"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Cinema dello scrostamento, quello di Ghassan Halwani. Opera prima che narra lo sradicamento, l’esilio, l’assenza e la tenacia della memoria, Tirss, rihlat alsoo’oud ila almar’i (Erased, Ascent of the Invisible). Un cineasta, il libanese Halwani, che incarna un fare cinema r/esistenziale seguendo un percorso d’avanguardia nel quale abitano inestricabili la fissità e il movimento, le riprese dal vero e l’animazione, la parola e l’immagine che, entrambe, non sono mai una ma plurali, contenendo in sé una stratificazione senza fine di altre parole e immagini da far ri-emergere nella loro fragilità e, al tempo stesso, solidità. Tirss è un testo estremamente fisico proprio nell’urgenza di ri-portare in primo piano, con ostinazione, una materia (il corpo dell’Uomo, i corpi di una moltitudine di persone massacrate, disperse in fosse comuni, fatte sparire) strategicamente occultata da una politica di sterminio. Libano. 1975-1991. La guerra civile. 1982. Il massacro dei profughi palestinesi nei campi di Sabra e Shatila alla periferia di Beirut. Episodi che ormai fanno parte della Storia. Eppure. Una fotografia in bianconero scattata nel 1985 o 1986 può ri-attivare il pensiero e l’azione per scendere in profondità, immergersi nel corpo del rimosso nel tentativo di incontrare l’immagine originaria, di a-scendere per osservare, ri-trovare, quello che, più che cancellato, è stato coperto dalla stratificazione su di esso del tempo e dello spazio.
Halwani parte da un indizio e attorno a esso vi costruisce un poema lancinante che stordisce lucidamente. Un ricordo (dieci anni fa gli sembrò di scorgere per strada una persona che conosceva e che vide rapire 35 anni prima, non essendo però sicuro che fosse la stessa). La decisione di mettersi alla ricerca di quel volto sepolto sotto chissà quanti strati di manifesti appiccicati sui muri di Beirut. E quella fotografia in bianconero, sulla quale il film si sofferma a lungo e più volte, che gli fu data da un fotografo; fotografia modificata dall’autore che cancellò le persone coinvolte nel rapimento lasciandovi comunque delle tracce. Sono gli elementi che ricorrono in Tirss, cartografia urbana e politica elaborata da un filmaker che effettua un lavoro da archeologo, con le sue mani munite di pennello, scalpello, raschietto, forbici, impegnate a scrostare la carta indurita dai muri lungo le strade, a scorrere con una matita e individuare su una lavagna luminosa dei volti da una massa di foto formato tessera, a ritagliare quelli di un uomo e una donna per poi disegnarli su una carta come si trattasse di un identikit.
Crea linee di memoria, Halwani, e compie una sorta di autopsia espansa: sulle fotografie accartocciate che si trovano sui muri, su quelle pulite e ordinate sul tavolo, sui materiali d’archivio (le pagine dei giornali e le immagini televisive che riportano le notizie del ritrovamento di fosse comuni), sulle mappe aeree delle zone di Beirut (viste ieri e oggi) usate per seppellire i cadaveri, sull’immensa discarica accanto al mare mostrata in dettaglio da immagini del 1991, sul registro delle persone scomparse (migliaia di ‘non-morti’, di ‘immortali’). Un’autopsia della quale sentiamo gli odori, e che Halwani conduce spingendo il suo occhio fino e oltre la distanza più ravvicinata possibile. L’occhio di Halwani, come quello di Brakhage, vuole vedere, e toccare, con i propri occhi - the act of seeing with one’s own eyes (a proposito di autopsie…). Scrostare, entrare, addentrarsi, penetrare, sporcarsi le mani. I suoni della carta strappata dai muri, del suo scollamento, ci restituiscono, altrove, il lavoro meticoloso, infaticabile, di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. Pellicola-carta da srotolare davanti agli occhi, come una pelle millenaria, un sudario-mummia, una pergamena di cui rivelarne la carne (come non pensare alla sigla che Yervant e Angela regalarono ad alcune edizioni, ormai lontane e anch’esse, come i corpi e i volti di Tirss, svanite e nonostante ciò indelebili, del Torino Film Festival…). Altrove, ma dialogante, l’occhio di Halwani e quello di Gianikian e Ricci Lucchi. In funzione, ben aperto, là dove nel mondo sono esistiti ed esistono luoghi devastati dalla guerra per dare loro voce, e voce agli anonimi costretti a subirla, andandoli a cercare quegli anonimi dentro le inquadrature, proprie o altrui, o le fotografie, per restituirli alla visione. Per una durata che va ben oltre quella del film che quelle immagini e quei corpi contiene.
Non è tanto la conta dei caduti a colpire, questa sorta di auto-rivoluzione dark cupissima che conduce alla sconfitta apocalittica e mai vista dei supereroi (l’Uomo ragno?! Muore l’Uomo ragno?!): ma l’immagine subito successiva, uno dei più insostenibili finali di sempre, col vincitore finalmente libero di sedersi e godersi il meritato riposo per aver salvato l’umanità decimandola, anzi proprio dimezzandola secondo un calcolo ben preciso che comprende il suo contrario: morte uguale sopravvivenza. Necessario taglio della specie, su cui il possente mostro violaceo riflette rimirando l’orizzonte e facendosi accarezzare le membra da un dolce pallido sole. In un sol colpo viene spazzato via l’immancabile armamentario di vocaboli di genere, compresa l’ovvietà post-fumettistica dell’intento editoriale che polverizza un intero ciclo narrativo in realtà confermandone l’imperituro (questo sí) crossover.
