"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Sono nel traffico.
Gomito al finestrino, gas di scarico, sole basso negli occhi.
Alla radio, musica che non capisco, parole mozzate e voci modificate. Cambio stazione. Radiogiornale.
La coda avanza un poco. Mi specchio nelle espressioni annoiate degli automobilisti. Abbiamo solo voglia di tornare a casa e di scrollarci la giornata di dosso.
Alzo il volume, parlano del virus cinese. È arrivato anche da noi. La gente muore. Dobbiamo chiudere tutto, scuole, negozi, parrucchieri, banche, parchi, chiese, tutto. Dobbiamo restare a casa.
Sento una vibrazione. Un brontolio dal basso. La mia auto si stacca da terra. Mi sento leggera, lievito all’interno dell’abitacolo. Intorno a me, le altre automobili galleggiano nell’aria.
Ci guardiamo attraverso il parabrezza. Le nostre bocche si spalancano al rallentatore. Pesci in un acquario.
La mia auto punta il muso in alto. Parte. È un razzo. Sale a velocità supersonica. Il tettuccio si apre, vengo espulsa dal sedile. Sono proiettata in alto, così in alto. Il mio corpo cambia, torno adolescente, bambina, neonata. Un casco da cosmonauta mi protegge la testa, un lungo cordone ombelicale mi tiene attaccata a una piccola terra, così distante. Volo nell’universo.
In lontananza vedo un agglomerato di stelle. Lo raggiungo. È una strada illuminata da lampioni. Nuoto in mezzo ad alti edifici. Dai balconi, persone cantano, battono le mani, annaffiano piante.
In strada un corpo di ballo sincronizzato, infermieri, dottori. Sorridono sotto le mascherine. Persone a letto, intubate, seguono il ritmo. Gli spiriti si staccano e volano con me.
Avanzo. Dai balconi piovono cestini colmi di fiori, di buon cibo. La musica diventa un’eco. Le strade sono vuote. Quiete. Sento un rumore di passi, di zoccoli, un cerbiatto mi saltella accanto. Sotto di me corre un cinghiale, vengo immersa in un fuggi fuggi di animali selvaggi, delfini, cigni, scoiattoli e scimmie che ciondolano da un balcone all'altro. Mi sorpassano. Sono di nuovo sola.
Il gracchiare di una radio. La serranda di un negozio si apre, il rumore è assordante. Nella strada davanti a me un grido. Gente che manifesta. Hanno grandi cartelli in mano. Leggo “Rivoglio il mio taglio di capelli!” “Aprite il mio fastfood!” “La libertà o la morte!” Una persona tenta di colpirmi con un cartello che dice “Complotto!” Lo schivo per un pelo.
Una radio volante mi segue, dicono che il virus sta andando via. Dicono che dobbiamo tornare alla normalità.
Il cordone ombelicale si tende. Annaspo nell’aria. Mi tira all’indietro, sempre più forte, sempre più rapida. Gli animali corrono, volano, saltano all’inverso. La gente dei balconi viene aspirata dentro casa, i lampioni sfrigolano, si spengono. Il cordone tira. Invecchio, la terra si fa più grande. Ho paura, finirò per sbatterci contro. Esplodo. Nero. Luce.
Sono nel traffico. Gomito al finestrino, gas di scarico, sole basso negli occhi e musica che non capisco.
Bruno Ganz mi osserva in silenzio. Gli passo il cavo del microfono sotto la camicia e glielo fisso a sinistra. Ho quindici anni, faccio il mio primo stage in televisione.
Lui aspetta che io abbia finito, poi dice che sarebbe meglio metterlo a destra.
Non capisco il perché, ma eseguo.
Il giornalista fuma in un angolo, il cameraman prepara il cavalletto. Prendo il riflettore, lo sfilo abilmente dal sacco e cerco di illuminare la parte in ombra del suo viso. Trovo la posizione e m’immobilizzo. Lui mi fissa, alza il mento. Non capisco. Ripete. Inclino un po’ il freesbee. Sorride e muove la testa a sinistra. Seguo il suo movimento.
Ora la luce è perfetta. La sente sulla pelle.
Lancia un’occhiata al giornalista e a voce alta chiede se sono io il capo e se posso avvertire i miei colleghi. Noi siamo pronti. Cameraman e giornalista corrono, si posizionano a destra e l’intervista inizia.
Bruno Ganz mi guarda picchiettando un dito sull’orologio anni ‘30 che porta al polso.
Ho ventisette anni e lavoro come assistente alla regia. Gli avevo detto che sarei andata a recuperarlo dopo quindici minuti per portarlo sul set e ne sono passati venti. È vestito con un completo grigio in lana cotta con tanto di cappello in stile Borsalino. Gli conferisce uno sguardo severo. Mi parla in modo secco, diretto. Mai una parola in più di quello che deve.
Appena vestito e truccato mi aveva chiesto tempo per un caffè e dal set mi avevano concesso quindici minuti. Quando stavo andando a recuperarlo, avevo scoperto che c’era stato un problema tecnico, non avremmo iniziato a girare prima di un’ora. Da quì, i miei cinque minuti di ritardo.
Glielo spiego, alza le spalle e decide di tornare in stanza.
Passano cinque minuti, mi suona il telefono. Il problema è stato risolto, dobbiamo partire subito.
Salgo al piano delle camere, busso alla porta. Bruno mi apre in canottiera, non sembra sorpreso. Gli dico che dobbiamo partire. Alza le braccia: “Sempre così. Non importa il film. Non cambiano mai.”
Arriviamo a destinazione. Ci troviamo su una collina spazzata dal vento gelido di novembre. I tecnici e i figuranti punteggiano il paesaggio. Bruno esce dall’auto, lo vedo parlare con l’aiuto regista e alzare le braccia. Torna da me. Non sono pronti: “Sempre così. Non importa il film. Non cambiano mai.” ripete.
Le ore di ripresa passano in fretta. Bruno sale in auto che non ho ancora fatto manovra. Invece del freno schiaccio l’acceleratore in retromarcia e sbatto contro la parete erbosa della collinetta. Lui, stoico, non si è mosso.
Durante il tragitto mi racconta della sua prossima lettura in un castello. Recita con il sorriso brani di libri a memoria. Io non assaporo il momento, persa nel senso di colpa.
Arriviamo all’hotel. Scende. Sparisce. Non mi muovo, ci manca solo che lo investo. Riappare alla finestra, mi punta un dito. Abbasso il finestrino. L’indice sempre verso di me. Vede che non capisco. “L’erba.” Dice. “L’auto qui dietro, era sporca d’erba. Ma ho tolto le prove.” Mi fa l’occhiolino. Lo guardo allontanarsi a passo lento, un po’ ciondolante, con ancora addosso i suoi pesanti vestiti di scena.