"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Beröringen (titolo inglese The Touch, titolo italiano L’adultera, anno 1971) è il film più segreto e incompiuto e tanto cruciale quanto volutamente sotto tono di Ingmar Bergman. Una ballata triste e romantica d’autunno. Un autunno infinito, senza sinfonia, senza più stagioni prima o dopo, solo un manto di foglie livide e infuocate insieme che scendono lente a terra. Fra di loro ce n’è una più resistente delle altre, più pura, l’unica che crede alla sua stagione, che non ha paura di credere in qualcosa, che sa cosa è un inizio e cosa una fine. Ha il volto serio e dolce la foglia Bibi Andersson, l’attrice forse più vicina a calibrare l’incalibrabile squilibrio tra il lavoro mimetico e di denudamento dell’attore. Posso vedere una foto di sua moglie nuda, dice Elliot Gould a Max Von Sydow. Ma non c’è bisogno di chiedere. Guarda. Guardati. Lei ci prova a spiegartelo, con tutte le sue forze, ma tu non ti sposti di un millimetro. Voi non vi spostate di un millimetro. Voi che accusate lei di non saper prendere decisioni, lei che le ha prese tutte per prima e subito con quel suo talento assoluto e insuperato di depotenziare anche questa forza evidente, quest’occhio che vede dove agli altri non è permesso, ma senza voler dimostrare nulla, cancellando ogni passo, attaccata spasmodicamente alla purezza che le è propria per istinto, e quasi senza darsene a vedere. Un vera musa. Più di altre con cui Bergman ha lavorato a fondo. Quella che incarnava qualcosa che forse neppure lui, se non raramente, ha raggiunto, ma che intuiva fosse lì, dentro quegli occhi e quel volto che, col minimo movimento, lavorato allo stremo e insieme completamente inavvertito, ne rilancivano decine, centinaia.
Il titolo stesso di questo speciale non arriva alla precisione con cui un film come Tully misura esemplarmente il livello di fragilità (che ritorna metaforicamente nell’idea di eterno non-passaggio all’età adulta - Young Adult recita spudorato un Reitman 2011) di un piccolo selvaggio mucchio di film un po’ troppo e non a caso segretamente amati nel corso dell’anno appena trascorso. Minding the gap appunto, prendersi cura delle loro mancanze e forse del loro volersi mancare, è un modo per restituire quel che tuttavia, di questi amici fragili, attiene al puro desiderio. Filmicamente, questo è il punto, è proprio questo non-passare a doversi intendere piuttosto come passaggio verso un differente confine, un po’ più labile, invisibile, un po’ meno facilmente declinabile, che ne segnala, volutamente sottotraccia, l’interesse e la bellezza possibili. Tully svolge quasi serenamente tale riflessione su una certa lacuna di alcuni film (e non più mai su una certa tendenza), su un certo modo di sparire e poi di riaffiorare come ipotesi di inattualità che costituisca il nucleo stesso del filmare (tutto Reitman, d’altra parte, si muove felpato su questo crinale). La questione dunque non è se Tully sia un film bello oppure no. Intanto lo è, così come e in quanto meravigliosamente desueto, seccamente anti-catartico, film illusionista che non offre illusioni, ma analizza invece una materia convulsa e politica che riguarda la donna e il suo corpo senza mai scadere nei patetismi sociologici e ideologici che appiattiscono e esacerbano e tradiscono. Si tratta di interrogarsi cosa lo distingua, all’interno di quella che una volta, e che invero non si è mai interrotta, si poteva definire produzione media americana (non è più il caso di usare la parola hollywoodiana). Cosa ne faccia un film unico e che si muove su livelli di intensità che, per esempio, nessun annacquatissimo medio film Netflix sembra in grado di raggiungere (nessuna polemica, solo constatazione, visto che d’altronde il gigante tentacolare on-line forse proprio non vi è interessato, ormai i casi di film appena accettabili o guardabili con la distrazione meccanica con cui la mattina ci laviamo i denti pensando ad altro non si contano più). Uno dei motivi è sicuramente Charlize Theron, o meglio la complicità con cui la leggerezza di Reitman e la caparbietà dell’attrice, lavorano il corpo trasformandone la mutazione da processo narrativo a vero e proprio tessuto filmico. Il fatto che questo ‘passaggio’ avvenga quasi silenziosamente, giocando all’apparente linearità di intenti e intreccio, è ciò che distingue Tully dalla gran massa di film che si beano a ricalcare orme altrui, soddisfatti di essere riconoscibili e niente più (sia chiaro, inferiori anche alla scrittura che pretende di essere regia di talune entusiasmanti serie). No, qui la cosa che si vede è il lavoro dell’attrice, il quale tuttavia è il vero e forse geniale mcguffin in grado di mascherare il lavorìo del film, di farlo scorrere su un piano più segreto che invita a guardare oltre i fatti, a scrutare fra le maglie, in modo che molte cose non tornino e che anche la sorpresa finale risulti depotenziata al punto da produrre il desiderio immediato di rivisione alla luce dell’elemento tanto apparentemente invisibile. Ecco, Reitman, a differenza di altri, non è mai stato uno shooter, ma un regista che fa della mutazione e della crisi d’identità una possibilità di investigazione dell’invisibile che ci riguarda e che dunque riflette sulla necessità di imparare a convivere con questa malinconia. Ci si illude di vedere o di vedere tutto, fino alla fine delle illusioni.
Non è la prima volta che Jean-Luc Godard per parlare d’immagine parla prima di tutto di ciò che attiene al tatto. Non proprio di un ‘occhio tattile’ tuttavia, nel lavoro di JLG ci possono essere grafi, grafie, tavolozze Fauves rinvenute direttamente nel ventre dell’immagine - ma mai metafore. No, semplicemente Godard parla delle mani. Lang Rossellini Hitchcock. In rapida successione. Mani. Non solo per voltare le pagine del livre o per ‘scrivere’ l’image o per scorrere la pellicola (anche leccarla come Jerry Lewis, parte della storia fisiologica del tatto è nella lingua, nella saliva). Mani come condizione primaria dell’umano. “La vraiè conditíon de l’homme: penser avec ses mains”.
Invero, nulla di meno pacifico. Le dita sono cinque e la composizione origina risultati non preventivabili. Da un lato l’archivio e il suo sistema morale, dall’altro la dannazione di chi decide di intraprendere il viaggio tra immagine e parola senza dire stronzate (“pour ne pas faire caca”/”no bullshit”). Un incubo in una notte di tempesta – i fatti, gli eventi reali, visti come esperienza non di ciò che si fa, ma di quello che non si fa (JLG lo ripete come un mantra durante la scorribanda via face-time che ha scosso dal suo torpore il festival di Cannes e che in mancanza di meglio chiamiamo ancora conferenza stampa). Nulla a che vedere con la parola tanto in voga fake, al contrario un tentativo estremo di maneggiare la bellezza attraverso l’apparentemente dimenticato romanticismo della menzogna come passage per la verità (Benjamin, n’est-ce pas?).
La sequenza di Johnny Guitar, con la sua semplicità e ambiguità al cubo, giunge come un lampo: l’amante dice all’amata dimmi delle bugie, cioè delle verità in forma di menzogne, ripetimi le tue frasi d’amore con l’odio di chi sa di mentire perché dice la verità. “La guerre est lá”. (È da poco scomparso Philip Roth che amava ripetere una cosa come capire la gente non è vivere, vivere è capirla male). Godard, che molto tempo fa aveva rifatto la scena in Le Petit soldat, teneramente ce la mostra. È il primo capitolo di Le livre d’image: Remakes. Che, appunto, diventano rim(ak)es. Ma il poeta è il primo a sapere l’abisso di inconciliabilità contenuto in ogni rima, un secondo un’ora un giorno corrispondono a un giorno una vita l’eternità. Seguono tortura, punizione, l’innocente che paga per colpe non sue. Questo succede a chi cerca di decifrare l’imagine, tragicamente mette altra realtà nella realtà. Come se nulla fosse Godard giunge qui subito al punto cruciale (e subito, alla sua maniera, se lo mette alle spalle): “nessuna attività diventa un’arte prima che la sua epoca, il suo tempo non sia finito, e allora scompare”. Per questo si può non smettere di chiedere che cos’è il cinema, che forse non è neppure ancora un’arte, e che ha questa capacità di giocare a scomparire, di saltare a piè pari epoche e tempi inventando continue sparizioni. Ma ciò non toglie l’orrore delle leggi, la fine della democrazia, la fine del sogno di riscatto degli umiliati e degli offesi.. Ciò non toglie questa Europa senza virtù né futuro..
