"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Con un film spiralico e palindromo come El Tango del viudo, che necessariamente e significativamente è sia incompiuto, immontato, sia il suo primo lungometraggio, Ruiz lancia una sorta di mossa per mettere in scacco il nostro sguardo e insieme il nostro corpo di spettatore (colui che oltre a vedere il film ci si rispecchia rovesciandosi, dal momento che il titolo precisa: y suo espejo deformante). Ci vuole un rovesciamento del mondo, un suo reves (come nel suo film El cuerpo repartido y el mundo al reves/Utopia del 1974), per poter mettere in moto il film, e de-ricomporre il cadavre exquis, bisogna attraversare uno specchio la cui faccia inversa resta invisibile ogni volta che lo specchio si deforma invertendosi e mostrando l’immostrabile e cioè suscitando l’invisibile. È così che il corpo del film e il corpo dello spectante, spettatore-rispecchiato e reso inverso, riescono a immettere un altrove proprio dove non ci sarebbe altrove se non il suo spettro di luce.
Il film repartido ha dunque bisogno non tanto di essere finito quanto paradossalmente di essere infinito sempre tornando, all’inverso, su se stesso. È come se fin dall’inizio, Ruiz abbia affidato questo compito in un tempo sospeso a Valeria Sarmiento, che infatti, nella storia di un vedovo che estroietta da sé il fantasma della moglie e in modo misterioso diventa quello spettro (che si rifrange, si spezzetta, si riflette, da cui si stacca una capigliatura medusèa, le cui vesti vengono alchemicamente strizzate per ricavarne un liquido trasformativo), tutto (anche il sussurro dialogato, ritornante, revenant) si fa musica luttuosa, ritmo di montaggio e de-montaggio, che proviene da un altrove infinito. Passi e apparizioni di un vedovo-vedova. Ma chi è il vedovo di chi?
Nei mito racchiuso nei misteri egizi di Iside la Dea percorreva il mondo capovolgendolo alla ricerca dei pezzi del cadavere di Osiride, suo consorte e fratello. Iside era la vedova che, nell’inversione, ridava vita all’immagine di un dio doppio, insieme se stesso e l’Altro. Ruiz amava riferirsi alle sette misteriosofiche (le inventava o reinventava) e nella Massoneria i ‘fratelli’ si definiscono ‘figli della Vedova’. Nel film, come affermava Ruiz, il quotidiano è scandito in modo perturbante, “Il fantasma della moglie lo segue ovunque, sotto il letto, sotto il tavolo. Il vedovo è un feticista: strizza gli abiti inzuppati della moglie e ne raccoglie il liquido in bottiglie con cui va a dormire. A furia di tallonare il fantasma, ne prende le sembianze”1. Come in un soggetto scritto da Bernardino Zapponi per un film non fatto di Fellini o come nel corpo-a-corpo finale di Le locataire (L’inquilino del terzo piano) di Polanski, l’invisibile doppio femminile si incarna e si incorpora in colui entro cui si specchia.
Allora il senso di quel tornare indietro, con passo inverso, del film su se stesso, sentendo i dialoghi al contrario, sospendendo arcanamente per qualche istante lo stesso movimento palindromo che si riconnette a spirale, per poi ricominciare in-definitamente, diventa appunto la cifra assunta da questo film-specchio, autenticamente firmato, come in un indissolubile matrimonio alchemico, da Raúl e Valeria.
Nel gergo del tango c’è una parola, che è anche un passo e una mossa, Sacada: movimento in cui il corpo di uno dei ballerini prende il posto dell’altro. In realtà si stratta di una sorta di svista, o anche di una invisibile presa di posizione: l’effetto visivo è che tolga quel posto colpendo la sua stessa gamba, ma ciò non avviene. Quello che succede è che si è scivolati con uno scarto inverso l’uno nel corpo dell’altro. El tango del viudo lascia il posto al proprio film-fantasma senza essere un film di fantasmi. Il suo azzardo è quello di muoversi sempre a vortice e spirale, come per ogni film (diceva Ruiz), in quel punto cieco dove le immagini e i film infiniti, gli attimi più infinitesimali e apparentemente insignificanti dell’intero universo, possono (al pari dell’Aleph borgesiano) ultravedersi tutt’insieme in un unico punctum di buio e di luce.
Film infiniti tra un fotogramma e l’altro.
1 (a cura di) E. Bruno, L. Esposito, B.Roberti, D.Turco Ruiz Faber, minimum fax, Roma, 2007, pp.242-243.
On my father’s camera everyone has a chance to exist”. Si esiste solo se si è visti - ce lo ricorda(va)no anche José Saramago in Cecità e Charles Aznavour nei suoi diari filmati portati alla visione da Marc di Domenico in Le regard de Charles. Fare emergere dal passato immagini dimenticate, e dare loro visibilità, è il lavoro monumentale che Kamal Aljafari compie da anni e trova in An Unusual Summer un altissimo punto di ricerca. Vedere/Essere visti. Ovvero, come un materiale nato, e accumulato in ore, giorni, di girato, con l’intento di cercare di scoprire il responsabile di un atto di vandalismo contro l’auto del padre del regista, si trasformi, ancora una volta nell’opera di Aljafari, in una potente riflessione sullo sguardo, sul territorio, sui corpi che vi transitano, attraverso la manipolazione del testo originario, sul quale intervenire per rendere quelle immagini la tela che cristallizza uno stato di cose tanto intimo, familiare, quanto sociale, politico.
