prima inquadratura di Badlands all’ultima immagine del primo trailer ufficiale del suo prossimo film Imax che verrà, il sole è nero, e la parola e l’immagine malickiane sgorgano da una luce, da una natura troppo sublime, e dunque tenebrosa, e ciò che viene mostrato è il mistero dell’immagine stessa, l’indescrivibile, il non rappresentabile, il fuori campo che non può che essere assoluto, che si può solo presentire, nelle forze contrastanti del bene e del male, della vita dell’amore dell’odio dell’edipo, della morte, le stesse che hanno nutrito e nutrono, per sempre e da sempre, l’immaginario hollywoodiano, definitivamente, però, dopo Malick, un po’ più spento, non più spendibile. Tutte le parole immagini del suo cinema sono ciò che si può ancora stravedere quando tutto è già stato compiuto, l’olocausto, la genesi, il genocidio e la ‘definitiva?’ resurrezione dell’umano.. Come un figlio di Godard, di Duras e Resnais, ma anche di Kubrick e di Saul, Malick ha visto l’innominabile, il non umano, ne è rimasto accecato. Le parole le cose che vediamo e le immagini che udiamo, in ogni suo film, sia quelle così spesso emergenti dal buio schermico, sia quelle apparentemente over o off, che teorizzar si voglia, sia quelle solo finzionalmente sincrone, fingendo di parlare delle genesi della vita, di raccontare melodrammi, di ridare forme trasognanti, in eterno stato di dormiveglia, a generi, spazi e tempi e linee rosse che odorano più di salò che di napalm, senza più tracce di orizzonti (in)gloriosi, a storie d’amore e di sguardi impossibili, polverizzati e fatti risorgere, come identicamente altri da sè, a quotidiani familiari bucati dal cosmico, di fatto sono sonimagesconsciences al lavoro e lavorate, non solo diegeticamente, dalla catastrofe, dal collasso del sentire, dal tempo di una Storia aberrante che può solo risuonare a intermittenza e totalmente nel fuori campo, nell’irrapresentabile, nell’interdetto, tra le pieghe di documentaristiche finzioni che sembrano tutte condensarsi e rapprendersi in un un’unica plurima domanda, rivolta a se stesse e allo spettatore: “Ti Mi ami? Nonostante tutto il dolore e l’incanto che ti faccio provare, fino allo spasimo, rischiando al massimo col mio occhio tagliato nel quale forse ti rifletti? Credi nell’utopia di un nuovo universo e di una nuova immagine, le senti come possibili e reimmaginabili? Te la senti di rifondarti come soggetto che guarda e ascolta e riscrive un altro sguardo che potrebbe anche essere ancora il tuo? Sei disposto a (ri)vederti da vicino come natura vivente e (in)differente che non c’è più ..ancora?” Con una aggiunta: “Se sì..(re)Inizia”.

 

 

Matrici

Vanna Carlucci

Feu aux poudres (Fuoco alle polveri) è il titolo di uno dei due capitoli che compongono La jalousie. Dare Fuoco alle polveri sembrerebbe rinviare a più interpretazioni: all’atto incendiario di rivolta, quella che ha attraversato nel ’68 le strade di Parigi e che Garrel ha più volte raccontato nel suo cinema (pensiamo a Les amant reguliers o al ritrovato Acte 1 che ha preceduto guarda caso la proiezione de L'ombre des femmes a Cannes); al fuoco alchemico e di combustione e conversione della materia; all’atto stesso di proiezione delle immagini, cono di luce che buca e accende l’oscurità: dare fuoco alle polveri significa anche riporre l’occhio lì dove la memoria ha creato delle falde, apnee interminabili e sospensioni fuori tempo di corpi che tornano da un luogo remoto e che sfuggono ancora dalle mani.

Il cinema garrelliano è un circolo vizioso di ritorn(ell)i autobiografici, di immagini già viste, fantasmi che si riform(ul)ano in un corpo, di mani che si toccano come echi di mani del passato, ma qui tutto si mescola in un angolo buio della memoria per sfaldarsi e ricompattarsi di nuovo e per essere ogni volta diverso. Alchimia appunto, polvere che vortica su se stessa fino a scivolare in luoghi in cui non si è guardato mai. Ciò che resta sono le pareti scrostate degli interni, l’eco di baci rubati per le scale; il vuoto riempie camere, cinema, strade e certe notti in attesa: sono spazi e luoghi interrotti, territori d’esilio, interstizi e buchi di serratura (pensiamo alle prime immagini de La jalousie) attraverso i quali il buio della pupilla riformula certe visioni perdute: stanze come scatole, scatole come forni alchemici, come film. Un disegno apre i contorni su visi e corpi e nella distanza tra un atto e uno sguardo, tra un bacio e un addio, nel solco di questo spazio che separa il bianco dal nero, gli amanti sanno già di essere fantasmi.