L’unica cosa interessante dell’attuale dittatura del plot nella narrativa seriale (limitiamoci ai prodotti Marvel per ora), sono le sacche di resistenza che, nel moltiplicare a dismisura ciò che già è bi e tri dimensionale (il fumetto), riagganciano l’immagine in un luogo dove parla una lingua tutta sua e inaspettata. Il fascino assoluto di Avengers: Infinity War non è nella morte degli amati personaggi, ma nello sguardo fisso sull’immagine che si sgretola dall’interno, che si curva al punto su se stessa da arrivare ad auto-intercettarsi altrove, freddamente sinusoidale, scelleratamente impropria e impersonale (visto con i miei occhi un bambino farsi venire in mente, serissimo, di dover fare la pipì proprio durante la battaglia finale, quando gli è diventato insopportabile il puzzo di morte). Troppo cinema laddove non ne è quasi prevista presenza, questa è la vera apocalisse - l’amore per la fine - architettata da Anthony e Joe Russo per sfuggire al loro destino di shooters: ogni supereroe che sparisce o che si immalinconisce per la perdita di un suo compagno è un tassello che li conduce sulla strada della regia.
Di qui anche l’aspetto politico. Rischiare tutto nel procurare traumi e rivalse non fra i protagonisti ma fra un’immagine e l’altra, con l’idea che il conflitto sia l’unica sponda filmica (e non solo) possibile. Perciò non pù solo splendide coreografie, ironia ridotta all’osso, cupo senso di impotenza: e l’impatto annichilente con un altro orizzonte che letteralmente rompe con la verticalità e torna al corpo a corpo, all’irrisolvibile problema morale. Ossimori, contraddizioni in termini: genocidi eticamente necessari, godimento assoluto dell’hybris che, negando ogni tragica tradizione, conduce finalmente alla vittoria.
Curiosamente allora, laddove è sovraccarico il film e troppo potente il nemico, progressivamente Avengers: Infinity War assume un’aria di funerea elegia, diventa quasi sottile, si inventa un cimitero marino che ricorda i colori dell’aurora, in cui le tombe non portano dolore ma diffondono una luce necessaria e inaccettabile insieme. Vita e morte, rese indistinguibili, producono una strana forma di accecamento che coincide con una diversa possibilità per il visibile, finalmente libero (che lo si creda o no, che se ne sia consci o meno) dal business seriale.
Quando il confronto armato non è più equilibrato, e una delle forze in campo è strapotente, quel che accade oggi nella Palestina sotto il dominio israeliano, nella maggior parte della Siria di Assad e dei Mig russi dopo oltre sette anni di guerra incivile, a parte il nord-est e un po’ di sud, e in Avengers: Infinity War (con i super eroi Marvel, per la prima volta, annientati da un super malvagio), l’immagine “resterà l’ultima linea di difesa contro il tempo”, documenta quel che accade.
“Qualunque cosa avverrà, e speriamo nulla di grave, l’immagine testimonierà i fatti, per i prossimi 50 anni”, ci dice questo film d’arte e di artisti combattenti (pittori, scultori, musicisti, cineasti e body-artisti) nelle prime sequenze. C’è una energia e un entusiasmo alla Dziga Vertov in questo gruppo di amici e amiche che danzano, vanno in piscina in bikini, si baciano, fumano (finché ci saranno sigarette e canne) fanno rap graffiti, discutono via radio con il nemico, e si tatuano. “Certo che ci piace vivere e alle manifestazioni dove ti sparano addosso non vogliamo più andare, per non scappare di continuo, ma affrontare questa morte con le armi in pugno per la libertà e l’eguaglianza è vivere di più”. Amiralay non è passato invano. “E poi la macchina da presa, dopo di noi, continuerà a inquadrare e a fabbricare immagini”. Non lo dice nessuno ma è questo che pensano questi ragazzi post umani.
Immagini. Non il visuale che ci ipnotizza nelle effigi giganti dei dittatori o nei tg, anche democraticamente sponsorizzati, rafforzando il potere delle parole d’ordine e dei “fake men”, ma l’immagine che scioglie le facili sintesi, libera dall’ordine e dalle gerarchie, interrompe i giuramenti e non ha paura del proprio sembiante spettrale. “Se si sa perché si ha una telecamera in mano. Se si trova il momento chiave per iniziare un film”... l’illusionismo diventerà illuminazione. I cadaveri gelidi, a Douma, 28 giugno 2012, di decine di cittadini inermi passati per le armi dalle truppe di Bashar al-Assad, sono la luce che dà energia e miccia d’accensione iniziale a questa bomba spirituale.