Il pre-testo di An Unusual Summer è apparentemente semplice: nel 2015 il padre di Aljafari muore e il figlio cineasta trova i nastri registrati nell’estate del 2006 dalla videocamera di sorveglianza installata dal padre da una finestra della sua casa. Fino a quel momento nessuno, tranne il genitore, aveva guardato quella mole di immagini. Un unico punto di vista, lo stesso set, che Aljafari conta-mina con i suoi interventi, camminando - con l’occhio tagliato perché solo accecandosi si può tornare a vedere - dentro quelle immagini, penetrandole (proprio come in Recollection), colmando la distanza fra la casa di famiglia (da dove tutto si osserva) e lo spiazzo antistante: la strada, un piccolo parcheggio con l’auto del padre e quella della moglie, un muretto, un albero con giardino in secondo piano, il pezzo di un’altra strada sulla sinistra dell’inquadratura. Ed ecco che, nell’espressione artistica di Aljafari, quel punto di vista da unico diventa plurale, quel set da fisso si fa mosso, esplorato nei dettagli da un occhio che, proprio perché alterandole, rende sue quelle tracce depositate e a lungo invisibili, ridando loro senso e esistenza, interrogando la loro origine e terremotandola in un discorso teorico e militante. Non si tratta più solo di (una parte di) immagini il cui scopo era di pura documentazione investigativa di un, in fondo, banale fatto quotidiano. Aljafari ne estrapola dei frammenti (in particolare relativi a una giornata la cui data è impressa sull’immagine), avanza e retrocede, ri-avvolge e ri-svolge il nastro, destruttura l’ordine cronologico per ri-comporne uno tutto suo, espanso e contratto che, istante dopo istante, fotogramma dopo fotogramma, di-segna la mappa sempre variabile di un territorio circoscritto che assume, nel gesto filmico del cineasta palestinese, forme stratificate di significato.
Quello sguardo dalla finestra, che coglie gesti e voci dei passanti (il padre, la madre, la sorella del regista, qualche abitante del quartiere di Ramle chiamato “Il Ghetto”, città in territorio israeliano dove la parte paterna della famiglia si fermò dopo l’esilio del 1948, ricordava Aljafari in un altro suo lavoro), la reiterazione dei loro comportamenti, ha la forza di una visione d’inizio cinema, una veduta che richiama quelle dei fratelli Lumière sconvolta però dalle interferenze visive, dai graffi, dai dettagli, dalle alterazioni cromatiche create da Aljafari che fanno venire alla mente anche le esplorazioni totali nei meandri delle immagini compiute dai sempre imprescindibili Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucci e Stan Brakhage. E, in sintonia Lumière, Aljafari usa didascalie, anche graficamente simili a quelle del muto, per dare informazioni, in terza o prima persona, mentre solo la voce di un bambino o cenni di brani musicali interagiscono ogni tanto con i suoni e il silenzio provenienti dalla strada. Uno spicchio di terra che racchiude tutta la Palestina. Perché con questo autentico capolavoro Aljafari fa (anche) uno dei ritratti più nitidi (da immagini deturpate spesso fino all’indefinizione) della condizione palestinese. La veduta dalla finestra nell’interpretazione di Aljafari assume le forme di una gabbia, di un perimetro dentro il quale le persone deambulano, come se lì venissero sempre respinte dal fuori campo verso cui si dirigono. Un’immagine che imprigiona, che trasmette la più profonda claustrofobia di un popolo cui è negato il movimento, così a Gaza come in Cisgiordania, da un sempre più devastante regime israeliano. An Unusual Summer è un’immensa opera teorica e di bruciante attualità. Si esiste solo se si è visti.
Ne avevo parlato di questo film, visto a Berlino poco prima di quando il mondo conosciuto non sarebbe più stato lo stesso (almeno per ora). Già sembrava una pugnalata al cuore, proprio per il costante senso della perdita che porta con sé, la voglia e il bisogno di mettere assieme i cocci di un esperienza di vita che pareva persa per sempre. Allora oggi, a un anno di distanza, la cavalcata pittorica di Mariusz nella sua memoria assume un significato e una densità ancora più precisi. Kill It and Leave This Town è anzitutto uno spazio, un mondo interiore dipanato e dipinto, dove riscrivere la propria storia in un tempo sospeso e incapsulato. La selva delle figure abbozzate e avvicinate è solamente definita dalla matita; sono tutti fluidi e quasi astratti e guardano al passaggio della vita mentre il nostro protagonista cresce e rivive continuamente quella giovinezza eterna all’apparenza. Lo sarà solo per l’emozione, perché il tutto scorre e il dramma della perdita congela improvvisamente tutto e tutti; fino a quando proprio coloro che lo hanno accompagnato - e che ora non ci sono più - lo riportano all’angusta strada del reale. Un’odissea low-fi e quasi grezza, espressionista e neo-oggettiva, la visualizzazione di un decennio di ansie affiorate sul confine (inesistente) tra la memoria e l’oblio, densamente surreale, con una narrazione frastagliata e sempre rivolta verso il vuoto e l’ossessione del nulla.