Così la prima parte dell’ultimo Godard, Le livre d’image, che il Festival di Cannes, senza saper bene che fare, onora della palma d’oro special a conferma lampante di genericità e medietà dei festival tutti. La prima parte, ovvero sotto gli occhi dell’Occidente. Il film è da subito e fino alla fine un trattato di stereofonia, che delocalizza lo spazio uditivo attraverso il rincorrersi e incrociarsi e sovrapporsi delle voci delle frequenze dei volumi (mix oltreumano che ha la follia e il desiderio di un’ulteriore salto mortale, visto che JLG e la sua équipe lo hanno pensato appositamente per la sola sala Lumière di Cannes, e ora sono al lavoro per rifarlo daccapo e presentare il film ogni volta come un happening – “in qualche piccola sala di cultura o in qualche circo” dice ironicamente il già citato Godard versione face-time). E che diffonde l’energia pluri-auricolare sull’immagine stessa - estratti da film propri e altrui, brani anonimi cine-tv e Internet, quadri, grafie, illustrazioni, libri, pennellate, sbavature – scegliendone sempre la versione peggiore, sgranata, decomposta, bruciata dal sole, colata a picco, non più supportata dal supporto, smagnetizzata, graffiata, sradicata. Spesso lo stesso frame, la stessa immagine viene modificata in asse, sformata deformata riformattata, 4:3 e 16:9, cinema tv cinema tv cinema… (non c’è lo spazio necessario, ma andrebbe pensata la vicinanza di Le livre d’image a un film come Vent d’est, non solo per la struttura, lo vedremo, bipartita e la trama, proprio la nervatura tragica e politica insieme, ma per quest’opera di continuo auto-sabotaggio del film e dell’immagine e del ruolo stesso del cineasta, con cui Godard sembra voler ritrovare nell’apparente disfunzionalità del corpo del film il corpo vivo, se è ancora da qualche parte vivo, dello spettatore, chiamato non certo a decifrare la folla di segni parmi nous, quanto piuttosto a liberarsi della propria normatività di decifratore o interprete, e invece fare esperienza della continua disfatta dell’immagine per giungere a essere un’immagine. Da cui il famoso “non è un’immagine giusta, è giusto un’immagine”, che più recentemente Godard ha chiosato spiegando che “i miei film si inseriscono in una corrente della sinistra europea che vola di disfatta in disfatta, in un bello slancio romantico”. Romanticismo che appunto diviene ora il perno di Le livre d’image)…
Fino al capitolo 5, non a caso intitolato La Région Centrale, vertigine che apre al secondo lunghissimo blocco tutto dedicato al mondo arabo, o meglio alla “heureuse Arabie”. Ma intanto l’omaggio a Michael Snow - a quella sua sublime e interstellare esplorazione dello spazio capace di lanciare il tempo oltre stesso, di spalancarlo, squarciarlo dall’interno - ricongiunge il film al suo inizio: quando il tempo è fuori sesto, quando manca a se stesso, quando non abbiamo più nulla da aspettarci, “ci sono cinque dita, la mano”. E le mani bisogna sporcarsele e tornare a parlare del mondo arabo, nucleo da