"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Più volte citato nel corso di queste lunghe settimane di allerta pandemica e di bombardamento mediatico sul tema della malattia, a mo’ di orpello, assieme alle altre sempreverdi descrizioni letterarie di antichi e moderni, il racconto di Tucidide della peste di Atene durante la guerra del Peloponneso è prezioso non solo per la sua lucidità moderna, quasi scientifica, priva di ogni superstizione religiosa, ma perché indica come aspetto più nefasto della malattia, che chiama male (κακός), l’avvilimento dello spirito (ἀθυμία). Nel far ciò ricorre al più celebre termine del lessico omerico (δεινός) che oltre ad indicare il terribile e il temibile individua ciò che è mirabile per il suo carattere straordinario. Non stupisce, se si considera che fu proprio durante quegli anni che l’individuo, finalmente tale, acquistò la coscienza di ciò che molti secoli dopo sarà chiamato esserci nel mondo. Con essa, per la prima volta, emerse anche il problema del destino individuale, scaturito dall’impossibilità di operare nel mondo secondo valori culturalmente determinati. Si iniziò allora a percepire, incalzati dalla criticità della situazione contingente, l’angoscia del nulla, e si dovette necessariamente ripensare il divino e con esso il mondo. Quello fu un problema da cui non ci saremmo mai liberati, che avrebbe via via cambiato solo nome e aspetto. È il rischio terribile di crisi della presenza di cui parla De Martino nella sua gigantesca Fine del Mondo, a cui bisogna ritornare. Che, tra le altre cose, ricorda come fino ad adesso sia stato possibile fuggire allo sporgere della storia, occultandola attraverso la ripetizione rituale di ciò che già è stato fatto nella metastoria, ovvero superare la crisi, necessaria alla sua stessa risoluzione, come l’angoscia cristiana che se compresa porta alla fede. Ma, avverte, nella società contemporanea, l’unica antitradizionalista esistente, dove è ormai pressoché assente ogni orizzonte religioso di salvezza e le apocalissi sono senza eschaton, la crisi appare nella sua nudità insormontabile, la perdita del mondano e del domestico necessariamente viene a coincidere con la perdita di senso del mondo, non essendo più possibile operarvici. La gravità della situazione attuale nasce dal violento svelamento, inaspettato e sconosciuto ai più, di questo rischio culturalmente eccezionale, dove esiste solo più la storia e la metastoria è stata fatta a brandelli, dal pericolo di catabasi senza anabasi a cui, goffamente e senza troppi successi, tentiamo di porre rimedio improvvisando una ritualità del domestico ingenua e desacralizzata, fatta di libri, film, ginnastica, di forni e di pane.
Texas, giorni nostri. Siamo al Double Whammies, breast-resturant “per famiglie” (come viene ribadito più volte) gestito da cameriere con corpi da urlo stretti in top striminziti e shorts inguinali. Sulle ragazze veglia l’occhio attento ma affettuosamente materno della responsabile Lisa, che seguiamo durante quella che si rivelerà essere la sua ultima giornata di lavoro. Ciò che più stupisce dell’ultimo film di Andrew Bujalski è la capacità di distruggere ogni previsione dello spettatore, ingannato a partire dal titolo: se da Support the Girls ci si può aspettare una gender-comedy dai toni squisitamente femministi, quel che emerge è invece un racconto scevro da ogni tipo di ideologia, in grado di superare i rischi e limiti posti dal pericoloso background entro cui si muove, dove strumentalizzazione del corpo femminile (the four B’s: be responsable, be informed, be friendly, be sexy), paradossali politiche razziali (the Rainbow Guideline) e rozzo predominio maschile si intrecciano continuamente senza tuttavia intrappolare la narrazione, che scorre libera tra i rapporti emozionali venutisi a creare tra i personaggi, legati da solidarietà prima di tutto umana e solo dopo femminile (e niente affatto preclusa ai maschi), nata da una parità di condizioni che via via si è tramutata in vero e proprio affetto, l’ossigeno che permette la sopravvivenza psicologica al dramma quotidiano imposto dall’appartenenza alla lower-class americana. Ciò che più stupisce del film è la capacità di far emergere quest’empatia senza tuttavia raccontare, se non collateralmente, le storie che la animano e che rimangono sullo sfondo per lasciare il posto a quelle che sembrano più persone che personaggi, verso cui si sviluppa un forte senso di familiarità e complicità che va al di là dei singoli trascorsi di cui viene detto poco o niente, anche quando si tratta della stessa protagonista, della cui vita privata si coglie a malapena qualche amaro frammento.
Quella che appare come una normale giornata di lavoro sempre uguale a se stessa viene a un certo punto stravolta non da un evento specifico, ma dalla dolorosa presa di coscienza di Lisa durante un improvvisato e surreale viaggio in macchina - rivelatorio per lei ma oscuro e angosciante per lo spettatore - in cui perderà, più o meno volontariamente, il lavoro.