Siamo a Lodz, nella capsula della Polonia di metà anni settanta, fabbriche e fumo, neon e fantasmi nella città. Un microcosmo sconnesso e disperato in cui Mariusz si muove come figura gargantuesca a ritrovare i cocci della sua esistenza - strazianti e viscerali i quadri dedicati alla scomparsa della madre - nella sua più pura forma ontologica (emblematica e struggente è tutta la sequenza marina, l’epifania della realtà che si schiude attorno al protagonista). Esperienza acida nel buio più radicale, che attraverso i suoi mirabili punti luce trova la possibilità di essere vista. Wilczyński lavora a piene mani nel profondo del suo inconscio, dove vivono incubi e nevrosi che l’inchiostro condensa, quasi come una colata di magma che pian piano si solidifica su una carta sempre più raggrumata, con transizioni improvvise e laceranti. Forse è proprio l’anima al lavoro, che pulsa nella sofferenza lasciando segni di vita, un qualcosa che germoglia improvvisamente sull’orizzonte del nulla. Wilczyński si avvicina a Grosz e a Dix, forse anche a Svankmajer, liberandosi però da tutto e tutti nella disperata ricerca di se stesso. Con gli straordinari contrappunti musicali di Tadeusz Nalepa (e molti interventi di giganti della cultura polacca contemporanea), definisce gli oggetti donando loro una vivida espressività lisergica. Appare ancora come un oggetto misterioso e astratto questo gioiello unico che respira nella sua travagliatissima lavorazione, e si corrode con le stagioni che passano donandoci ora un senso di bellezza drammatica e di perenne riflessione. Si è preso una buona parte della vita di Mariusz, come la vita si è presa i suoi genitori, il suo migliore amico. Il disegnarli è una possibilità - l’ultima rimasta - di poter dar loro un’altra forma di vita, quella del sogno visualizzato che dialoga con la morte per affermare la vita. La legge universale così scorre, si nasconde in un disegno, eclissandosi nelle inquietudini solitarie di mani tremanti al battito del cuore. Resta solo il senso della nuda vita, della paura che essa - e quella di coloro che ti sono stati accanto - si possa perdere inesorabilmente come il galleggiare nell’oceano del tempo, il poter respirare profondamente prima di tornare sott’acqua. Dopo la visione berlinese mi è capito di guardare ancora a questo film a Pesaro, programmato insieme a un mio piccolo sguardo alla luna, e poi ancora in questi giorni solitari a casa. Tre visioni forse opposte, tre esperienze diversissime, ma dalla uguale e disarmante accensione emotiva, un grido dolce e viscerale verso tutti coloro che vorremmo qui, accanto a noi. “Il mio film parla di noi, così come eravamo. Le persone che non siamo più, ma che vorremmo davvero essere di nuovo”, commenta il suo film lo stesso Wilczyński. Ecco perché quel noi diventa un pronome cosmico, assoluto. Come una ferita che ancora pulsa, cosparsa però di luce.
Alcuni anni fa, e ora che ci penso è passato un quarto di secolo, c’era un piccolo festival di cinema in Francia a Dunkerque, sull’oceano Atlantico, quasi al confine col Belgio. Lì potevi vedere Perdizione di Béla Tarr, La commedia di Dio di Monteiro o Dok’s Kingdom di Robert Kramer. Potevi mangiare la sera le ostriche con Jean-Claude Biette e soprattutto parlare con Steve Dwoskin, il grande sperimentatore americano che viveva a Londra.
Quell’anno Dwoskin era nella giuria del concorso, e sfruttando la sua posizione gli avevo chiesto quali film non dovessi perdere. La sua risposta, nel suo stile conciso e prezioso, è stata: ci sono pochi film che vedono.
Per molti anni questa fu la mia principale lente critica per guardare al cinema. Ci sono film che vedono e ci sono film che non vedono. Magari mostrano molto, fin troppo, ma alla fine sono ciechi.
Con il tempo le mie aspettative rispetto al cinema si sono abbassate. Soprattutto verso il cinema che ahimè si professa d’arte, quello che vince i festival più di tendenza, quello che fa più eccitare la critica. E spesso mi è sembrato che il problema risiedesse nell’eccessivo formalismo che, secondo le mode del momento, rischiava di soffocare la vita.
L’esempio più lampante è un certo ricorso alla durata, in una prospettiva che forse ha frainteso le lezioni di maestri come Tarr, Straub, o Diaz e Wang Bing. Una durata che non prevede rivelazioni epifaniche, che non ci immerge nel tempo delle cose, ma che si accontenta di una contemplazione consolatoria e estetizzante - come spesso accade nella videoarte, dove l’innamoramento per il dispositivo non prevede mai uno scarto, uno scatto, e una volta riconosciuto, il meccanismo si richiude su se stesso.
Per questo motivo, sempre di più, ora mi accontento che un film conservi anche solo una traccia di vita. Una sensazione che oggi - chiusi in casa davanti a un monitor o a un videoproiettore, con la vita sempre più alienata e l’impossibilità di celebrare almeno il rito sociale e collettivo della sala - si fa sempre più forte.
Ho amato molto l’incipit di Undine, l’ultimo film del regista tedesco Christian Petzold. Si alternano i primi piani di una coppia che sta per lasciarsi. Sguardi, occhi che si abbassano, o che cercano un approdo nel fuoricampo. Piccoli gesti, una mano che sposta i capelli. E lì ho ritrovato la vita. Quella che si trova solo nel cinema. Nel cinema irriducibile agli algoritmi di Netflix e delle grandi e piccole produzioni, e così distante dal dicibile, che a differenza del visibile, struttura ad esempio la maggior parte della forma seriale. Solo il cinema.