sempre decisivo e non certo per la tragedia che intende finire di stringerlo nella morsa (uno dei film più profetici di tutta la storia del cinema è e resta Ici et ailleurs, firmato da Godard con Anne-Marie Miéville a metà degli anni settanta). Il mondo arabo che non è l’Islam, sia detto in principio. Principio gioioso, appunto. Mentre il cristianesimo è il rifiuto di conoscersi, “la morte del linguaggio”. Qui lo sfogliare il libro dell’immagine araba (da Edward Said a Pasolini all’orrore attuale) è per Godard un modo per spogliarla della violenza con cui viene rappresentata, vista solo politicamente o confusa col Medio Oriente, perché in fondo né il mondo né i mussulmani sono interessati agli Arabi. “Les arabes peuvent-ils parler?” Gli arabi possono parlare? Non so in quanti oggi abbiano la stessa lucidità e insieme tenerezza di porsi questa domanda come fa Godard. Di ricordarsi come questa voce araba, fatta di paesaggi e colori d’infinita intensità, ha saputo e sa dire cose giuste, trovare il volume giusto per dirle. Proprio questa è l’immagine che si cerca di cancellare e di evitare che accada, è un modo per prolungare il giogo. Che orrore.
Ora il film, Le livre d’image, è un fiume in piena, una colata di marca strettamente pittorica e musicale, dove Godard sembra voler dire che è solo l’arte del contrappunto a produrre una melodia. Le livre d’image non crede nella musica d’accompagnamento, ma nell’interruzione, nell’eco, nella deflagrazione, nel viaggio coraggioso fra le macerie (l’Aldrich di Kiss Me Deadly appare quasi subito e anche il Tourneur di Berlin Express). Uno dei pochi, Godard, ancora a credere che il conflitto non è fatto solo per distruggere. Anzi è qui che un’armonia possibile va ricercata. È anche, questo passaggio, lo sprofondamento più romanzesco del film. Il sogno. Le mille e una notte. La città di Dofa. Esempio immaginario che riporta l’immagine alla sua realtà politica. “La scusa d’ogni ambizione politica è quella di fingere di sacrificarsi per il bene del popolo quando il popolo non ha chiesto nulla se non di vivere in pace”. Ma soprattutto, come diceva Brecht, “solo il frammento porta il marchio dell’autenticità”. Siamo alla corsa finale, una delle più commoventi mai viste al cinema. Ci vorrebbero libri interi di immagini, ma di nuovo il cinema sembra capace di questo paradosso fatto di fulmineità e durata. Godard parla e la sua voce si spezza, la cede a Anne-Marie Miéville, la riprende rauco, tossisce. In gioco c’è il soggetto stesso, la necessità di una rivoluzione (“il doit y avoir un revolution”). Sapere che quando si parla a se stessi si parla con la voce di qualcun altro che si rivolge a noi stessi. E se questo è il segreto dell’immagine, allora le nostre speranze, le speranze di una vita, resteranno. Resteranno immutabili. Come la sequenza del ballo tragico dionisiaco romantico da Le Plaisir di Max Ophüls che chiude o riapre le livre d’image.
Questo testo è apparso in prima battuta su Alfabeta2 il 27 maggio 2018.
