C’è un pesce fuor d’acqua! O JMS il selvaggio
Se “uccello in gabbia canta o per tristezza o per rabbia” al pesce non è dato neanche il suono (almeno non per il nostro limitato udito), è pura immagine, è memoria permanente di un altrove e segno tangibile di un crudele quanto vanitoso bisogno umano di ricreazione. L’acquario è uno spazio mimetico, costruito a immagine e somiglianza di un altro; non prevede sfruttamento economico, non ha fini “scientifici” ma ludici e ornamentali, questo lo rende più vicino a quello che noi chiamiamo “arte”, addirittura può essere visto come un trionfo dell’arte “naturalista”. Di fronte a un acquario si pensa all’acqua senza confini, ci si può ritrovare in una “fantasia sottomarina”, in un “balletto acquatico” oppure sentirsi sprofondare in un carcere abissale, bisogna metterci molta forza e attenzione per non lasciarsi catapultare altrove e prendere coscienza della miseria (umana) sotto i nostri occhi. Da una parte Rossellini, che attraverso l’inquadratura elimina i confini, attraverso il cinema vivifica i morti, spazio e tempo sono infiniti, quella bacinella d’acqua e i guizzi dei fili di lenza che tirano i pesci diventano tutto il mare possibile, l’anno 0, 1 o 51. Dall’altra il finale del film di Coppola Rumble Fish, che con The Outsiders compone un dittico (e qui è di film polittici che andiamo a parlare), il demiurgo senza nome Mickey Rourke, fratello maggiore daltonico da cui mutuiamo lo sguardo bianco e nero, muore per liberare dei pesci combattenti dagli acquari di un negozio, convinto che una volta liberi non sentano il bisogno di uccidersi a vicenda, che cattiveria e cattività abbiano più che una radice in comune. O in Bright Future di Kyoshi Kurosawa la medusa fuggita dalla vasca la ritroviamo luminosa e moltiplicata nei canali putridi di Tokyo mentre ragazzi con la maglietta del Che scendono in strada. In entrambi i film “usciamo” dall’acquario per entrare in un altro “regno”: i pesci assumono un’aura speciale attraverso effetti elettronici, il “ragazzo della motocicletta” è un sogno fatto di cinema come l’Ernesto Guevara pop è il marchio di una zuppa a base di eroismo esotico. D’accordo con Straub che “il n’y a pas de film politique sans morale, il n’y a pas de film politique sans théologie, il n’y a pas de film politique sans mystique1” siamo nell’ambito del politico, per la morale di Coppola e per la mistica di Kurosawa; Rossellini è un’altra cosa, restringendo l’inquadratura e aprendo alla fantasia condensa tutto nello stesso istante, ci troviamo nell’unico mondo possibile, non c’è mistico ma mitico, non c’è teologia ma al massimo teofania, la morale si piega al desiderio e si perde nell’enigma paradossale (si annega anche in un bicchiere d’acqua). È evidente un istinto di fuga connaturato all’immagine dell’acquario, ma essendo questo un cosmo, anche se micro e a portata di mano, non è dato superarlo, trascenderlo, si può solo distruggere, riportare il cosmo al caos. Ma altrettanto evidente è che si rimane chiusi nel meccanismo spettacolare, il permesso si oppone assolutamente al possibile, c’è bisogno di una mano che dall’esterno nutra, muova o trafughi quegli esseri indifferenti che pare del mare non abbiano desiderio né ricordo, sono nati e nuotano vedendosi in uno specchio, trovarsi faccia a faccia con l’infinito probabilmente li ucciderebbe. L’acquario è superato solo attraverso l’artificio cinematografico, sia l’effetto elettronico che rende colorati i pesci combattenti, l’aura digitale delle meduse, le lenze “artigianali” o la voce fuori campo di Fantasia sottomarina. Il cinema permette l’inserimento di “arazzi di spazi e tempi diversi in un solo luogo schermico. L’immagine diventa potenziale, contiene diverse inquadrature e disposizioni, funziona da memoria permanente con strati che cadono e si mescolano l’uno nell’altro2.”