Non è un caso che mi venga da citare una definizione di cinema che era il titolo di un capitolo delle Histoire(s) du cinéma di Godard. Anni fa, e qui invece non ricordo il titolo, Godard aveva realizzato un piccolo film per la sua esposizione al Centre Pompidou, sulle ragioni per continuare a fare (e vedere) il cinema. E oltre a dei piani di una partita di tennis, c’era una sequenza di un film di Vincent Gallo, The Brown Bunny dove una coppia si incontrava, e si lasciava, intorno al tavolino di un bar all’aperto. Anche qui poche parole, quasi un film muto. Corpi, sguardi, piani. Cinema.
Quello che trovi nell’ultimo, meraviglioso, film di Philippe Garrel Le sel des larmes. Incontri, quasi scene primitive dove l’incontro intimo, mai realmente raggiunto, svela il sovrapporsi della forma finita e di quella infinita, del visibile e dell’invisibile. In un’antidrammatizzazione che mi fa spostare le parole di Steve Dwoskin dalle parti di Bresson.
La stessa pigrizia che mi fa chiudere questi brevi appunti sempre con parole di altri. In questo caso di Manoel De Oliveira che alla mia domanda, ottusa, su quale età avesse il cinema, per lui che aveva iniziato con il muto per finire un secolo dopo, mi rispose semplicemente: ha la stessa età di quando è nato. L’uomo, e la vita, resta un mistero, e il cinema cerca di proiettarci sopra le sue luci (e di ingannarlo con le sue ombre).
Il corporale, il materico sudamericano, viatico del magico: sugne, bagatelle, ruderi scorciati; qui formicola il mondo crudo e polveroso secondo un immaginario, una concrezione, una crosta che si estende da Rulfo a Bolano, passando per Ripstein, Osvaldo Reynoso mentre ancora rimbomba l’allucinazione di Osvaldo Lamborghini. Contorsioni ossute, spasimi da fumo, da crack nella carne del film, della pelle: la pellicola, 16 millimetri di pellicola (poi trasposti in 2K che lasciano allibiti di fronte alla definizione delle immagini: non un pixel, non un accartocciamento delle cose, un accasciamento delle linee, un accorciamento della luce alla prova della visione in digitale; millimetri e millimetri di materia immaginale che si convertono in magma di bites reggendo; è una transustanziazione, un mesmerismo dentro la storia, dentro la sincronia, la teoria dell’immagine), si fende, apre voragini in sé a cui Nut s’affaccia ricevendo in pieno volto un vento a base di muffa ed eco da lì dove fermenta il sottosuolo, «niente più di una luce», dice Nut facendogli eco Baby, da cui poi si sgranano colori, suoni, i significati delle cose. Il girare - a vuoto, stantio, stanco - di Nut pur essendo fatico - politico, poetico - aspira al minimo, all’astratto, a una monodia di luce in cui perdersi per non sentire più il peso delle cose, dei ruderi, di case accatastate, addossate l’una sull’altra nei suburbi colombiani. E mentre fa questo cabotaggio, carotaggio verso l’essenza, l’informe («il mondo sarebbe semplice se esso rimanesse informe»), il sibilo esclusivo dei significanti, del significante primevo, la luce, Los Conductos (miglior opera prima alla Berlinale 2020) diviene sbaraglio di forme dicendo, mostrando l’impossibilità di uscirne: delirio sorto dalla corporeità della visione di Camilo Restrepo, come già nei suoi cortometraggi.
Le immagini, attingendo alla cosiddetta diegesi (il rifugio costituito da una fabbrica di stoffe in cui si pigmentano, si impregnano di pitture sgargianti i tessuti, magliette, tendaggi) si saturano, si estenuano di colori già a partire dai quadri iniziali dei titoli e poi di quelli finali, fauvistici; si fanno superficie porosa, ruvida di tele a tempera; si sperimentano su sfondi improvvisi ai fosfori verdi, ai fosfori rossi, poi neri, baratri, grigi giri su strade, dentro gallerie percorse a ritmo di techno da un’auto-da-scontro fatta di vecchie lamiere: gialle e rosse. È il delirio, il deambulare di un umano randagio per la città, alla ricerca di un cuore di rame divenuto grosso gomitolo di lana alla fine, in una parata paramilitare: il trascinarsi sulla terra delle forme, delle soluzioni, ingiunzioni sociali che diserbano gl’io, gli tolgono aria, luce. C’è un trascolorare continuo in questo film prodigioso - tanto profetico, lirico, quanto periferico, stracciato e teppista -, un transito del realismo fatto del corpo, della pittura (carne, tela, pellicola, colore come sangue dell’immagine) nel magico stravolto, onirico, impresso nei bulbi oculari di Nut. È un film di collegamenti, di ellissi in cui le immagini sono libere di significare al di là dell’assunto arrivando a una ritualità notturna, che si svolge intorno a un fuoco e al cuore di rame: ruvido realismo e mito, tragedia costellata dal coro, come una preghiera rabbiosa che sfocia nella cerimonia del cielo dopo i titoli di coda. Abbaglia in mistica percussione, rimbombo che viene dalla terra segreta, profonda; persiste di nuvole e soli, rimugina sull’origine, sul tempo, al di là del tempo (di una sequenza).