Presentato con successo in prima mondiale alla Mostra di Venezia e presto distribuito in Italia, Still Recording, film indipendente e outsider, nonostante il punto di vista politico coincida con i finanziamenti, ma “non omogenei”, di Qatar e Francia, è un accurato montaggio di due ore che scorrono rapide, incalzanti, fulminee, delle 450 ore girate fino al 2015 (anche da cameramen rimasti uccisi nel conflitto) nei dintorni di Damasco. Sulla guerra vista, combattuta, e subita, e dal di dentro. E inizia come un saggio da scuola, proprio con una lezione di cinema. La Siria è in rivolta dal basso contro il tiranno, c’è la capitale a portata di armi. Grande è l’ottimismo. Si studia un film d’azione e di mostri americano. Si ammira la perfezione di ogni shoot. L’inquadratura, come la mira del fucile, quando è perfetta trasforma il fotogramma in un frame autosufficiente, bello come una fotografia. “Notate la linea di sguardo del mostro, e lo spazio vuoto che attraversa...”. Riuscire a muovere attraverso una geometria di linee e sguardi ciò che è fermo. Non sanno ancora che Douma bombardata, chimicamente gasata e distrutta fino al 2018 si arrenderà definitivamente, al mostro, ad Assad, che ha trasformato la città in un vuoto assoluto, i giovani registi siriani Saeed Al Batal e Ghiat Ayoub che si schierano subito con l’Esercito siriano libero. Nonostante l’alleanza con i sunniti più fondamentalisti, i soldi sauditi e un po’ di fanatici religiosi che odiano i loro capelli lunghi, decidono di piazzare telecamere mobilissime come sensori subcutanei sulla linea del fronte, fino alla fine. In un documentario standard e in un real-movie si cerca il personaggio guida giusto e accattivante. Qui no. Le direzioni sono multiple. Il filo del discorso è futile. Nel senso etimologico dell’incrinatura nel vaso da cui fuoriesce l’acqua libera. Tanto che i nostri neuroni specchio, forse a causa del continuo muoversi della macchina dentro le macerie, quasi si volesse compiere un rito di resurrezione del cemento, si identificano più che con gli umani (una donna che cerca la madre e si scandalizza dei musulmani che sparano contro musulmani; il bambino testimone freddo di un eccidio; l’atleta che continua ad allenarsi tra gli spari perchè lo sport come la vita vince anche sui cannoni, il combattente che si sposa, il graffitista che dipinge su un muro, “non riconciliati” perché ci sono cose che non si possono comprare...) con i sacchi di terra utili al cecchino per proteggersi; con le pietre urlanti sul selciato divelto, con i muri sbriciolati dei palazzi, con i buchi che lo sniper deve fare, meglio se due, per proteggersi e colpire di più; con l’ascensore rotto che permette una carrellata verso il basso mai vista; con un tunnel sotterraneo lisergico; con un camera-camion ad alta velocità in un cunicolo che eguaglia per virtuosismo il finale di Guerre Stellari.
You have to hand it to Gaspar Noé: he sure knows how to catch the viewer off guard. As much as you may dislike him, Noé always finds a new way for you to hate him. All this obviously looks like a perfectly oiled self-promotion engine that works brilliantly, especially in the festival circuit and in the programmers' outback. The director himself came up with a brilliant press release in which he mocked critics about their dislike for his work (the short version for it is basically, “Now try this!”). But what looked like a brazen act of bravado is actually, if you pay closer attention, a request for a conversation that is yet to be had on his work. Because if you shed away all the gimmicks and effects that create the white noise which is the stuff people talk and write about when they think of Noé, what you are left with are still images. Sometimes, quite unique images that conceal rather interesting films. Let’s put it this way: what if Gaspar Noé was the equivalent (with all the shades of obvious differences in-between...) of William Castle in the European art-house auteur-driven cinema? Castle knew how to get some serious kicks out of his audience and promote himself as a patented and trustworthy “shlockmeister”; “tingling” them to get jolts and chills worth their money. Noé evidently dreams of being an important auteur with a capital A. He grew up devouring tons of films, the “good” ones with the “bad” ones; he craves recognition even though he might pretend otherwise. On the other hand, he simply cannot resist a “good” trick. He loves to play with cinema. He has this carnival side to him that comes directly from the cheaper and sleazier B-movies he adored on VHS (some of the same ones he tributes with an irritatingly sincere homage in the opening of Climax). Sometimes it works (depending on your taste...), sometimes it doesn’t. Sometimes, you just get glued to the screen even though you can’t help thinking something has gone completely wrong while at the same time you reluctantly admire his childlike arrogance that gets its claws in you through sheer willpower. Climax works like this. It (seems to) offer(s) itself like a reflection on the French state of the union in the wake of the Bataclan massacre proudly declaring its Frenchness (like a long delayed nod to the expired “French touch” in house music...) and thus immediately injecting the viewer with the suspicion “Is this the way self-styled cool auteurs have gone Macron?”. But you need to hang on. A fierce and frenzied choreography, filmed in one breathtaking take, unfolds for what seems to be an eternity... and then it goes on and on. But some cracks begin to appear... while the long take goes on. The perfectly-knit unity of the dance ensemble falls apart while the film gets tighter and tighter. A thought begins to loom: could this be Noé’s take on Argento’s Suspiria? All the clues are there: a dance academy, a mastermind that drives everyone else crazy, a huis clos, the overbearing presence of pulsating music. Climax is Gaspar Noé literally taking his cinema into the void. Relentless and brutal, yet exhilaratingly intoxicating, he literally raises a hymn to the yet unseen possibilities of cinema. The physicality of it all is the perfect reminder that cinema is still something that you craft. Bodies, lights, movement, angles: all these elements come together in Noé’s Climax in a declaration of love: this is how we still make cinema. The slightly disquieting authoritarian stance of Irreversible is gone, but Climax is no less discomforting. You can feel that the architect twirling above has let go of his grip on the viewer’s eyes (it already happened with Love) but the outcome isn’t bleak any lesser. Cinema is no longer a collective dream (or project...) but a bad acid trip gone awry. Climax is the film showing how France (and the rest of Europe and the world as well...) rips herself apart. It’s ugly, violent, but weirdly fascinating as well. Noé’s long take feels like a documentary observational strategy. An exercise in entropy. As if cinema were really the very last element trying to keep it all together... but it is obviously bound to fail. Noé’s sardonic and bitter grin suggests that his film should have been branded anti-Climax... “not with a bang, but a whimper”. And, for once, even though some hints were already available in Enter the Void and Love, Noé really seems to care. Which is good news.