A Straub non interessa fare una riproduzione, siamo già davanti a un finto mare e dei “finti” pesci; non interessa trascendere l’acquario e men che meno attraverso un artificio; siamo davanti a una critica della separazione, “la questione non è constatare che gli individui vivono più o meno poveramente; ma sempre in un modo che sfugge loro3.” Trova un’inquadratura unica che ne coglie le trasparenze e gli spazi. Vediamo tre pareti, quella sinistra è a specchio, i due vetri, che paralleli si stagliano di fronte, attraversati da pesci di diversa grandezza e diversi colori, dal giallo al rosso all’arancione, lasciano intravedere un’altra parete di vetro attraversato da ombre di un altro spazio (probabilmente un marciapiede). Il lato destro dello schermo (4:3) è occupato quasi interamente dal tronco di una pianta acquatica, la luce che arriva dalla vetrina sullo sfondo ne fa un monolite nero in cui si riflette la camera e attorno al quale i pesci si aggirano come ad evidenziare l’oscura presenza. È tutto lì, è tutto svelato, non c’è trucco né finzione, non c’è montaggio, quei mondi separati, contigui e paralleli sono colti in un colpo d’occhio, senza bisogno di tagli, accostamenti, sovrimpressioni, sono una cosa sola; non c’è controcampo possibile. Addio alla lingua; Straub con una sola inquadratura ribadisce l’addio al linguaggio di Godard. Per sei minuti non c’è suono, il film è muto come un pesce, come a segnare la ricerca di un’empatia, di un rapporto orizzontale con quegli esseri costretti e silenti nella loro dimensione artificiale. La luce di Straub (e Huillet), che ci ha fatto sentire gli alberi e le pietre, dona una lingua finanche ai pesci, l’essere muto per eccellenza. Ma non sentiamo niente, c’è una quiete innaturale, come prima di una tempesta, di un’eclisse o di un terremoto. Il silenzio assorda, manca l’aria, Straub ci mette davanti allo specchio, ci mostra i vetri che ci separano l’un l’altro, l’estraneità e la solitudine…siamo anche noi un acquario, siamo quei pesci e stiamo annegando, in un bicchier d’acqua. Non c’è controcampo, non c’è scampo. A smuoverci dall’indifferenza e dal torpore arriva da fuori la musica di Haydn, Le sette ultime parole del Cristo in croce, composta intorno al 1787 ed eseguita nel 1794, strutturata in sette movimenti con un’introduzione (la parte che ascoltiamo nel film) e un finale intitolato Terremoto. Un testo senza parole, come scriveva l’autore “Ogni sonata, o ogni testo, è espresso dai soli mezzi della musica strumentale in maniera tale che solleciterà necessariamente l’impressione più profonda nell’animo dell’ascoltatore più distratto.”
La musica rompe il terribile incanto, attiva l’immaginazione, seppur non salva agita, irrompe nel polittico che ora assume un tono più politico, l’immagine e il suono, separati anch’essi, si scontrano nel campo unico davanti a noi: è la lingua di Straub. Inizia qui un dialogo tra sordomuti in apnea: ora quei pesci si animano, i loro movimenti lenti e brevi diventano un balletto acquatico (per dirla alla Ruiz), il loro sfiorarsi una storia d’amore. Sembra addirittura che i pesci assumano coscienza della loro triste esistenza: alcuni si gettano “a corps perdu” sul fondo come a scoprire un istinto suicida, a segnare un’impotenza laddove le scimmie di Kubrick saggiando la violenza si scoprivano in potenza. A un certo punto tutti i pesci si assiepano verso l’alto: è un’uscita di scena degna di un attore navigato? È la ricerca di una via di fuga nell’unico spazio forse aperto, quel fuoricampo da cui proviene la musica? È una corsa a baciare la mano che dall’alto li nutre allungando la loro sofferenza? Il film finisce, titoli di coda, i pesci non ci sono più ma il bicchier d’acqua che siamo e in cui anneghiamo è intatto intorno a noi. Non una parola, restiamo a bocca aperta, atterriti tra paura e estasi per aver guardato qualcosa che ci riguarda. Ma Straub resta un “amico” dello spettatore, non gli interessa tramortirci (siamo già abbastanza non viventi) né meravigliarci, quanto piuttosto innescare un processo, una presa di (in)coscienza. Inizia così un altro film, un film parlato, vediamo la cosa con altri mezzi. Siamo in una stanza bianca, asettica, sullo sfondo delle finestre separano da un giardino altrettanto asettico. Nella stanza tutto è bianco, seduto a un tavolo c’è un uomo, bianco, bianchi i suoi capelli, bianchi i fogli che ha in mano; veste un maglione rosso che richiama il pigmento dei pesci che un taglio, un’ora o un’era prima erano davanti ai nostri occhi. È un altro acquario, un altro spazio separato, davanti all’uomo c’è un microfono laddove nella “vasca” precedente c’era la camera, anche qui è tutto nel campo davanti a noi. L’uomo non parla, legge, fermo nella sua posizione, riflette alla luce delle credenze, dei miti e soprattutto sotto le molteplicità delle strutture mentali se “ha ancora