È senza dubbio da seguire il caso recente di alcuni notevoli film provenienti dalla Georgia. Insieme al secondo grande film di Alexandre Koberidze in Concorso alla recente Berlinale (ne parleremo in futuro), emerge Beginning (Cannes label), opera prima della giovane Dea Kulumbegashvili (già ben conosciuta per i due corti d’esordio Invisible Spaces e Lethe). Beginning introduce chi guarda in una zona sensibile, altamente pittorica, e invita a interrogarsi sui limiti dello sguardo. Non solo per ciò che avviene all’interno dell’inquadratura, ma per la sua misteriosa qualità nel contenerlo e sprigionarlo, sfidando l’occhio a installarsi in uno spazio insieme di granito e attraversato da correnti fulminee, impetuose. L’inquadratura fissa che apre il film nella casa dove si riunisce a pregare una comunità di Testimoni di Geova colpita all’improvviso da una bomba incendiaria; quella notturna in una radura dove l’acqua scorre tra le rocce e in cui lungamente e in campo lungo si osserva impotenti lo stupro della protagonista; quella diurna nel parco dove la donna viene colta da un interminabile profondissimo sonno chiamata invano a ridestarsi dal figlio (qui siamo dalle parti di Ordet). Tempo e spazio si accavallano secondo le regole di una danza inquieta e inquietante, che unisce un’idea tarkovskiana di sacrificio e di messa a fuoco a certa tendenza contemporanea di connubio tra ‘arte’ e cinema. Non c’è tuttavia nulla di programmatico o estetizzante, piuttosto un’impressionante durezza di intenti mista a una sorta di tenera fiducia nel filmare. Filmare inteso come cura, l’orrore e il dolore si depositano inesorabili ma l’intensità di mise-en-scène diluisce, invita alla riflessione, amplia liquidamente la visione (decisa a farsi visionaria, come nella svolta trascendentale quasi paradjanoviana del finale). Dea Kulumbegashvili gira il film nel famoso 1:33 destituendolo dell’effetto claustrofobico che gli è stato assegnato o che forse implica, e invece ottenendo un salto spirituale attraverso l’insistenza, l’ostinazione del guardare. Poi certo c’è la storia di Yana (Ia Sukhitashvili, sorprendente), la cui battaglia passa per la messa in crisi di ogni convinzione imposta dall’esterno e per una liberazione dal simbolico come oppressione ideologica (sia religiosa che di arcaica violenza quotidiana). Eppure anche l’evoluzione del personaggio si distacca subito dal mero intreccio o contenuto e riesce a muovere corde più segrete, difficili, invisibili. Come se fosse un ospite arcano, Yana assume su di sé lo sguardo che l’inquadratura teorizza e lo traghetta in un’altra dimensione che starà a chi compie il viaggio decidere se fatta di luce o di tenebre (c’è nel film una densità atmosferica, la luce reagisce al tempo e allo spazio vissuti da Yana, passa dal rosa livido di un crepuscolo d’incendio alla notte gelida dello stupro). In entrambi i casi per Yana si tratta di ritrovare, anche attraverso il silenzio e l’introspezione, la parola smarrita, ed è per questa ardua ascesa che Dea Kulumbegashvili letteralmente le fa spazio, ritrovando nell’immagine in sé la possibilità di una rinascita. Non si tratta solo di osservare, ma di cogliere lo spazio vitale che nel tempo conduce alla comprensione dell’altro.
Sembra che Jim Cummings nella sua giovinezza abbia letto a più non posso William Faulkner. Non che questo ci dia un particolare indirizzo di lettura su questa strana creatura borderline che comincia a dirigere film per caso, per vedere se è capace, e a esserne il protagonista per gioco mentre nel frattempo si ostina a infestare l’Internet (area letterbox/reddit) con feroce bulimia. Certo, c’è il masochismo delle dichiarazioni, l’isolamento, la schizofrenia del suo alter ego… Diciamo che, per uno ossessivamente collegato alla rete, il fatto che poi diriga film duri e omogenei, dove la crepa della follia non riguarda la messa in scena (adrenalinica e grottesca, mai cool) ma la caduta nell’abisso di un personaggio, rende più coerente, nel lavoro di questo grande incosciente, l’amore per Faulkner. The Wolf of Snow Hollow prosegue (dopo la sorpresa Thunder Road e in attesa di The Beta Test) la lista di mad cops cui Cummings presta il volto. Più che mad, psycho però, nevrotici assoluti che assorbono come spugne le nevrosi che li circondano (luoghi sull’orlo di una crisi cosmica: Texas, Utah, Hollywood…). I film stessi ne risentono, fuori controllo e disarticolati, nascono giusto prima dell’urlo liberatorio (che peraltro non porterà a nulla se non a cadere ancora più in basso e a perpetuare il dolore). Si ride? Si. Ma di una risata ghiacciata, maledetta. Cummings ha questa perversione voyeurista di osservare qualcuno andare in pezzi, all’improvviso, e poi di rincorrerlo in una escalation senza vie d’uscita. Con un piccolo stadio di perversione in più però, costringere lo spettatore a fare il voyeur del voyeur (anche qui senza vie d’uscita). E, come sa chi passa il suo tempo in rete, se fai troppo a lungo l’esperienza del vuoto il vuoto ti appartiene. Alla fine, che ci sia un serial killer travestito da lupo o un lupo mannaro che per davvero uccide le donne del paesino, è più rassicurante. Certo più rassicurante del poliziotto di provincia forse misogino forse no (ma neanche seriamente, così, per nevrosi, si è detto) che perde la testa. Eppure come non provare simpatia per Cummings che lo interpreta così com’è, instabile e perennemente vicino a esplodere; o per il fatto che fa recitare un’ultima volta l’immenso Robert Forster con fattezze simili agli altri due ruoli finali in Breaking Bad e Twin Peaks: The Return (è suo padre, l’anziano saggio sceriffo, verso cui ovviamente ha un mostruoso complesso di Edipo). C’è anche un omaggio agli anni ’80 (John Landis, Stephen King), ma non è importantissimo. Più interessante come non ci si possa ritrarre dall’ammirare tanta rabbia non incanalata o incanalata male, poco ironica e molto schizoide. Questa frontalità è la sua marca filmica, o qualcuno potrebbe dire la sua ottusità. Entrambe le verità vanno a comporre l’ipotesi di uno sguardo, che sembra crescere con tensione non usuale. Chi vivrà vedrà.
