"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Per Tsukamoto l’erotismo – più volte dichiarato e sempre anelato – nasce e rinasce da un eccesso anatomico che è al tempo stesso un’apocalisse di spettri, forse il loro affollamento definitivo. Tutto è metallico certo, ma solo se e in quanto rivolto all’interno, con una foga paurosa si guarda dentro se stessi scavando nell’anima, anzi alla ricerca dell’anima. Non potendo o non volendo sapere se si muove nell’ombra o nella luce, lo spettro (e il fuori fuoco) coincidono con la mutazione stessa, e coinvolgono tutto: corpo umano e cinepresa. Perciò in Hokage tutta la prima parte del film è chiusa in un antro sordido sudato violento, l’interno prelude all’uscita nella luce abbacinante e agghiacciante del Giappone ridotto in macerie. L’aria sembra fatta di una materia sottilissima che strozza: Pioggia nera + Germania anno zero, Imamura + Rossellini, senza giri di parole. La bomba è ormai parte dell’atmosfera, ma in qualche modo viene generata da altre profondità, forse è l’anima stessa dell’immagine. Così il bambino di Tsukamoto, la sua versione dell’Edmund di Rossellini, invece di lasciarsi cadere da un palazzo sventrato, svanisce nel fuori fuoco, risucchiato nel vociare sordo di un mercato post-atomico. La ragazza e il soldato invece, sono davvero la prostituta e il fantasma, e lo spettro assume un’ultima carnalità in quanto probabilmente pura proiezione dell’inconscio o lucida follia della ragazza. Ma ciò che crede e ha bisogno di vedere lei è di fatto ciò che crede e ha bisogno di vedere lo spettatore: questo è il vero sogno di Tsukamoto, appiccare il fuoco alle ombre e trasformare tutti gli spettatori in spettri.
Che? La domanda del 1972, titolo geniale con l’idea di filmare una deriva erotica assoluta e le mostruosità dell’italietta più guascona e imbelle, torna come un coltello nell’acqua (via Skolimovski e sognando sempre Gombrowicz) nella ben poco neutrale Svizzera 1999 per raccontare l’apocalisse di nome Europa (e, fra gli altri e le altre, torna Sidney Rome, allora sempre nuda e qui denudata con quel ghigno acido che però in Polanski è anche pura tenerezza; e chissà, fosse ancora vivo il Mastroianni di Che?, se sarebbe stato al posto di questo Mickey Rourke che più flagrante non si può). The Palace è il capolavoro di tutte le fini e di tutti gli inizi millennio, la risata cinica e amara, la lucidità e l’autocritica, uno dei set più visionari mai visti. Polanski resta inarrestabile come i suoi film: nulla di più politico, nulla di più cinematografico. E perdutamente kafkiano a cent’anni dalla scomparsa di Kafka, di cui qui vediamo il lato più rocambolesco e acido, quello meno conosciuto e riconosciuto, ma talmente cristallino è il richiamo all’Hotel Occidental di America (che nome questo hotel di Kafka! Strano non sia venuto in mente questo titolo a Polanski e Skolimowski). Il congegno kafkiano d’altra parte è tale perché tutto spostato sulle spalle dello spettatore, che guarda il film come Kafka davanti al superiore dell’Istituto di assicurazioni per cui era impiegato che gli comunica la promozione e lui non può smettere di ridere sguaiatamente e nervosamente. La piccolezza del tutto documentata da chi preferirebbe essere piccolo e svanire nel nulla. L’esatto contrario del cinema e dell’Europa che siamo costretti a vedere oggi.
(una versione più breve di questa nota è stata pubblicata su il manifesto del 05/10/2023)
Un film che dovrebbe piacere a David Lynch e Bret Easton Ellis. Non solo per la chiarezza con cui ne sono (in parte) l’ispirazione. Da un lato Lost Highway e Mulholland Drive, dall’altro i fatti relativi all’eccidio e ai video di Elliot Rodger (Ellis non è solo una fonte di secondo grado, ma è Bonello – non sappiamo quanto consciamente – che chiarisce alcune cose di Ellis ripensando i video inquietanti girati da Rodger prima del massacro). In realtà Bonello è interessato all’idea e alla tradizione cinematografica del melodramma e perciò attinge a entrambe le sue qualità, ambiguità e inverosimiglianza, riuscendo a farne la struttura stessa del film. Certo, questo comprende anche la passione per l’arte di ‘genere’: Bonello nelle interviste fa nomi e cognomi, Carpenter Romero Cronenberg; e due film: The Age of Innocence e When a Stranger Calls, quello con i primi venti minuti più belli di sempre, l’unico film ad aver capito William Castle). E poi Henry James, il cui racconto The Beast in the Jungle è citato parola per parola nella sezione 1910. Un vero e proprio universo eterogeneo che accumula piccole catastrofi e che ha il pregio di essere sinceramente appassionato, col regista stesso curioso di vedere che effetto fa (il precedente Coma è sicuramente un prologo, degli appunti preparatori). Nei salti da un secolo all’altro, i punti di sutura corrispondono a altrettante fratture, tutto gioca a ricamare eco e ritorni, tutto gioca a portare il film sul piano di un inconscio assoluto, in modo che i personaggi e le loro immagini impediscano alla narrazione di limitarsi al dato metaforico, anzi in modo che lo combattano per attestarsi invece sulle frequenze di un ben più visionario invisibile.