senso la nozione di uomo”. Quell’uomo che si/ci interroga è Aimé Agnel, psicologo junghiano e scrittore di cinema, soprattutto per i Cahiers jungiens de Psychanalyse, dove ha pubblicato saggi sulle immagini “dall’inconscio” in Fellini, esterno/interno in Ford, sulla separazione tra suono e immagine in Sur quelques films vraiment sonores in cui affronta film di Bergman, Godard, Oliveira e Straub appunto. Agnel è uno studioso della separazione, nei film di Straub (e Huillet) trova che immagini e suono siano posti in “libera concorrenza”, non c’è fusione: “il les fait avoisiner, ce qui permet de les voir et de les entendre dans leur réelle différence, mais aussi dans leur mystérieux accord, dont on peut suivre le décours, semblable au battement de la vie, dans de simples jeux d’ombre et de lumière4”. In L’aquarium et la nation non c’è neanche gioco di luce e ombra, Agnel si lascia estraniare dalle meccaniche straubiane, si fa presente assente; attraverso le sue domande vane, che non danno risposta, e i suoi silenzi si cala nei meandri della mente prima che della storia (e i suoi miti, le sue leggende) a cercare dove e quando sia avvenuta la separazione tra uomo e vita. Dall’uomo primitivo e la sua percezione cosmica dell’esistenza, passando per l’uomo religioso che si scopre mortale, quindi doppio, fino al razionalismo illuminista la domanda è “dopo che dietro l’uomo non vediamo più la scimmia cosa cominciamo a vedere apparire?”. “Una sorta di formica”, è la risposta, ma è fin troppo buona e sicuramente quegli insetti muti e laboriosi non meritano l’accostamento. Nel mutar dei toni probabilmente fòrmiche si adatterebbe meglio al nostro vestirsi, rivestirsi, ammantarsi di una supposta superiorità di cui non vediamo i limiti mentre ci sbattiamo contro, proprio come pesci in un acquario. Queste separazioni sorgono da un avvicendarsi di principi ordinatori della vita dati per assoluti, totali, imposti in modo tale da risultare insuperabili, una fatalità, se non attraverso una mutazione di “stato”. La storia dell’umanità è questo passaggio da uno stato a un altro, da una vasca a un'altra, ma non tutti si adattano allo stesso modo. Lo scrittore da cui provengono questi frammenti, André Malraux, è un esempio di quei pesci capaci di abitare spazi molto diversi. Malraux è stato comandante dell’aviazione antifranchista in Spagna durante la guerra civile e scrittore eccezionale e seminale (“la letteratura engagée ed esistenzialistica francese che da lui trae – lo riconosca o no – origine, non avrà mai più questa lacerante irruzione della vita a giustificarla”, scrive Calvino nel 1958), ha realizzato da un suo romanzo un film unico come L’espoir che anticipa forme e temi del cinema della resistenza. Poi Malraux è diventato alfiere della destra sciovinista francese, ministro di De Gaulle, un uomo capace di affermare che le torture subite dai combattenti algerini erano frutto di “un complotto dei comunisti”. Perché JMS, che già nel precedente Kommunisten, aveva preso pezzi di Le Temps du Mépris per il primo segmento del film, torni sui testi di un personaggio di questa natura lo troviamo ancora in Calvino: “Perché questo sono stati soprattutto i suoi romanzi: una breccia aperta dalla violenza delle cose in un ingegno volto alla speculazione filosofica ed estetica, una breccia sanguinosa e urlante, affollata, tumultuosa, scandita dal ritmo accelerato delle giornate di sparatoria. Mai la forza della realtà è esplosa con più urgenza nella letteratura del nostro tempo5”. La violenza, la breccia, l’urgenza questi sono gli strumenti che Straub trova nell’ultimo romanzo di Malraux, Les Noyers de l’Altenburg, scritto fuori dalla Francia, in Svizzera, tra il ’42 e il ’43 ma pubblicato solo nel 1948. Les Noyers de l’Altenburg è il romanzo di un uomo morente (poco dopo Malraux entra nella resistenza tra le fila dei gollisti), il primo manoscritto (che, facendo mitopoiesi, raccontava fosse stato bruciato dai nazisti) si intitolava La Lutte avec l’Ange, titolo che, oltre ad essere cinematografico, segna ancor di più il legame con L’aquarium et la nation. Straub trova nelle pagine di Malraux frammenti di urgenza e violenza, li (s)monta in asse con buchi neri che segnano un tempo lineare da cui non si esce. Ma come nell’acquario precedente i pesci sembravano acquisir coscienza nuotando verso l’alto (il solo spazio aperto) così l’uomo si alza in piedi, volge lo sguardo altrove, fuori. “Non è facile per un pesce vedere il suo proprio acquario”, dall’esterno una voce di donna chiede quale sia la forma della nostra fatalità: “la nazione prima di tutto, no?”. No. La risposta è netta e chiara, se si hanno dei dubbi si è ancora schiavi dell’ineluttabilità imposta, si vada in Germania o in Inghilterra o negli USA a cercare un sistema che funzioni meglio, uno Stato più presente e vicino ai propri cittadini e via dicendo...