Singolare, e forse doveroso, che il film di chiusura di questa edizione (e, forse, anche di questa epoca) della splendida sezione “Signs of Life” locarnese fosse un’opera come Hai shang cheng shi (The Fragile House) del giovane Lin Zi. Un film programmatico e umanissimo che vive del suo mistero continuo ed individua - anche inconsapevolmente - quali siano ancora le traiettorie possibili dell’affrontare il cinema come movimento di immagini, in movimento quasi concentrico attorno alla realtà come ai suoi protagonisti. La chiave è il conflitto e la sua declinazione famigliare, proprio nel veglione di Capodanno, nella deriva di prestiti e debiti all’interno di un paese/continente ormai irriconoscibile, oscillante tra precarietà e vendetta, coscienza ed indifferenza. Il set è una quinta in definizione continua dove i bagliori scomposti dei fuochi artificiali si scontrano con una notte claustrofobica al commissariato. La morale (?) è un viaggio, definito a parabola di una notte, nei piccoli e grandi disastri della miseria umana e della provvisorietà cui essa continuamente ci pone di fronte.
La sostanza messa in scena dalla forma. Nella lite tra sorelle come nell’implosione dei rapporti c’è la destrutturazione famigliare (e morale) di una Cina in continuo mutamento, che nel suo sviluppo vorticoso esige nuovi possibili metodi di rappresentazione. Impossibile è un unico punto di vista e improbabile una linearità narrativa dato un tempo dilatato ed uno spazio scomposto. Proprio in questo rapporto di opposizione (e vicinanza) lavora Lin Zi sdoppiando - e triplicando – l’immagine in split screen che somigliano a canali istallativi, variando colore vivido e b/n contrastato, riprese fisse e camera a mano, dissolvenze soffici e spaesanti time-lapse. Ecco perché la struttura del poliziesco e i crismi del dramma sociale appaiono come depistaggio o pretesto, un punto di fuga per dialogare sul visibile e sull’apparente, filmare e montare la forma al lavoro della sostanza stessa. Ciò che appare come dispositivo di sofisticazione, in realtà diventa strumento dialettico ed interpretativo tra le parti in campo (e quelle fuori). Fare film politici è ancora fare film in maniera politica, e lo sarà sempre.
Mascherare un’immagine è allo stesso tempo moltiplicarla, renderla più possibilmente completa attorno ai punti di vista, definendo quanto essa (e la narrazione che rappresenta) sia costantemente polimorfa e straniante. Lin Zi ci porta quasi in uno stadio di sogno lucido e stilizzato, abbattendo qualsiasi variabile percettiva nell’ottica di un nuovo possibile pedinamento necessario a descrivere questo mutamento. La sperimentazione formale diventa sostanziale perché sottolinea una realtà straordinariamente complessa e priva di radici tangibili, con figure disperse ed isolate in un paesaggio urbano spaventoso, somigliante a un reticolato mentale in continuo mutamento. Tutto in una notte, un’apparenza che rimane a tratti inspiegabile e misteriosa, profondamente provvisoria. Un film che prova a liberarci da quella (magnifica) ossessione del cinema come questione di spazi o di tempi, cortocircuitandoli a vicenda, rendendo infiniti i piani e le prospettive, alienando prima gli spettatori che gli attori. Lavoro complesso, a tratti sghembo e quasi incomprensibile, che vuole osare e mettere in discussione ciò che stiamo guardando nell’ottica di quello (e non solo l’anno) che verrà; ma cos’è il futuro (possibile), se non questo.
Sono belli e biondi, oppure arcaici e ottocenteschi e hanno sguardi di fuoco come attori hollywoodiani, questi imputati.
Fa invece già paura il calvo, implacabile Andrej Vysinskij - come uscito da un qualunque telefilm britannico invece è proprio lui - questo inquisitore capo comunista che dirigerà le grandi purghe, dal 1935 in poi, ed è già qui, zelantissimo, all’opera. Ne farà una satira feroce nel 1931 il georgiano Mikhail Kalatozof in Un buco nella scarpa che è contemporaneamente la parodia dei futuri processi staliniani e dei film borghesi anti-stalianiani. Infatti fu proibito da tutti.
Ma. Le immagini scintillano. Bianchi e neri che sembrano scolpiti da Boris Kaufman o John Alton... Le manifestazioni operaie notturne di uomini e donne a favore del Partito comunista e contro quei “traditori” da annientare sono gigantesche, religiose (come le interpretò Willhel Reich) e impressionanti. Si vede e si tocca con mano, però, che il carismatico controllo delle masse può significare altro da Roma, Berlino e Tokyo anniTrenta. Certo: piani quinquennali defatiganti, stakhanovismo obbligatorio, migrazioni in massa, sacrifici operai e proletari infiniti, ma anche partecipazione a un immane progetto eccentrico e transnazionale. Costruire un paese ‘altro’, rovesciando gerarchie sociali, giocando con i pregiudizi culturali millenari e puntando completamente su un’altra classe. Fabbricare l’uomo nuovo. Fu poi capitalismo di uno stato solo, non proprio una rivoluzione controllata dal basso e radiante. Ma senza quella fantasia che sconvolse il mondo, sulle ceneri di uno zarismo tirannico e oscurantista, che aveva cancellato (formalmente) la schiavitù contadina solo alla metà dell’800, Hitler sarebbe passato e lo sputnik mai nato.
Insomma. Inizialmente appare quasi un nockumentary, altro che Kafka, piuttosto Hazanavicius, Process (Donbass), che il cineasta ucraino Sergei Loznitsa, studi in matematica e cibernetica, prima di diventare regista, ha realizzato, dopo 25 documentari e film di finzione, autoproducendo per la tv con la sua compagnia, Atoms & Void, e soldi europei occidentali, il montaggio di rari (e inediti da decenni) materiali di repertorio audiovisivi sovietici.