I sogni e gli incubi nel cinema di Michel Gondry prendono forma simultaneamente. C’è proprio l’impossibilità di poterli filmare ma solo avvertire. Kidding, la serie tv trasmessa da Showtime e creata da Dave Holstein, dove Gondry ha diretto 8 episodi nelle due stagioni in cui è andata in onda (la terza è saltata per il basso share della seconda), non è soltanto la possibile sintesi tra Se mi lasci ti cancello e L’arte del sogno. Kidding porta inscritte in maniera esplicita le forme del mélo più diretto di Gondry, con tracce claustrofobiche che arrivano da Aldrich. Jeff Piccirillo/Mr. Pickles è una possibile reincarnazione al maschile di Baby Jane. La casa dove vivevano le due sorelle interpretate da Bette Davis e Joan Crawford è il set, lo stesso che nel cinema di Gondry è, contemporaneamente, prigione e rifugio. Ma anche il luogo ipnotico dove si possono raccontare, con tutta la libertà possibile, tutti gli amori e le illusioni. Dove i protagonisti, che possono apparire apparentemente come dei pupazzi manovrati dal suo creatore (lì c’è stato a suo tempo uno sbaglio di interpretazione critica proprio nell’associazione del cinema di Gondry con la scrittura di Kaufman), prendono invece una vita propria. In Kidding Mr. Pickles sfugge al controllo di Jeff. O anche Jeff da Mr. Pickles: Jim Carrey si sdoppia ancora una volta in una prova dove il suo personaggio, come Truman, come Andy Kaufman, come ancora Joel in Se mi lasci ti cancello, non riesce più a scindere il proprio passato dal presente. I ricordi diventano la sua trappola, proprio per il fatto che non possono essere più cancellati. Anche qui non ha età. È da tempo (dall’infanzia?) la star di un popolarissimo show per bambini. Canta e diffonde il suo sorriso contagioso. Poi c’è il trauma che manda tutto all’aria: la morte di uno dei due figli in un incidente d’auto. Non c’è più l’impossibilità di fuga. Il padre, interpretato da Frank Langella, è il produttore del programma dove lavora anche la sorella (Catherine Keener).
L’estasi del caos, in una serie tv come Kidding ha qualcosa di rivoluzionario. Innanzitutto perché Carrey la attraversa non come se la interpretasse ma proprio ci abitasse. Quasi una reincarnazione di Truman, dove sono gli affetti e la famiglia a generare una malata dipendenza da lui e a sopprimere in realtà ogni forma di desiderio. Eppure per l’attore statunitense i tempi delle serie sono qualcosa di raro nella sua carriera; era stato infatti protagonista all’inizio degli anni ’90 di una sketch-comedy In Living Color, per cinque stagioni. In Kidding ne restano dei residui, come le risate in studio. L’elasticità del suo corpo qui si immobilizza. Resta solo la smorfia sul viso. Infine, Gondry sembra lasciare il segno anche negli episodi che non ha diretto. La sua è un’identità tale che ha lasciato il segno in tutta la serie. Nel mostrare la famiglia di Jeff, entrano in gioco anche gli spettri. La sua famiglia viene gradualmente scoperta, in modo simile a quella della zia del cineasta mostrata nel documentario L’épine dans le coeur. Attraverso lo sguardo di Jeff si rintraccia la vita degli altri. La stessa da cui il protagonista viene estromesso. Spia dalla finestra l’altro appartamento dove vivono l’ex-moglie con il nuovo compagno e il figlio. Guarda il figlio al cimitero alla tomba del fratello. Ma sono distanti. Lui da una parte. Lei dall’altra. Nulla ha più senso. Né l’amore né la morte. Non vuole restare sé stesso e non riesce mai ad avere il coraggio di cambiare totalmente, come nell’immagine in cui si vuole rasare i capelli ma lascia solo il segno in mezzo alla testa. Anche Jeff/Mr.Pickles, come avviene spesso nei film di Gondry, ogni tanto però vola. Nella pista di pattinaggio, sulle note di Nino Rota di Amarcord. Si, tirando in ballo Fellini ogni tanto gli incubi possono diventare sogni. Si possono fabbricare come in L’arte del sogno ma anche Be Kind Rewind. Il cinema, la tv (chi se ne importa) è la materia. E viceversa. Già si vede nei titoli di testa. Per un po’quindi i sogni possono dare ossigeno, far esplodere il caos che è poi l’unico vero desiderio in Kidding. Quanto può durare?
L’attrice Berth Bovy, un letto, un telefono. Questo fu il primo allestimento de La voix humaine, monologo di Jean Cocteau presentato alla Comédie-Française nel 1930. L’idea dell’autore era quella di mostrare una donna completamente devota al proprio compagno nel corso della loro ultima telefonata, in seguito alla scelta di lui di rinunciare a quella relazione clandestina. È una scena da sempre presente nei meandri della nostra psiche, tanto che non udiamo mai le parole dell’uomo ma sono estremamente semplici da immaginare. Lo sono anche quelle di Elle in effetti, perché come scrive Barthes, «il testo amoroso (un testo e niente di più) è fatto di piccoli narcisismi, di meschinità psicologiche; esso non ha grandiosità: oppure la sua grandiosità (ma chi è che, socialmente, può ravvisarla?) sta appunto nel non poter raggiungere nessuna grandezza, neppure quella del “materialismo spicciolo”». Insomma la grandezza sta nel girare intorno a qualcosa di enorme, misterioso, che viene avvicinato attraverso balbettii e frasi di circostanza. Frammenti di un discorso amoroso è un libro in sintonia con il monologo di Cocteau perché ci mostra il carattere archetipico e sovrapersonale dei discorsi d’amore, è in questi casi più che mai che siamo parlati da parole che ci precedono, immagini che ci sfuggono, divinità che si perdono nel tempo.