’77 No Commercial Use di Luis Fulvio non è un film sul ’77. È un film letterario e non letterale. È un corpo a corpo continuo e continuamente a rischio con immagini materiali pagine e pezzi di vita, che lucidamente e inevitabilmente sceglie l’autobiografia come margine aperto e incerto per valicare confini temporali e paludamenti d’ogni tipo (archivistici documentaristici politici). Come si dice in altra parte di questo numero riguardo a Ready Player One e al suo mirabolante gioco di memorabilia, non ha alcun senso enumerare tutte le presenze, di cinema e non, che popolano il film, essendo esse stesse rigorosamente anti-citazioniste, e piuttosto tese a interrogarsi sul farsi stesso del cinema come eterno e mutante presente. ’77 No Commercial Use anzi è in questo senso il Ready Player One di Luis Fulvio (così come si è detto che Ready Player One è l’Histoire(s) du cinéma di Spielberg): un unico supersonico auto-ritratto, cioè un documentario sul mutarsi del proprio volto attraverso le variazioni infinite dei volti altrui (impossibile ritenere casuale la data di Incontri ravvicinati del terzo tipo, che infatti barbagliano in qualche punto del film). Se poi, fra gli altri, appare Carmelo Bene (nella sua infuocata incursione in e con Majakovskij), questo può solo indirizzarci a immaginare l’ampiezza immaginaria dell’autobiografia stessa. Immaginaria tanto quanto la storia sembra aver abbandonato nell’oblio l’anno in questione, al punto da far sembrare a più riprese fatti e persone di questa mina vagante rivoluzionaria durata due mesi appena e capace di situarsi come l’ultima esperienza rivoluzionaria in Italia e in Europa, quasi una fantasia. Il ’77 è sparito. Il ’77 non è mai esistito. Si parte da qui (salvo che 1977 è anche la data di nascita del regista, che è vivo e lotta insieme a noi). Si parte da un cortocircuito di intensità che non hanno bisogno di dichiarare qualità grane formati e proprietà. Si ricerca un battito, una frequenza già allora insondabile, precipitazioni già allora inclassificabili. Dunque quel battito, quella frequenza, quell’attrito. È l’intuizione maggiore di Luis Fulvio, concentrarsi sul cinema prima di tutto, non sulle interpretazioni postume (pur fondamentali e tutte visibili nel film), ma sul montaggio come auto-rivoluzione, come maelstrom cine-tv-video-amatoriale-fotografico-letterario che riesploda al presente gli eventi di un anno passato a lottare col presente.
Contro l’oblio. Contro lo sterminio (di nuovo Godard). Altrimenti come raccontare un numero di vicende che ha quasi dell’imponderabile. Si tratta anzitutto di non essere didattici, cioè di esserlo rossellinianamente, ridire la storia di qualcosa che non trova soluzione (nel film il cubo di Rubik - data di messa in commercio ovviamente 1977 - è metafora lampante) continuando a porre domande. Ecco perché da una parte le immagini si accavallano e si rincorrono e si inghiottono senza soluzione di continuità, e dall’altra si profila una struttura cronologica (da gennaio a dicembre), che a sua volta implica da un lato uno studio preliminare giustamente ossessivo che dura una vita, e dall’altro la ripresa fisica dei materiali - libri, stralci, scritte, proclami, pubblicazioni militanti. Ci sono i libri e i muri delle città prima delle immagini. L’esatto contrario di tanto documentario domestico e addomesticato. Non è questione di reale o non reale, ma di filmare delle voci riportandole alla luce con la loro fisicità originaria, dunque con la loro cecità e la loro veggenza insieme (Blanchot?). Metodo sorprendente che, prima ancora del ’77, racconta l’epopea dello spettatore, compresa quella del filmmaker che cerca la distanza giusta di fronte alla mole prodigiosa di immagini e fatti che lo riguardano (di nuovo Spielberg). ’77 No Commercial Use è un film sull’ineffabilità delle cose, su ciò che nella vita è capace di incollarsi alla pelle e allo stesso modo di essere completamente dimenticato, su ciò che si vede e su ciò che sfugge, sui processi indefinibili e indefiniti della memoria. Quel che viene davvero filmato è l’impossibilità di storicizzarsi nel pieno degli eventi, il movimento tellurico che li fonda come unica realtà o quel che ne resta. Se un documentario è un documentario.
