The art of fiction
La Flor. Quattordici ore. Siderale via lattea di generi. Lunghi intermezzi (musicali). I più lunghi titoli di coda di sempre (quaranta minuti). Sei episodi geograficamente e narrativamente esplosi e disseminati. Il regista in persona, all’inizio, prova a introdurci alla struttura, enumera generi e registri (tutti facilmente riconoscibili tranne uno, che Llinás definisce fiction autoriflessiva) e, soprattutto, inizia un curioso film parallelo, che potremmo definire grafico-cabalistico, sulle pagine bianche di un quaderno di appunti che piano piano, lungo tutto il film, si riempiono di nomi segni e geometrie del pensiero (sarà evidentemente un’ossessione latino-americana, o procedura affine a chi si impone progetti ‘criminali’ come può esserlo spendere dieci anni della propria vita a girare un film, ma non si può non pensare al taccuino del torturatore assassino filmato da Gianfranco Rosi in El sicario – Room 164). Al di là dell’ovvia ironia di queste apparizioni, la cosa interessante è che non si tratta di interventi atti a facilitare il viaggio (che, come detto, è molto lungo, ma anche - diciamolo subito - volutamente più noioso in alcune sue parti e meno volutamente non tutto riuscitissimo in altre) , quanto piuttosto di un plumbeo sprofondamento in cui il cineasta interroga se stesso senza ottenere risposte ma appunto un ulteriore sistema cifrato e digressivo.
Non è peraltro solo il regista a valicare i confini della scena. Le quattro attrici, che bravissime è dir poco (tutte provenienti dal teatro, Elisa Carricajo Pilar Gamboa Valeria Correa e, solo una, Laura Paredes, già vista al cinema nei film di Matias Piñeiro – in uno degli episodi appare anche un’altra delle attrici della squadra Piñeiro, Agustina Muñoz), e che cavalcano il tourbillon di personaggi e intarsi narrativi dall’inizio alla fine, nell’episodio tre si ribellano contro il metodo produttivo e performativo insieme, cosa che rompe col ritmo della narrazione e permette al regista di esaudire il suo desiderio per questo episodio a metà tra fanta-horror e documentario: andare a filmare alberi. Ma il punto è un altro, e non sottovalutabile per un esame complessivo del senso dell’opera. La verità è che lungo tutto l’accidentato percorso di presenze e incarnazioni, la sensazione è sempre che anche nel punto di massima fiction alle attrici venga richiesto di alludere a un’interpretazione meta-filmica di se stesse, per cui non sono mai completamente, interamente il personaggio, in qualche modo riflettendo sul film che stanno facendo, come se non dimenticassero mai di essere prima di tutto i loro nomi scritti sul famoso quaderno dal regista (al punto che l’episodio in cui si ribellano, al contrario di ciò che sembra, potrebbe essere considerato l’unico veramente e puramente di finzione; e inoltre Llinás stesso avvalora questa interpretazione quando dichiara che La Flor è un film fatto da e per le sue attrici). Ecco, La Flor è esattamente questo, un film che nonostante (o proprio per questo!) il suo perseverare serio e ludico insieme alla ricerca di un naufragio nel racconto, proprio col desiderio di smarrirsi fra i mille rivoli possibili delle storie, non riesce a fare a meno di condurre parallelamente un discorso su se stesso, sulla sua identità progettuale e sul suo essere un film infine.
Ora, è questa l’idea originaria di Mariano Llinás? Fare un film narrativo in cui la sceneggiatura non è altro che una digressione del racconto vero, ossia la storia di un film che racconta se stesso? O forse, ancora di più, il racconto di un film che riflette sull’arte del racconto? Pur essendo di questa opinione, meglio esprimerla in forma di domanda, nel rispetto della varietà propria del film e del suo stesso metodo interrogativo e auto-interrogativo. Anche perché, pur nei suoi alti e bassi, La Flor instilla più di un dubbio su quale sia il suo vero fondamento, cosa che rimane il fatto essenziale e più stupefacente. Se lo si prova a guardare per esempio dal lato opposto, e cioè quello di una fiction rigorosa e assoluta, non v’è dubbio che uno degli elementi che sembrano guidarlo con decisione sia il desiderio di ritornare a qualcosa che una volta si chiamava il piacere del racconto. Cosa che Mariano Llinás precisa con forza, teorizzando appunto una interessante distinzione tra fiction e racconto, e per di più insistendo nel dichiararsi dalla parte della prima. Ebbene, anche senza prendere posizione, è proprio su questa dialettica che La Flor ottiene i risultati migliori e talvolta esaltanti. Traslare ciò che è narrativo, e dunque in qualche modo legato alla realtà (se non altro alla materia di uno script), su un piano di fiction tale che la stessa fiction ne sia il documento (il documentario?) assoluto. E questo procedimento si diffonde anche sui materiali cinematografici in senso stretto giocando da un lato sul genere come piacere puro del già visto (non solo i generi classici o la loro fine rivisitazione, ma anche l’uso continuo della voce fuori campo che racconta calda suadente ironica istrionica antica); e dall’altro enucleando una dopo l’altra, quasi ne fossero l’approdo documentale, lacune (le storie, a parte il finale, sono tutte destinate a non concludersi e a semplicemente aprire parentesi che non si chiudono) e citazioni al limite del plagio (il cui punto estremo è, nell’episodio 5, il remake o forse solo il saccheggio ai danni di Une partie de campagne di Renoir).
Curiosamente Llinás mette tra i suoi propositi chiarezza, semplicità, godimento nel filmare, piacere nello scrivere, pulizia del suono, imparare a fare le care vecchie cose che non si fanno più. E, dice, solo così si raggiunge o si coglie la novità. Dico curiosamente non perché qui ci sia in ballo un discorso su ciò che è considerabile nuovo oppure no (non credo vi siano dubbi che Llinás, che è persona di una certa acutezza, abbia nei confronti del progresso la stessa sfiducia che prova qualsiasi persona sana di mente), ma perché è opinione personale che La Flor sia un film bello e importante e tuttavia non un capolavoro, forse proprio a causa di questa schematicità che conduce a risultati troppo ben definibili e, in qualche caso più debole, a blande asserzioni e definizioni. Il fascino di La Flor è anche purtroppo il suo limite: è un film troppo sicuro che il senso o i possibili sensi dell’opera si debbano a una rete narrativa e filmica che crede nell’orchestrazione e probabilmente nel doversi rigorosamente orchestrare (magari per resistere alle lusinghe del tempo: non dimentichiamoci, quattordici ore..). Insomma, benchè il piacere di inoltrarsi in questo viaggio sia evidente, non c’è mai uno smarrimento assoluto, il congegno è sempre accanto e davanti a noi, ne vediamo costantemente i fili e il loro burattinaio. Ed è strano per un lavoro che invece rischia molto sul piano temporale e sonoro per esempio, con episodi girati per cinque o sei anni e altri in qualche mese e montati con tempi a dir poco sfasati; e con dialoghi spesso recitati in lingue che le attrici in realtà non parlano, cosa che calza bene con l’idea - questa sí notevole - di mantenere la recitazione su un piano strettamente anti-piscologico, cosa che produce un effetto coinvolgentemente straniante per un film tutto basato su dei personaggi e le loro trame di vita e morte. O forse è esattamente il contrario, e La Flor non ne sarebbe altro che il lucido enigma: un film che lotta dall’interno contro la sua stessa struttura.