La forza del testo risiede quindi unicamente nell’interpretazione, nella voce appunto. In tutte quelle sottili sfumature che si concretizzano in un timbro unico. Nelle numerosissime messe in scena de La voix humaine da novant’anni a questa parte si manifestano allora altrettante variazioni su tema di un copione invisibile, andrebbero osservate in controluce per carpire la filigrana di un dramma universale che continua a parlarci.
Dal 1930 passano diciotto anni e una guerra fino a al momento in cui Rossellini recupera il testo e lo fa interpretare alla Magnani ne L’amore. Rispetto al lungo vestito bianco e ai capelli raccolti di Bovy, la grande attrice romana porta con sé un’altra immagine. La disperazione amorosa abbrutisce perché se non si mangia più, non si dorme più e si ingeriscono delle pillole per giocare con la morte, sarà difficile apparire come ninfe leggiadre. Il dolore è brutto, è sporco, è animalesco. Non c’è nessuna redenzione nel soffrire ma solo un toccare il fondo. Questa interpretazione magistrale della Magnani portò ad una vera e propria esplosione, il monologo negli anni ’50 e ’60 verrà proposto un’infinità di volte a teatro, al cinema, in tv e su dischi 33 giri. Uno strano scherzo del destino (?) fa sì che nel ’66 anche Ingrid Bergman interpreta The human voice in un adattamento televisivo diretto da Ted Kotcheff. La versione operistica di Francis Poulenc per soprano e orchestra del 1958, con il libretto curato sempre da Cocteau, inaugura un percorso parallelo anch’esso molto fortunato (che giunge fino all’allestimento di Emma Dante ai giorni nostri).
Almodóvar aveva già preso ispirazione da La voix humaine per Donne sull’orlo di una crisi di nervi. Tanti anni dopo ha scelto di tornare sul testo, riscrivendo lui stesso le parole di Cocteau in spagnolo per poi tradurle in inglese, operazione indolore proprio per il carattere universale del discorso amoroso. La scelta di fondo è sostanzialmente opposta a quella di Rossellini: il film è ambientato in una casa estremamente curata, con quadri e mobili di classe, Tilda Swinton indossa vestiti eleganti e alla moda, utilizza profumi costosi mentre la cornetta del telefono è sostituita da dei modernissimi airpods. Un richiamo alla frivolezza del mondo cinematografico dichiara il regista, ma sembra anche un’allusione al fatto che qualsiasi donna, non importa quanto agiata e cultivée, possa trovarsi in questo ruolo. Nella sua compostezza British, l’attrice trasmette un dolore sordo e profondo. Un elemento importante è il ruolo di primo piano affidato al cane, già evocato nel testo. Il padrone dell’animale è sempre l’uomo in fuga, che l’ha lasciato alla donna senza fare complimenti, contro la sua volontà. Entrambi sono stati abbandonati ma il cane rappresenta una sorta di ancora per Elle, un appiglio alla realtà e alla vita, a qualcosa che esiste al di fuori del dolore lancinante. Naturalmente è anche un essere non colpevole, rispetto alle turpitudini tra cui si destreggia l’amante-essere umano. Swinton ha dichiarato che, lei lo sa per certo, la vita di una donna sola con un cane è una bella vita. Ad ogni modo, l’animale potrebbe essere una chiave importante per il finale, in cui Almodóvar ha inserito la nota più originale. Laddove la Magnani terminava con un lungo pianto, il regista spagnolo ha ritenuto necessario un momento di riscatto: Swinton esce dalla casa (insieme al quadrupede) che viene mostrata per quella che è - un set costruito all’interno di un ambiente molto più grande - e le dà fuoco. Un epilogo totalmente diverso dall’originale. Il momento di vendetta, con tanto di esplosione ed effetti speciali, potrebbe apparire un po’ forzato, è interessante però l’idea di abbandonare o distruggere il teatro mentale: la casa non è una prigione, anzi, non ha neppure le pareti. Il punto è riconoscere la finzione, capire che si può sfuggire al ricatto. È chiaro che, senza voler cavalcare nessuna onda, The human voice pone la questione delle specificità ataviche dei sessi - è possibile immaginarci una versione al maschile? Perché sembra così difficile (tanto che nessuno ci ha mai provato)? Le parole dall’altro capo della cornetta, potrebbe pronunciarle una donna? Sono ancora quelle immagini antiche che vanno interrogate, o quei frammenti di discorso; intanto nel corso degli anni nuove sfumature sono state aggiunte al ruolo, sempre più distante dalla vittima sacrificale di Cocteau, fino al fuoco di Almodòvar.
There is that one word
which one must
define for oneself, the word
Us
Inizia così l’elegia cinematografica che Olivier Derousseau consacra al Northern Range, al nord marittimo francese, muovendosi tra Graveline, Petit Fort Philippe, Dunkerque e Calais.