L’immagine claustrofobica dell’amore stavolta non precipita in macabra ossessione, ma sembra quasi che l’ultimo Garrel (quello de La jalousie e de L'ombre des femmes) vada oltre l’imperdonabile perché il cinema in fondo è memoria andata in pezzi, pezzi che sono immagini, cicatrici interiori e, allo stesso tempo, l’amore è luogo così irrisolto da lasciarci sospesi ancora nel vuoto: frammenti di vita proiettati continuamente sullo schermo, resistenza della memoria che registra ricordi (quelli del padre di Philippe) che si sfaldano e si ricompongono continuamente per diventare immagine deformata, pura finzione. Ne La jalousie Louis (figlio di Philippe) incarna il fantasma di suo nonno (Maurice) mentre ne L'ombre des femmes la cinepresa di Manon e Pierre, le pellicole conservate in archivio che fanno incontrare Pierre ed Elisabeth, scandiscono questo rapporto sentimentale tra cinema, vita e memoria: viaggiano l’uno accanto all’altro in un dialogo che li attraversa e, incrociandosi, li sfiora. Come i corpi urtano, si toccano, si amano, si tradiscono e ritornano così Garrel fa dell’immagine la messa in scena del (proprio) desiderio, più reale della realtà stessa, una ripetizione mai uguale a se stessa da rendersi sempre nuovamente possibile.

C’è una consapevolezza nuova: una certa leggerezza attraversa la pellicola e il sentimento diventa peso incorporeo; l’orgasmo di una donna che fa l’amore in chissà quale appartamento attraversa, nel suo moto arioso, il cortile interno di un palazzo ed entra di notte nella stanza vuota di Manon, dove la solitudine diventa immota presenza delle cose. Da una finestra spalancata (ipotesi di una veduta, sguardo che si dilata) non vediamo l’amore ma soltanto un’idea proiettata per aria, negli angoli bui delle pareti, voce fuori campo e fuori visione perché il cinema è questo rovescio senza fondo che nasce “in silenzio sotto lo sguardo”, un corpo sconosciuto - dice Deleuze - che abbiamo dietro la testa, “nascita del visibile che ancora si sottrae alla vista”. Eccolo il Vuoto del suo filmare, si tratta di tendere i sensi e guardare altrove, perché “vedere è avere a distanza”, dare atto al ricordo di mostrarsi li dove “la retina è cieca nel punto in cui si diffondono in essa le fibre che permetteranno la visione”(Merleau-Ponty 1969, p.260). Sia l’amore che il cinema diventano allora matrici (athanor alchemici) entro cui formare storie e immagini sempre nuove, combustioni che si sprigionano da un abbraccio (vedi l’ultima immagine de Les ombre des femmes) dove il morso al collo di lei diventa il bacio di una riconciliazione, l’abbraccio perfetto di una storia imperfetta o da una stretta di mano dove il buio in un cinema ci dice che sì, è possibile (ancora) amarsi nel vuoto.

 

 

Della sconfitta, dell’umano

Erik Negro

Della sconfitta. Era il 2014, poco prima del Festival di Rotterdam mancò mia nonna. Indeciso sul partire o meno, mi affidai come sempre (almeno allora, quando fui giovane per davvero) alla strada. Al funerale non riuscii a piangere, scappai a casa per fare le valigie, direzione stazione, molte ore di treno mi separavano dall’Olanda ed il festival era già iniziato. Dopo l’IFFR mi trasferii direttamente a Berlino, e quelle lacrime tardavano ancora a scendere, come se mi appartenessero infinitamente, come se non potessi donarle a una realtà che sentivo sempre più fredda intorno a me. E venne l’ultimo giorno della Berlinale, il mio ultimo film, The Little House. Lungo quelle due ore le prime lacrime incominciarono a scorrere, per esplodere nel finale. Corsi alla conferenza stampa, per altro deserta, aspettai il vecchio maestro, lo abbracciai e lui ricambiò con infinita grazia. Mi sentii sconfitto in quel tardo pomeriggio, o forse solamente indegno di quel calore. In giornate come queste, in cui sento che anche mio nonno pian piano pare sfuggire a questo pianeta infame, non potevo che iniziare un piccola e dissennata riflessione su Yamada Yôji così, con quelle lacrime che forse solo lui ha potuto condensare, e di cui solo ora riesco a comprendere a pieno il significato.