Da questo momento le emozioni dei soggetti del Double Whammies saranno segnate da un malinconico senso di fine che intensificherà il forte legame tra la donna e le ragazze, già consapevoli dell’impossibilità di sostenere lo squallore quotidiano senza quell’empatia e affetto reciproco a cui sempre si aggrappavano per rimanere a galla.
Il film è a tratti attraversato da una comicità che scaturisce più da un senso di straniamento che da un umorismo vero e proprio, e che culmina nel delirante e fallimentare tentativo di ribellione al licenziamento di Lisa da parte delle sue protette, la cui febbricitante performance ha il sapore dell’improvvisazione. Questa libertà recitativa, probabilmente specchio di una altrettanto libera scrittura, è più o meno marcatamente onnipresente. Qui risiede la potenza del film di Bujalski, nella capacità di assumere, con estrema naturalezza, tratti quasi documentaristici nella toccante e malinconica narrazione dei legami solidali e affettivi tra i personaggi, narrazione che si apre con il pianto solitario di Lisa e si chiude con un urlo collettivo di isterica ma catartica liberazione, seppur solo apparente anche ai loro stessi occhi.
Chiuso in un cassetto l’iPhone 5s di Tangerine, Sean Baker sbarca alla Quinzaine des Réalisateurs con The Florida Project, assolata straziante istantanea del sottoproletariato americano nell’era del selfie, colta in un motel della scialba periferia di Orlando alle pendici del castello di Disneyland, che, suo contraltare, si trasforma nella sua diretta proiezione capovolta attraverso lo sguardo incantato della piccola Moonee e dei suoi compagni di avventure.
Ci si immerge nella frenetica e improvvisata routine estiva di Halley, di appena ventidue anni, e della sua bimba di sei, una quotidianità conquistata con mezzi rocamboleschi e al limite della legalità, per trentotto dollari a notte. Tutta l’immagine è un’esplosione di colori: le pareti, le porte, le magliette dei bimbi e i tatuaggi delle mamme giovani e belle, il cielo blu cobalto della Florida riflesso nella piscina comune del Magic Castel Motel.
Ci si diverte e ci si culla nel ritrovare la bellezza di giochi dal sapore antico, di bimbi che privi di mezzi si affidano alla sola immaginazione e all’ambiente che li circonda e che, costretti, sanno ancora plasmare; tutto il complesso del motel diventa roccaforte da espugnare, sempre cercando di non farsi scoprire dal guardiano del castello - interpretato da Willem Dafoe in uno spaccato di dolcissima umanità. Ci sono gelati ottenuti al centesimo e condivisi in tre, corse verso i campi, piogge di selfies e di boccacce, compleanni improvvisati insieme a fuochi d’artificio raggiunti in autostop, festicciole notturne in piscina di donne che, ancora bambine, sono diventate mamme. Un susseguirsi di immagini screziate da cui trapela una gioia malinconica e che non si colloca in questo tempo e in questo spazio, un’eco che trascende quel mondo sociale e unidimensionale di cui si è ormai misera e costernata riduzione, sorrisi risvegliati dalla memoria di un luogo che sembra - ed è - perduto.
Quella di Baker è però una dialettica di chiaroscuri, di immagini ed emozioni contrarie disposte in scala ascendente, ed è un attimo dallo svelamento di quella realtà che pretende e ottiene di essere sovrana, di cui ci eravamo dimenticati. L’illusione si infrange in schegge di immagini che stringono lo stomaco, così come il dramma umano si determina socialmente. La Disneyland del Magic Moon Motel si trasforma nella Dismaland di Bansky e diventa teatro degli orrori - di sfratti, prostituzione, assistenti sociali e urla - in un copione che prevede la frattura definitiva di questo già mutilo nucleo familiare, l’inevitabile separazione degli unici suoi due membri.
Ma è qui che avviene il miracolo, qui la catarsi purificatrice. Alla fine, gli occhi e il cuore così turbati dello spettatore accompagnano la fuga della bimba in lacrime; Moonee però non corre per scappare come ci si aspetterebbe, e a spingerla così veloce è la sola paura di non poter dire addio alla sua amica del cuore. Sono lì, due bimbe che si guardano e piangono mentre su di loro precipita inarrestabile il terribile mondo dei grandi, e la risposta è di nuovo una corsa, verso la vera Disneyland, per mano, già disperatamente consce a soli sei anni della necessità del senso del ricordo in un mondo che sa travolgere dalle fondamenta ogni cosa. La camera a mano insegue le due piccole fatine, Jansey e Moonee, che volano via verso il Castello.