Us/noi che Derousseau si ostina a cercare senza sosta in un territorio spossessato, devastato, evocativo di passaggi e paesaggi storici e politici importanti nella storia d’Europa; e lo fa usando la camera e il microfono come strumenti di ricerca archeologica.
Disegna una mappa che va a sovrapporsi alle carte navali di quel Northern Range che ormai si è spostato più a Nord verso Anversa, Rotterdam e Amburgo, anticipando la Brexit che avrebbe alzato un nuovo muro invalicabile attraverso la Manica.
L’histoire loin de “se détourner des événements [...] en élargit au contraire sans cesse le champ; elle en découvre sans cesse des couches nouvelles, plus superficielles ou plus profondes; elle en isole sans cesse de nouveaux ensembles où ils sont parfois nombreux, denses et interchangeables, parfois rares et décisifs” (Michel Foucault, L’Ordre du discours, Paris, Gallimard, 1971, p.57)
E Derousseau sembra cercare e incontrare il noi in quegli strati sempre nuovi che la storia lascia scoprire a chi la sa archeologicamente e cinematograficamente raccontare.
Paradiso perduto
La luna piena sta calando, un uomo in casa suona una Lap Steel Guitar, creando un suono che nel suo minimalismo non smetterà per tutto il film di moltiplicare “les couches”, gli strati.
Sabato 8 ottobre, 8:00, stanza, primo piano, microfoni direzionati verso la finestra, centro stanza, finestra aperta.
La luce filtra dalle finestre e riempe la casa: un mappamondo; delle peonie rosa recise; una fessura; la luce diventa un occhio e si apre al mondo esterno; abbagliante; nevica; una grande chiatta taglia la luce lattea.
Litorale
Una sdraio sulla spiaggia al sole.
È primavera.
6 aprile 2017, Dunkerque, Malo, sulla spiaggia, microfono verso le reti che trattengono la sabbia, molto vento oggi.
Improvvisamente la spiaggia si riempe dei fantasmi dello sbarco.
Immagini di un film che forse era Dankirk o poteva essere Dunkerque; e i set kolossali che erano stati costruiti vengono smantellati.
In mancanza di una necessaria cultura della disinformazione, occorrerebbe almeno seguire il consiglio dell’antico stoico che raccomanda a un amico di non riferire tutto agli altri mettendolo in guardia contro il troppo pieno dello sguardo. “Si accumulano, infatti, innumerevoli parvenze e immagini di cose visibili, le quali entrano attraverso i sensi del corpo e dopo essere state fatte passare una per una si addensano in massa nei penetrali dell’anima e la appesantiscono e la intorbidano, non essendo essa a ciò creata, né capace di contenerne tante e tanto difformi. Deriva da qui la peste dei fantasmi che erompono e stracciano i vostri pensieri, e con la mortifera mutevolezza chiudono la strada a quelle illuminanti meditazioni con le quali si sale all’unico e sommo bene” (Francesco Petrarca, Secretum. Il mio segreto). Quegli spiriti che non moriranno di fame, mentre noi, invece moriremo” (Paul Virilio, Lo schermo e l’oblio, Milano, Anabasi, 1994, pg. 69).
I fantasmi diventano carnevaleschi e, afoni, calpestano quelle spiagge ormai deserte da cui i migranti cercavano di raggiungere l’Inghilterra.
Inghilterra.
Gli occhi cavi e ipnotizzanti dei Borghesi di Calais di Auguste Rodin che arrivano dalla Guerra dei 100 anni, tentando di sconfiggere gli inglesi e vanno verso un futuro di zombie sconfitti morti di fame.
Calais, stesso posto, sono dietro al muro, ai piedi del pilone, l’autostrada è a sinistra, il microfono è orientato verso i mezzi in transito.
e campi di grano; l’estate; tra i covoni spuntano bunker, residui archeologici di altre Brexit; un crocefisso gigante con un Cristo bianchissimo guarda probabilmente le bianche scogliere di Dover; e poi la JUNGLE…
Muro - infiniti muri
Un uomo su una battigia deserta sembra volersi immergere in acqua e allenarsi per attraversare il mare.
C’è vento. Si intuisce il freddo.
La musica suggerisce un dolente film western che non esiste più.
Un treno attraversa i campi al tramonto circondato da reti metalliche invalicabili e arriva a Calais
We don’t stop that
we, one night
but we, two nights
at least
more precisely at the very point
where the two nights conjoint
or, rather, where they cannot spread
and what was inscribed in the word of this un-separation
without failure
that which was leave now
but did not simply disappeared
this time till exist
even if we don’t know where
and even if there is no one to recall
sussura una voce con un accento non europeo.
Sirene
Un caro amico è morto e le peonie rosa crescono vicino alla sua tomba.
Era un direttore della fotografia e un disegnatore.
Le immagini.
Il tempo.
Gli strati delle storie.
We don’t know exactly what to do
with the time that had existed
we know that it is practically inaccessible
but we don’t know what do with this lack of access
we/us/noi
Di nuovo la voce non europea ci inchioda ai nostri confini (d’Europa) e al cinema che solo può immaginare qualcosa capace di riempire di vita il lack of access.
Automobili di medio/alta gamma entrano con compostezza nel treno container che passa sotto la Manica. Il treno sembra uscire da un film distopico di fantascienza degli anni ‘70 rivisto da Roland Emmerich: potenza di classe che sola può attraversare il muro d’Europa.
Mentre l’unica sirena che vorremmo poter incontrare è Cher che canta The Shoop Shoop Song.