Le telecamere ad infrarossi, una mistura di colori acidi disegnano corpi corrosi e cangianti. Non sono colori di un mondo nuovo e lisergico, piuttosto albe di notti andate a male, residui di sogni allucinati, immagini che sono resti indigeribili di visioni malate. Aggro Dr1ft è una riflessione sul cinema che è stato, per niente velata, anzi sottolineata dalla voce fuori campo, pensosa e interrogante, tra rimembranze e futuri apocalittici, ma allo stesso tempo è la constatazione che non è mai stata, né sarà, la tecnica a mutare la natura dell’arte hollywoodiana, invischiata, sempre e comunque, tra una ragazza e una pistola.
Bo non è altro che l’ennesimo killer diviso tra una famiglia perfetta e un mondo malvagio, fatto di gang, tradimenti, personaggi cattivi e satanici. Un cinema diverso nell’aspetto, canonico nella forma e classico nello stile ma che afferma l’assoluta cecità dell’atto del vedere e l’invisibilità che sorregge lo scorrere dei frame. Fuori dalle logiche tecnicistiche, contro la moltiplicazione dei “K” e l’iperdefinizione delle immagini ma altrettanto estraneo a decenni di amenità accademiche sugli stilemi, il “diegetico e extradiegetico”, il “profilmico” e tutta quella sfilza di termini coniati probabilmente solo per trovare un lavoro. Il cinema e i film più massacrati da questo punto di vista sono quelli forzati a rientrare nel “noir”, Aggro Dr1ft è un noir? Bo(h), Aggro Dr1ft ci chiede: che cos’è il cinema?
Nessun post-cinema tuttavia, non può esserci un dopo o un oltre di qualcosa che ancora si interroga sul suo essere e non essere. Piuttosto Korine sembra interessato a valutarne la banalità quotidiana, la banalità quotidiana della maggior parte dei film e delle immagini (tanto da preferirgli ore di videogame), in rapporto a un’ipotesi trascendentale generata dal guardare (visionare) come dipendenza. Cosa resta dell’umano, questa è la domanda, forse il ghigno, di Korine.
Come Bonello, Kaurismaki pensa che ci sia bisogno d’amore. Però l’amore di Kaurismaki viene da un’idea di speranza che lui chiama Chaplin, Bresson, Ozu. La speranza è nello spazio semplice e insieme infinito fra un’immagine e l’altra, come se si potesse fare di ogni inquadratura un respiro. Più che una metafora, è un dato di fatto, Fallen Leaves è una visione assimilabile a una boccata d’ossigeno. Non ci si rilassa, anzi Kaurismaki è anche qui strettamente politico quando dice che l’intensità, la trasparenza, la passione riguardano una storia d’amore tra proletari. Questo è il segreto di un cineasta fin troppo sottovalutato: non c’è un suo film che non sia perturbante, ma l’inquietudine e la rabbia politica sono connaturate in un’idea di cinema come composizione. Non c’è montaggio, c’è l’invisibilità del raccordo e la materia della luce, proprio come nella vita, nei suoi passaggi più inspiegabili. Se un personaggio sembra barcollare in una strana erranza, come in una lunga conversazione col vuoto, questo è esattamente il respiro, lo spazio necessario per svelarne il corpo, per restituirne intatta l’umanità. Ciò che sembra evocazione, è al tempo stesso documento dei soprusi cui le donne e gli uomini vengono sottoposti fino a sentirsi espropriati. Le foglie che cadono hanno questa esilità e mostrano un misto misterioso di fascino e angoscia, ma il punto è che provengono dalla solidità dell’albero: non è nascondendo i conflitti e le contraddizioni che si resta umani. Per Kaurismaki perfino un presentimento doloroso è un segno di vita, la sua ‘arte’ è riuscire a connetterli, accordarli. Lui lo dice meglio di chiunque: “Anche se ho acquisito negli anni una certa dubbia notorietà grazie a dei film piuttosto violenti e inutili, la mia angoscia di fronte a delle guerre vane e criminali mi ha infine spinto a scrivere una storia che possa offrire un avvenire all’umanità: il desiderio d’amore, la solidarietà, il rispetto e la speranza nell’altro, nella natura e in tutto quello che è vivo o morto e che lo merita”.
Desiderio di diventare un indiano… Scorsese ha mai letto questa sconvolgente meditazione di Kafka? Non lo sapremo mai. Eppure le due cineprese - di Kafka e di Scorsese – si torcono nel vento, si liberano e vanno verso la morte. Essere un indiano, essere massacrato come un indiano (questo sarebbe piaciuto a Kafka: chi ha detto che il desiderio non sia proprio di essere mangiato, maciullato pezzo a pezzo?). Siamo chiari: scrivere fare film e essere poeti, sono cose vane? Lo spettatore di cinema, il lettore sono indiani? Vorrebbero liberarsi dalla poltrona, dallo schermo, dal libro (ammesso che queste briglie ci siano mai state: ma non c’era poltrona, non c’era schermo, non c’era libro)? Vorrebbero infine liberarsi dagli occhi stessi che inseguono il desiderio (ma non c’erano già più occhi)? E poi, esiste ancora la possibilità che il desiderio si aggiri come uno spettro liberamente per il mondo? Killers of the Flower Moon non parla proprio di questa ricerca della verità e della libertà in un mondo assediato dalle ombre? Il gesto politico di Scorsese respira con il fiato di una malinconia che resta intatta anche dopo la trasformazione in pellerossa. Dunque è questo che desideriamo: essere pellerossa. È questo che facciamo: cerchiamo il prossimo villaggio. Ci resta incomprensibile come si possa anche solo pensare di cavalcare, a meno che non si diventi in tutto e per tutto il cavallo, zoccoli criniera e vento - il segreto dell’indiano.