 

Yamada è un ottantaquattrenne sereno e malinconico, un personaggio unico, infinitamente umano e terribilmente distante dal nostro caos, dalla nostra aridità, dalla nostra vacuità. Entrato da giovanissimo nella Shochiku (con Yoshitaro Nomura) se ne ritiene un umile impiegato, un lavoratore onesto ed infaticabile che nella logica infinita dei rapporti di produzione (ed espressione) di un film ricopre il ruolo del capo cantiere, di colui che deve portare a termine il progetto (quasi un centinaio di film al suo attivo come regista ed ancor di più come sceneggiatore) per consegnarlo ad un pubblico. In realtà appare ben chiaro, già dalla monumentale e splendida epopea di Tora-San (48 film, dal 1969 al 1985, tutti con protagonista lo stesso Kiyoshi Atsumi) la straordinarietà dello Yamada autore, operaio ed intellettuale di mezzo tra le epoche di un Giappone che subisce la vorticosa deriva di valori e di linguaggi, confinato in una catarsi etica paralizzata e disumanizzante. Figlio di Ozu e padre di Kore-Eda (se mai potessero valere queste riflessioni) il mite saggio di Toyonaka ancora oggi ci invita a riflettere e ad amare, attraversando il cinema, con una leggerezza sconvolgente e dolcissima, cercando quella sintassi di umanità oramai estirpata da tonnellate di sovrastrutture che noi stessi ci imponiamo. Un uomo, nulla più, cosciente della possibilità sempre più presente della sconfitta e proprio per questo convinto a perseguire la sua strada.

 

Anche per questi motivi il titolo della serie di Tora-San (Otoko wa Tsurai yo) traducibile in italiano con “è difficile essere uomo” risulta uno dei più completi e sfaccettati ritratti esistenziali mai compiuti al cinema. Il nostro protagonista marinaio e viaggiatore Kuruma Torajirō, è un tenero ed imbranato sbandato eroico che trae la sua origine (e la sua declinazione, in un certo senso) nei racconti dell’antichissima tradizione orale nipponica. Vaga senza una meta (in tutte le regioni del Giappone e non solo), continuamente sconfitto in amore ed incompreso dalla società, tra Don Chisciotte e Charlie Chaplin con quell’espressione eternamente fanciullesca non si arrende, ricomincia la sua lotta nel tentativo irrevocabile di diventare uomo, o almeno esserlo. Lontano dalle norme sociali che si incancreniscono e riducono l’umanità ad una semplicissima accettazione meccanica del proprio ruolo professionale e famigliare, l’antieroe dal cuore d’oro sfugge dall’eredità im-morale del padre e dalla mancata accettazione degli amici, fugge proprio per cercare le proprie radici e le confonde in ogni suo eterno ritorno a cui ogni partire pare ricondurlo. Tora-San è un uomo buono, giusto e libero e proprio e per questo in ogni finale rimane solo e malinconico, ferito nell’anima e spezzato nell’umore, ma mai domo. Riesce a trovare la gioia (apparentemente infantile ed illogica) attraverso la tristezza, giungendo sempre ad una morale di personalissima profondità, di scavo esistenziale dell’esperienza sensibile e istinto comportamentale che definisce la quintessenza dell’eroe tragico classico giapponese, doppiamente battente e battuto da una modernità che avanza con l’impossibilità completa di una sua lettura. Insegue il sentimento ma ne è vittima, aiuta gli altri ma provocherà spesso dolore, dona tutto quello che possiede perseguendo la natura riflessiva ed effimera della vita e per questo è un romantico senza speranza che deride la mancanza di libertà altrui. Mentre la società corre verso un imbarbarimento lui rimane fedele ai suoi valori, alla propria completa mancanza di pretese, a quella tradizione fondata sul rispetto e sulla comprensione, che non appartiene più in alcun modo al Sol Levante contemporaneo. Per lo stesso Yamada doveva simboleggiare colui che rimane ignaro alla modernizzazione dei tempi, colui che in fondo vive esclusivamente per portare la felicità a coloro che ama. Proprio per questi motivi questa serie (unica nell’intera storia dell’immagine e del suo movimento) si conclude solo con la prematura scomparsa di Kyoshi Astumi, il volto e l’espressione di Tora-San, l’unico a cui poteva appartenere, come se mai fosse cresciuto. Un bambino, nulla più.

 

Sconfitti dall’amore e dalla società come Torajirō, sconfitti dal passato come il protagonista Haruka Naru Yama no yobigoe che attraverso la vergogna di una redenzione dagli errori di impeto e passione compiuti in precedenza cerca la speranza in una vertigine di sensi di colpa. Sconfitti dalla società come lo stesso Takakura in Shiawase no kiiroi hankachi veterano ed ex carcerato, burbero e sbandato, in sintonia con le norme sociali ma spaventato dalla comunità, dedito al viaggio ed alla redenzione in eclatanti gesti di altruismo disinteressato; sconfitti dall’onore e basta, come i soggetti che ruotano intorno alla trilogia dei samurai.