Il found footage che un antico allievo come lui del Vgik (la scuola di cinema di Mosca, la più antica al mondo) avrà scoperto da studente, si riferisce alle riprese e alle registrazioni, nel 1930, del processo contro il “partito degli industriali”, una dozzina di manager e scienziati di alto livello, alla guida dell’economia nazionale tra il 1921 e il 1928, grazie alla “Nep” leniniana. Si trattò di una apertura al mercato e alla concorrenza tra industrie (pur nazionalizzate) resasi obbligatoria perché la crisi economica dello stato bolscevico, dissanguato dalla Grande Guerra, dal successivo conflitto con i “bianchi zaristi”, dall’embargo internazionale e dagli errori economici del “comunismo di guerra” obbligava a un arretramento repentino dei principi sovietici, pena la carestia nelle campagne e la fame nelle città. A dirigere le fabbriche e a ottimizzare i raccolti ci volevano insomma professionisti capaci. Da richiamare, fossero pure kulaki. Da riconquistare. Da ospitare (come Misiano, il produttore italiano di cinema) e (anche) un po’ da ...arricchire, senza che i populisti dell’epoca se ne accorgessero troppo. Come ammise Lenin, sconvolto dopo le manifestazioni operaie anti-bolsceviche e per il pane del 1920 e 1921: “Non siamo ancora civilizzati per il comunismo”. Purtroppo a quasi un secolo da quel processo non abbiamo fatto molti passi avanti. Purtroppo Lenin, che era così flessibile, morì nel 1924. Purtroppo più o meno in coincidenza con questo processo il Partito comunista dell’Urss decise di travestire i commissari del popolo che diventavano non più un organo di controllo del vertice ma la polizia del Soviet Supremo. Purtroppo 9 anni dopo Stalin aveva in pugno le masse e sbaragliato strategicamente e tatticamente ogni avversario. Cancellata la Nep nel 1928, incolpò i manager e le teste d’uovo per i ritardi e i sabotaggi che impedivano al primo piano quinquennale di decollare. Anche se in realtà funzionò e impedì all’Urss di subire i contraccolpi della Grande Crisi. Ma i sabotaggi furono reali. I ritardi reali. Gli intrighi delle borghesie anticomuniste mondiali (qui si parla di Poincaré) ci furono. Il processo servì ad altro, come rito collettivo di ritorno della Rivoluzione ai suoi principi originari. I media furono tutti coinvolti e costretti ad abbassare la complessità delle forme e semplificare le parole d’ordine. Stupisce infatti, ed è quasi un “colpo di stato verso lo spettatore”, vedere tanta gente seguire le udienze come se fosse una partita di basket, per noi che abbiamo dei processi a Bukharin & C. un immaginario composto di torture fisiche, segrete, buio, carteggi clandestini ed esecuzioni brutali. Durante il processo gli imputati confessano tutto e non si fanno difendere da avvocati (tranne uno, ma Loznitsa ha tagliato impietosamente la sua arringa), anticipando già i comportamenti della destra filo Nap e della sinistra trotskista (e pianificante) che Stalin farà fuori successivamente. Si parla tra marxisti. Il fine è l’edificazione dello stato socialista. Non è di casa il facile moralismo delle anime belle.
Insomma bisogna applicare al film di Loznitsa la stessa domanda di metodo sulla violenza storica (non “inventata” certo dal comunismo) che faceva Merleau Ponty in Umanesimo e terrore ai critici liberal delle grandi purghe come Koesler in Buio a mezzogiorno: “Ne capisci il senso marxista?”.
Dopo 11 giorni di dibattimento il verdetto finale. Condanna a morte per alcuni, poi commutata in più miti e utili pene, vista la qualità di quei cervelli “sabotatori e venduti al nemico capitalista” e la loro dichiarazione di colpevolezza. Ma, come diceva l’imputato del film di Kalatozof il problema del piano quinquennale non è il sabotaggio. Non è il “partito degli industriali”. Non è Poincaré che dalla Francia sobilla. È il culto della quantità produttiva. Si deve produrre un numero tot di scarpe. Fatto. Ma se poi le scarpe sono fatte tutte malissimo per tenere i ritmi di produzione il socialismo ha i giorni contati. Su questo punto di discussione il non marxista Loznitsa (che pure ha scritto parole bellissime in memoria di Kira Muratova pubblicate sull’ultimo numero di Film Comment) deve avere tagliato. Sbadigliando di noia.
Ci sono due film giustapposti in Soldado: il film di guerra e il western.
Nella prima parte si predilige il punto di vista dall’alto, il mondo sembra una enorme cartina militare. La ripresa aerea dà la sensazione di dominio sul territorio attraverso la perlustrazione; la visione perpendicolare dei droni e dei satelliti fa percepire lo spazio come un sistema di cose schiacciato e bidimensionale, facilmente percorribile e ordinabile; le immagini rimandate dei visori termici degli elicotteri riducono le persone a ombre sgranate, grigie o verdi. Sono delle proiezioni necessarie, per dare a chi le guarda l’illusione di avere tutto sotto controllo: il mondo non è mai stato analizzato come ora da molteplici occhi elettronici, sezionato in immagini sempre più limpide e definite, dovrebbe risultare chiaro e intelligibile, eppure tanto nitore insinua la sensazione di essere esposti a qualsiasi pericolo. Anche quando la camera scende a terra, compare puntuale la didascalia che indica la dislocazione della messa in scena, come se venissero poste di volta in volta immaginarie bandierine sulla cartina - del resto anche il cattivo super ricercato apparirà solamente come un puntino rosso su una mappa.