Al secondo film S. Craig Zahler tiene duro e resta considerabile una scoperta assoluta. Non c’è da stupirsi che sembri muoversi con velocità e come in preda a un vero e proprio fuoco realizzativo (in arrivo già il film successivo, un poliziesco con Mel Gibson, Jennifer Carpenter, Don Johnson..), né che certa compattezza e addirittura simmetria nella coppia di film diretti finora (l’esordio luminoso Bone Tomahawk e questo corrusco livido Brawl in Cell Block 99) venga scambiata per arte mimetica o, peggio, per ritorno omaggiante all’arte di genere (grindhouse). È d’altra parte l’unico modo per spiegare l’altrimenti inspiegabile. Intanto il trasporto addirittura fisico con cui Zahler sembra aver interiorizzato – nel fraseggio, nel posizionamento dell’occhio, nel modo in cui costruisce tempi e spazi – una linea che va da Howard Hawks a Don Siegel a John Carpenter (forse anche a Hill, forse anche a Joseph H. Lewis). E come lo faccia senza ergerli a funzioni filmiche esplicite (come farebbe, peraltro sicuramente con sapienza e splendore, un Tarantino, da cui, ripetiamolo, differisce completamente). No, per Zahler questi nomi e numi sono ariose e spesso violentissime circolazioni amorose che lui riduce all’osso, agendole per quello che sono, ossia la base, il fondamento, la radice del cinema americano. Non c’è bisogno per esempio di spiegare o dire più di quel che già si vede perché il mondo in cui si dipana il trapasso sacrificale di Vince Vaughn (completamente trasformato rispetto al passato – True Detective e Hacksaw Ridge a parte: calvo, con una croce tatuata sul cranio, glaciale, fatalista, malinconico, uno che ne ha viste troppe, uno che quasi implora il resto del mondo di non provocarlo perché sa cosa sarebbe capace di fare, perché sa cos’è il luogo impossibile in cui l’amore coincide con la psicosi) è chiaramente lo stesso mondo attonito e posto sotto il giogo di qualcosa di imponderabile del Carpenter di They Live (e d’altra parte all’inizio il West filmato in Bone Tomahawk mostra le medesime caratteristiche), crisi economica e disoccupazione comprese. Ecco allora questi tempi sfilacciati, sospesi, questi sguardi misteriosi da un finestrino all’altro dell’automobile, lanciati distrattamente su un junkie seduto alla fermata dell’autobus.. Sono inquadrature e nulla più, magari più lunghe del necessario, spazio vuoto e tempo svuotato, deriva interna all’immagine stessa, mentre tutto intorno il cielo illividisce e le crepe nel corso apparentemente segnato della narrazione la conducono invece e segretamente (con quale maestria) verso l’esito più grandguignolesco e insieme fatto della fredda materia d’ogni destino fatale. In questo Zahler è l’esatto contrario del grindhouse anni settanta. L’ultraviolenza del finale è nient’altro più di quel che significa narrativamente – ossia la scelta estrema di un uomo messo in una situazione estrema – senza alcun compiacimento o gratuità, rispondendo unicamente a un fattore etico. Ovviamente un’etica costretta a ripensarsi come segno fisico dell’eccesso: ma, per capirne le ragioni, basterebbe ricordare l’eloquente scena iniziale quando Vaughn/Bradley scopre il tradimento della moglie (Jennifer Carpenter) e, cosciente della rabbia che lo sta per far esplodere, la fa rientrare in casa e sfoga tutto il suo dolore distruggendo l’automobile di famiglia, scegliendo responsabilmente di non toccare la donna nemmeno con un dito; sequenza che fra l’altro permette allo spettatore di accettare la follia del medico coreano che più tardi, quando la moglie di Bradley incinta verrà fatta prigioniera, si dirà capace (è Udo Kier, grandissimo, a recapitare pazientemente il messaggio) di mutilare il feto delle braccia mentre ancora è nell’utero lasciandolo in vita e dunque di farlo nascere così, con due moncherini. L’architettura dell’immagine è a sua volta secca, plumbea, grandangolare (qualcuno, non lontano dalla verità, ha parlato di cura o istinto kubrickiani), attenta a non falsificare i fatti col montaggio, pochissimi tagli e solo quelli necessari a ricordarci che un film (o che il cinema americano che amiamo) non è fatto di cuts ma di piani (plans).