Le due sequenze che chiudono L’aquarium et la nation, sono prese da La Marsigliese di Jean Renoir, un film che smonta il congegno assoluto della Storia in quanto fato e ne svela i meccanismi oscurantisti (l’inno che porta il nome della città del sud proviene in realtà dal nord). Ma a Straub non interessa La Marsigliese nella sua interezza d’opera filmica così come non gli interessa il romanzo di Malraux ma dei pezzi. La presa del fortino/prigione, al cui interno troviamo un “fratello” che nella lunga prigionia ha quasi perso la vista e la sequenza successiva in cui un rivoluzionario spiega ad un ufficiale dell’esercito regio che la nazione è la nuova forma di stato in cui non c’è posto per lui, parlano ai due film precedenti. Non è il nascente Stato Nazione che ci interessa, l’avvicendarsi degli stati, ma la presa del fortino, la distruzione della prigione e soprattutto quel mare immenso che vediamo sullo sfondo. In Renoir, come in Rossellini, c’è sempre spazio per il mare, c’è spazio solo per il mare, infinito è l’unità di misura; nel loro paese si parla una lingua che ha nella camera e nel microfono i suoi strumenti, quegli strumenti messi in campo nei due precedenti, la lingua cercata da Straub. Chi ci ha portato al mare, l’autore di questo film, anni fa è stato costretto all’esilio perché ha rifiutato di partecipare a un massacro, si è visto negare più volte ogni contributo dall’ignoranza statale, ha voluto, nello stesso periodo in cui ha girato L’aquarium et la nation un padiglione a sé alla Biennale d’arte di Venezia, fuori da tutti gli acquari nazionali. Straub è un pesce fuor d’acqua, solo al cinema potrebbe trovare rifugio, ma Straub non è Godard né Tarantino (The Eightful Eight, è molto vicino a L’aquarium et la nation), non cerca casa ma libertà, come un monello i vetri delle finestre li spacca. D’accordo con Debord sembra dire “conviene distruggere la memoria nell’arte. Demolire le convenzioni della sua comunicazione. Smontare i suoi amatori6.” L’aquarium et la nation è un film di un uomo che è ancora un animale prima che un cittadino; è un film postumo e per i posteri, è significativo che Aimé Agnel sia stato premiato come miglior attore al Festival Internazionale dei Film di Hiroshima, lo spazio che segna un passaggio d’era. Straub è una belva, un selvaggio che ci mette davanti a uno specchio, ma noi preferiamo volgere lo sguardo altrove, anche in questo istante, rimanere nella rete che è il nostro nuovo acquario, la nostra nuova nazione, pur sapendo che i pescatori di uomini che ci tengono in pugno sono più infami di Simon Pietro. Se ci guardassimo ci ritroveremmo come vermi, nudi. Naked.
1 In Cinéma [et] Politique. “Faucille et marteu, canons, canons, dinamite! Entretien avec Jean-Marie Straub et Danièle Huillet”, di Francois Albera, 2001
2 Enrico Ghezzi, Il Patalogo n. 7, 1984
3 Guy Debord, Critique de la séparation, 1961
4 Aimé Agnel, Sur quelques films vraiment sonores, in Cahiers jungiens de Psychanalyse, n 139, 2014
5 Italo Calvino, Malraux da L’epoir a De Gaulle, in Cinema nuovo, n 134, 1958
6 Guy Debord, Critique de la séparation, 1961