L’insieme di queste sofisticazioni serve pure per fornire a chi attacca l’indispensabile distanza tra sé e il nemico da colpire, per poterlo percepire come un semplice obiettivo da abbattere. In questa separazione è facile confondere persone in carne e ossa per dei fantasmi e, di contro, far prendere corpo alle fantasmatiche paranoie che affliggono le narrazioni occidentali: il terrorismo, il complotto delle grandi organizzazioni criminali, il nemico che si mimetizza fra i migranti, il narcotraffico. E tutte queste paranoie vengono fuse tra loro, al criminale viene data la definizione di terrorista, in Messico viene traslato l’Iraq, i poliziotti messicani diventano miliziani contesi da opposte fazioni.
La paranoia induce alla macchinazione, e quanto la paranoia è complessa e pervasiva, tanto più la macchinazione sarà sofisticata. Ma anche l’operazione meglio congegnata può incepparsi. Per far saltare tutto basta una nuvola di polvere: alleati e nemici si confondono ulteriormente, si scambiano i ruoli, si scoprono uguali fra loro. Il piano militare è andato all’aria, bisogna ricominciare daccapo, in un altro modo. Difficilmente si poteva scegliere qualcosa di più beffardo per scombinare un film di guerra e al tempo stesso di più classico per annunciare l’inizio di un western: una nuvola di polvere.
Di colpo cadono le varie sofisticazioni, si perdono droni e satelliti, niente più rielaborazioni grafiche, svaniscono didascalie e coordinate, persino chi ha progettato la macchinazione vorrebbe cancellare tutto senza lasciare traccia. La paranoia viene ricondotta a un più sano sentimento di solitudine.
Benicio Del Toro, il soldado del titolo, quasi con fare rituale (di notte, la scena illuminata dal fuoco) seppellisce le sofisticatissime armi avute in dotazione, tranne una pistola. Non indossa più la divisa da paramilitare ma jeans e una camicia a quadri, poi calca un cappello da cowboy in testa e poggia sulle spalle uno sciarpone di stoffa grossa. Sembra di assistere a un ritorno a una dimensione più lineare e immediata, quando buoni e cattivi erano facilmente distinguibili. Anche il modo di girare di Sollima risulta più fluido, come se si avvertisse il puro piacere di filmare una storia che si riduce a un uomo, la sua pistola, una ragazzina da salvare, e intorno il deserto e il suo immancabile corredo - piani lunghi, albe e tramonti, nemici in agguato. Forse solo una così radicale riduzione può permettere l’emergere dell’istanza morale, impossibile nell’artificiosità del film di guerra ma così necessaria nel western.
E qui c’è un ulteriore scarto, Sollima evita la tentazione di dare un messaggio edificante. La superiorità morale è un lusso per chi è innocente, ma nessuno lo è, neanche nel western, non lo sono nemmeno i morti. Sarà un non morto a chiudere la vicenda, o forse solo a troncarla, potrebbe iniziare un horror, ma si decide che è meglio finirla qui.
A di là della prospettiva ludica che ormai accompagna ogni film di Zahler al suo annuncio - tutto quell’apparato plastico, splatter, come una fermentazione della materia cinematografica secreta, spruzzata, esplosa fuori dalla sua forma (come dimenticare il trascinarsi e consumarsi delle teste di pupazzo sul pavimento in Brawl In Cell Block 99 o lo svuotarsi del corpo, lo spreco così posticcio delle viscere gommose del vicesceriffo in Bone Tomehawk?), e l’avventura dentro gli spazi del genere, il consumo immediato che se ne possa fare - il cinema di questo onnivoro modulatore di trame (comprendendo anche i romanzi, le sceneggiature per altri registi e le musiche per i suoi film), a uno sguardo più attento, mostra una tensione spiccata verso delle resistenti strutture di immaginazione, delle forme di rappresentazione durature che si organizzano intorno al concetto, alla percezione del tempo e fungono da contrappeso (oltre che da contenitore) a quella pratica di consumo tutto intestino, in nome di un equilibrio del film che, ora che è passato anche Dragged Across Concrete a Venezia, si può considerare propriamente zahleriano. Cioè quel bilanciamento tra azione (così immediatamente consumabile, ludica) e pervicace dilatazione del tempo - atta ad assorbire proprio quell’attività, quella violenza delle sagome e il loro deteriorarsi alla fine (spesso fervendo, sbottando di sangue), quello sfarinarsi dei personaggi - che rende possibile la variazione tutta zahleriana sul cinema di genere: dal western, al film carcerario, fino all’ultimo poliziesco, che è un’Arma letale ricomposta, anzi forse ripresa da dove si era interrotta, usando come perno, come addentellato un Mel Gibson-Martin Riggs stanco, invecchiato, incanaglito. Una variazione sul tema, sul genere, che si rivela dissertazione sul tempo (tra le più serie e sorprendenti del cinema contemporaneo), nel tentativo di mostrarne l’essenza, il corpo nudo, cioè un suo materiale spessore, e la sua concreta applicazione nella narrazione per immagini, che allora diviene una qualche slegata (dal filo del racconto), slargata, contemplazione dell’immagine. Si tratta di guardare il tempo, la sua durata, nel corso di un film di genere: Dragged Across Concrete è forse il dispositivo di scandaglio del tempo più trasparente dei tre film di Zahler, in cui l’azione è frammezzata da ampie sequenze di mero brulicamento cronologico; tutto un vagare lento, denso, un