Poi ci sono gli sconfitti dalla storia, proprio quelli di The Little House, un soffio al cuore, un viaggio all’indietro nel tempo, lo spazio di un momento. Basato sul pluripremiato romanzo di Koko Nakajima si incentra su una relazione d’amore che si svolge all’interno di una piccola casa; fino a quando la guerra pian piano si porterà via tutto. Per sessant’anni rimane solo la memoria, poi quella stessa casa, una spiaggia ed una lettera, un trittico (troppo) umano che condensa la genesi ed il crollo di un emozione lunga una esistenza. Davvero non serve nulla d’altro. Il presente, il passato ed il futuro si fondono e si riflettono nella lacrima del ricordo, nella messa in scena dei timidi e nudi sentimenti di un’epoca che non c’è più, metafora di un cinema che non potremo più vedere. Il senso di perdita che accompagna ogni tipo di morte, anche quella di un mondo più cosciente, non ha bisogno di nessun invocazione e può solo essere esorcizzata dall’inchiostro vivo di un ricordo. Nemmeno la speranza può morire, fino a quando ci sarà ancora una spiaggia da attraversare dove potremo riconoscerci e torneremo a raccontarci quello squarcio di durata in cui ci siamo separati. Con quello sguardo che riconcilia alla vita, lo stesso di questo Yamada senile ed infinitamente grande.

 

Infine gli sconfitti del tempo. Sessantanni dopo uno dei più straordinari capolavori della storia del cinema, di cui fu per altro assistente alla regia, Yamada decide personalmente di ri-girare Tokyo Monogatari, quasi volesse cercarne i risvolti attuali, modularlo sul terzo millennio e sulle spalle di un Giappone appena uscito dalla crisi nucleare (e morale) di Fukushima, e senza direzione. Ne emerge una solitudine generazionale più marcata e complessa, un senso di abbandono riflesso di apnee emozionali, un tempo che scorre in modo sempre più impercettibile e vorticoso. Tokyo Family (forse dovrebbe esser chiamato “è dura essere una famiglia”) rivifica il monumentale Ozu, lo ricontestualizza condensando il baratro della distanza che il maestro aveva già segnato; con lo stesso rigore formale, la stessa percezione dell’inquadratura, la stessa struttura dei contenuti elabora una nuova essenza dei rapporti personali in conflitto con lo sfaldamento sempre più profondo del reale. Come appreso dallo stesso maestro crea un immaginario di tensione drammatica continua senza mai calcare la mano, lasciando respirare i propri protagonisti al cospetto del passato e dei propri errori con quel senso continuo di poesia del provvisorio, di comprensione del comportamento, di accezione ai segni e simboli della società in continuo mutamento. Segna ancora una volta il crinale scosceso tra la tradizione ed il (post)moderno, portandosi dietro a se un carico di solitudine e desiderio, di amore e di famiglia. Proprio anche per questi motivi nonostante il suo apparente conservatorismo linguistico radicale e la sua profonda appartenenza culturale, come lo stesso Ozu si rivolge a tutti, interrogandoci, chiede di aprirci agli altri prima che a noi stessi, ci invita solamente a essere umani in ogni piccolo nostro gesto possibile.

 

 

Dell’umano. A pensarci bene gli sconfitti di Yamada, lo sono solo in apparenza. In apparenza perchè è la stessa convenzione attuale a sconfiggerli, il costume di un momento storico strutturato su una superficialità di animo e di linguaggi che non può appartenere allo stesso autore. Un uomo anzitutto, uno dei pochi rimasti ad aver vissuto l’esperienza diretta della guerra in Giappone, il dramma dell’atomica, l’orrore del periodo imperiale e tutte le tragiche conseguenze che la sua generazione avvertì. La resistenza e il coraggio che Yamada ci mostra dovrebbero essere l’ispirazione stessa ad un nuovo modo di vedere le cose, perchè ha ancora la forza di essere il cinema stesso che gira, di far fluire e scorrere i sentimenti per mettersi poi metodicamente a coglierli, attraversando generi e tendenze, rimanendo profondamente legato alla sua personalissima esperienza umanista. Un uomo appunto, un uomo e basta, che vive per la sua libertà di far esistere la flagranza di un sentimento nella sua sincera e drammatica essenza, con profondissimo amore. Così Yamada Yôji condivide la sorte dei suoi sconfitti, che sconfitti non sono perchè tutti riescono ancora ad amare, proprio come fa lui.

 

 

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