girare a vuoto del furgone che poi sarà una cella, un abitacolo di compimento, di concentrazione immaginifica; tutta un’attesa dell’azione che poi giunge, ultraviolenta a disperdere, dissipare corpi, materia cinematografica sacrificata per gioco, un gioco anche crudele, sadico, se si pensa al sacrificio organizzato per Kelly (Jennifer Carpenter), l’attesa appunto, i preparativi della cui uccisione sembrano essere gli stessi per quella, scioccante, della bambina in Distretto 13. Eppure, a conferma di un cinema profondamente polarizzato (tra gioco e serietà, azione e tempo, consumo e resistenza) c’è un senso definitivo, doloroso di perdita intorno alle morti cinematografiche di Zahler, direttamente proporzionale alla disillusione da cui sono abitati tutti i suoi personaggi: un offrirsi consapevole e stoico al loro destino di scomparsa, di cui è perfetto compimento Ridgeman, così amaramente conscio della propria identità di personaggio, e di dover soccombere alla macchina filmica. Che del resto procede inveterata, prendendosi il suo tempo (anche Dragged supera le due ore di durata), declinandolo in continuazione, e mostrandolo, all’interno di un diagramma filmico che prevede dei posti di sosta, le varie, dense tappe che il film segue già dai tempi di Bone: una vera e propria topografia, una mappa del tempo (che ovviamente ha bisogno dello spazio per essere, quindi di queste soste), fino al luogo di sedimentazione finale, la meta di tanto peregrinare, in cui la vicenda si risolve, cioè trova la propria condensazione, consacrazione plastica. In Bone, dopo il lungo percorso nel deserto, nell’alternanza spossante di giorno e notte in cui il tempo si cristallizzava in sfondi di polvere, era la grotta con al centro la brace dove i personaggi venivano macellati; in Brawl, seguendo la cartografia minuziosa di un mondo progressivamente claustrofobico, ctonio, da una prigione all’altra, loculi accavallati l’uno sull'altro, si configurava come la cella 99, forse il più puro di questi spazi di culmine zahleriani, galleggiante non si sa dove nell’edificio di massima sorveglianza: qui, in Across, da strada a strada, tra appostamenti, irruzioni, inseguimenti inconcludenti e per questo appunto rivelatori di tempo, è lo spiazzo davanti a un deposito in cui si ordinano - in una coreografia specifica, di proiettili, sventramenti, sacrificio di corpi - l’auto di Ridgeman e il furgone blindato, capovolto, a definire proprio una prossemica di questo topos zahleriano, luogo di compimento, di addensamento dell’immaginazione, così in balia del tempo.
È il 1990 in Cile, cade la dittatura di Pinochet, si apre un nuovo capitolo, una strada che, in questo film, diventa una via sbeccata, selvatica, metafora di una rinascita (quella del Cile, ora, democratico) che deve arrivare ancora a piena maturazione e deve riformulare il proprio senso attraverso una costante interrogazione. Tarde para morir joven (presentato in concorso a Festival di Locarno e vincitore del Pardo per la miglior regia) rappresenta un lungo percorso che non si chiude mai, come una domanda sempre aperta, una dimensione sospesa dentro un territorio fuori dal mondo, dalla città, senza confini. Qui, nella natura, vive una piccola comunità di famiglie, adulti e adolescenti come figli di un tempo non ancora nato. Non esistono muri, anche le piccole abitazioni diventano finestre sul mondo, un eterno sguardo aperto (quello della regista) ed un eterno slanciarsi verso l’altro da parte dei singolo. Il concetto stesso di comunità è un rendersi conto della presenza dell’altro non come barriera ma come mezzo che scatena passioni attraverso l’esposizione della propria singolarità: comunità «come essere in comune. L’in (il con, il cum latino della ‘comunità’) […] indica un essere in quanto relazione, identico all’esistenza stessa: alla venuta all’esistenza dell’esistenza. […]» (J. L. Nancy 1986, p.184). La condivisione degli spazi diventa ogni volta ridefinibile, riconfigurabile e dunque mai compiuta non perchè c’è mancanza ma perché lascia aperta ogni possibilità di trasformazione.
Ogni fotogramma diventa immagine evanescente, un cane scompare riappare e, ancora, esce di scena, sembra quasi chiedersi cosa resta di un tempo ormai trascorso e cosa si perde tra i fumi di una terra ai piedi delle Ande. C’è la nostalgia, un sentimento che s’impolvera per tutto il film e c’è il colore sbiadito della mancanza (il tempo in cui la stessa Dominga Sotomayor ha vissuto) che si fonde con certe musiche anni ‘80; ogni immagine sembra la proiezione di una vecchia pellicola o VHS, ogni momento sembra la rievocazione di un ricordo. Ma Tarde para morir joven è anche e soprattutto un racconto su alcuni adolescenti (Sofia, Lucas e Clara) in piena lotta con se stessi e con l’altro: in fondo l’occhio di Dominga Sotomayor è concentrato a seguire il movimento delle relazioni umane (prendiamo Mar, ad esempio, che inscena la vita di una coppia al mare; o De juvenes a Domingo che ritrae il viaggio di una famiglia in vacanza) senza l’aspettativa che ci debba essere un colpo di scena. La quotidianità è ripetizione e in questa partitura emerge la vita: l’amore allora diventa scavo interiore, attesa verso una madre che non tornerà mai più, lotta per la conquista di un bacio, delusione, odio: è la natura stessa a diventare madre ostile pronta a bruciare.
In millequattrocento si muovono tra l’azzurro del cielo e il giallo dei campi di granturco, nello spazio limitato di un set ideale, beati ed estranei al mondo di fuori. Tutto inizia e finisce a Monrovia, Indiana, lo stato della Corn Belt, la fascia agricola del Midwest dove il mais scorre a fiumi e “l’invasione degli ultracorpi” sembra riuscita. “Prima i monroviani” ? No, “solo i monroviani”, slogan della piccola città, dependance dell’America First. Il 65% degli abitanti ha votato Trump, mai nominato, fantasma che si aggira nelle casette ridenti adorne di fiori. Monrovia sembra un disegno di Norman Rockwell, ma dietro la macchina da presa c’è Frederick Wiseman il documentarista americano che vede al di là delle immagini e affonda lo sguardo nella realtà come in Titicut Follies, Art Berkeley, Ex Libris. “Il leggendario documentarista volge la sua camera verso una città pro-gun, pro-God Midwestern e ci offre una visione storica di come si vive nell’America di Trump” (Peter Travers - Rolling Stone).
La chiesa, la bottega di tattoo, il barbiere, il supermercato, la palestra disposti in fila lungo la strada che attraversa il paese distante 40 chilometri da Minneapolis nei confini dell’Indiana che vuol dire Terra degli indiani, abitata al 90% da bianchi. I nativi sono lo 0,63%, gli afroamericani il 9,42%. Una ragazza black, l’unica in giro, voce da usignolo, bellissima, canta a un matrimonio composto da una coppia oversize, in linea con la stazza dei monroviani, golosi di cibo non commestibile. Wiseman, il perfido innocente, curiosa nelle stalle pullulanti di maiali rosa e poi ci porta nelle cucine esalanti odore di “pepperoni” e insaccati destinati a imbottire rotoli di pasta fritta, hamburger di carne scura, un impasto di macinato e polvere di aglio. La pizza va forte, cosparsa di salsa e salsicce. L’obiettivo affonda nella poltiglia tritata, curiosa nei macchinari che mescolano, impastano, friggono, sfornano. Le macchine sono i veri idoli di Monrovia, la festa cult è un’asta di trebbiatrici.
Dal parrucchiere le matrone gigantesche cercano invano di migliore l’aspetto, gli uomini lo stesso con il ricorso a birra e fucili, venduti per ammazzare i cervi che rosicchiano l’insalata. Visita a una armeria, i clienti si inebriano di fronte a un pistolone con la canna lunghissima, ma Wiseman inquadra sullo sfondo una donna non più giovane - i giovani scarseggiano - che analizza una rastrelliera di fucili e accarezza le canne. Qui non ci sono i suprematisti bianchi della Louisiana di Roberto Minervini eppure l’estatico sguardo della signora a caccia di un passatempo è da brividi. In caso di noia o di infelicità, preti e predicatori informano, durante cerimonie estenuanti di nozze e funerali, che dio ha destinato a Monrovia una dimora speciale nell’alto dei cieli. Lunga predica da venditore di paradisi con il rito di due croci che dovrebbero incastrarsi per assicurare l’eterna unione tra gli sposi, ma non ne vogliono sapere, simulacri sghembi, più vicini agli attrezzi di una cerimonia voodoo. In controcampo, l’arringa interminabile di fronte alla bara, controllo minuzioso dei presenti, la pioggia cade.
Wiseman si infila dovunque, come al solito, anche nella seduta del consiglio comune che discute su una panchina - o meglio due? - da collocare davanti alla biblioteca. L’argomento è scottante perché a Monrovia non c’è spazio pubblico. Non c’è un mall né una piazza né un parco. C’è il supermercato, però, che espone scatole di cibo, buste di nachos e patatine, pareti di dolciumi e litri di bevande colorate. Il serbatoio di voti trumpisti è gonfio di calorie. Oltre alle panchine, mancano gli idranti e un incendio potrebbe, dice qualcuno, mandare a fuoco l’intero paese. Visti con sospetto, gli idranti, prefigurano forse un aumento della popolazione? I monroviani non gradiscono. Bastano quei 1.400 che contano il doppio per corporatura e per età, tanto che la cerimonia massonica sembra la ricreazione di una casa di riposo. Si conferisce la medaglia d’oro a un uomo incerto sulle gambe, tremolante, insignito per meriti passati, tutto in una stanza spoglia, tra grandi dichiarazioni di fedeltà alla Loggia. Twin Peaks. Ecco la donna del ceppo, l’indiano stralunato in cerca delle sue origini, lo sceriffo, Dale Cooper sonnabambulo, spettri elettrici, mostri dell’aldilà. David Lynch è passato da Monrovia.
Questo Midwest, però, non è miserabile, Monrovia è florida e si vede dalle trebbiatrici splendenti, i mega-trattori, le macchine per innaffiare i campi, per imballare il fieno e per ogni cosa... è un’alacre fabbrica che sforna prodotti seriali, dalle polpette ai quintali di chicchi dorati. Tutti sorridono, arricchiti, l’occhio a Wall Street per le quotazioni in borsa del mais. Monrovia è uno stato mentale, dove non si parla di politica, almeno nelle dieci settimane di riprese. Un luogo privilegiato un po’ come Ebbing, Missouri. Il paesaggio gioisce sotto il sole per 143’, le pannocchie riflettono i raggi, tutto è perfetto a Monrovia. Se non fosse per l’ultima visita nello studio di un veterinario che decreta il genere horror del film, finito nel sangue di un cane boxer al quale amputano la coda in diretta. Non c’è modo di ripetere la scena, questo è “cinema del reale”? È come una partita di basket, lo sport cittadino? Ma no, è Frederick Wiseman, mai cosi emotivo e sarcastico, che - come faceva Rossellini - dalle indagini sulla realtà azzarda qualche risposta e ha chiesto al boxer di posare per lui, di farsi interprete degli orrori della città pro-gun e pro-God Midwestern. E ci manda una cartolina magnifica della provincia americana accompagnata idealmente dalla musica di Angelo Badalamenti.