"Es gibt kein richtiges Leben im Falschen", ovvero la dialettica negativa de La Liberté
"Non si dà vita vera nella falsa" scrive Theodor W. Adorno nei suoi Minima Moralia (Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino, pg.42) in un capitolo dal titolo “Asilo per senzatetto”: ogni tentativo di liberazione dallo stato antinomico è destinato allo scacco e può essere rappresentato solo in negativo.
Il movimento dialettico che sia in Hegel che in Marx riassume il particolare nell’universale e realizza la promessa di felicità, promessa motore dell’agire umano, diventa in Adorno Dialettica Negativa (Einaudi, Torino, 2004). Rifiutando il momento della sintesi, la dialettica negativa rifiuta l’annullamento della differenza nell’identità. La Aufhebung hegeliana, quella figura della fenomenologia dello spirito capace di superare i drammi della Storia, conservandoli nella Sintesi riunificante messa in atto dalla razionalità del pensiero, diventa in Adorno figura totalizzante, espressione del Dominio destino fatale di una razionalità senza freni.
La messa in scena teatrale de La Liberté e la sua “versione cinematografica” sembrano muoversi come due figure della dialettica negativa. Il passaggio dal palco allo schermo non è per l’appunto mera trasposizione. È un movimento dialettico in cui gli elementi della tesi (la versione teatrale) vengono negati nell’antitesi cinematografica senza trovare la sintesi salvifica nel dominio della ragione.
Il palco della Volksbühne è una radura e il fondale che la delimita sembra un dipinto gigante di Fragonard, ma potrebbe essere un altrettanto inverosimile porta spaziotemporale che si apre sui boschi del Brandeburgo al crepuscolo.
Durante la rappresentazione carrozze e portantine, splendida citazione del Porcile pasoliniano, si muovono a volte incontrandosi, a volte scontrandosi, seguendo traiettorie improvvise, spesso improvvisate dal fervore di una festa che si sta preparando: la festa della rivoluzione illuminista e libertina. Allo stesso modo gli uomini e le donne che si affollano la radura discutono dell’ineluttabile cambiamento che avrà da compiersi e elaborano strategie politiche che sono anche le strategie del desiderio finalmente libero da ogni costrizione metafisica e religiosa. Ci si prepara, benché in un bosco, precario asilo per nobili senzatetto in fuga dalla Francia reazionaria di Luigi XVI, alla realizzazione di quella promesse de bonheur costituita dall’agognato accordo tra la vita e il nostro essere e il nostro desiderio.
Tutto pare tendere verso la realizzazione di quella felicità totale, eppure il testo e la messa in scena di Albert Serra lasciano sorgere durante il crepuscolo finale dello spettacolo, insieme all’attesa della salvezza, la coscienza tragica della sua impossibilità. Liberté sembra in grado di restituire appieno il sentire l’impossibilità della vita vera, affermando la dignità e la bellezza di quell’attesa mai soddisfatta.
Senza soluzione di continuità la luce crepuscolare illumina lo schermo. La radura sembra la stessa, ma gli alberi non sono più i faggi brandenburghesi immaginati da Fragonard. Siamo in Portogallo, dove il film è stato girato, e gli alberi sono eucalipti, alberi di origine australiana che hanno colonizzato i boschi portoghesi perché crescono più rapidamente della vegetazione boschiva nativa, provocando una resa economica assai più vantaggiosa. Bruciano anche molto più velocemente e violentemente, come ci hanno svelato le vivide immagini degli incendi che hanno distrutto quei luoghi nel giugno del 2017, anticipando l’apocalisse australiana che sta davanti ai nostri occhi in questi giorni.
Lo spirito di rivolta è necessario, anche nella dolente consapevolezza del suo scacco.
La festa che si sta per consumare nel bosco di eucalipti non è gioiosa come avremmo desiderato immaginare. Le portantine che si muovevano rapide sul palco sono abbandonate tra gli eucalipti, i discorsi si sono fatti più stanchi, ripetitivi, interrotti e più morbosi. Nel bosco si aggirano fantasmi pittorici che sembrano mettere in scena una qualsiasi orgia chem sex in questo scorcio di fine anni 10 del terzo millennio, in un Occidente qualsiasi in crisi (del) capitale, e non figure incarnanti il compimento dell’essere attraverso la liberazione del desiderio. Il desiderio stesso è forzato a sfogarsi senza limiti dimostrando la fugacità della sua rivolta.
Nel mondo falso che prelude alla Rivoluzione Francese e insieme alla nascita del capitalismo non è possibile la vita vera.
Se nella dialettica negativa adorniana la religione e la metafisica vengono abbandonate rendendo il paradosso unica forma capace di leggere la realtà, ne La Liberté cinematografica il trascendente, seguendo i dettami del libertinismo, viene annullato nella sua immanenza.
“Non temete mai la punizione divina?” chiede una novizia a una consorella che le risponde abbassando Dio tra i partecipanti alla nottata, rendendo esplicito il paradosso come unico motore delle azioni che si succedono nel film.
L’Illuminismo, e il suo desiderante libertinismo, si autodivorano come ogni metafisica totalizzante; come ogni dittatura. Senza la riconciliazione dialettica il pensiero va a sbattere contro l’indefinibile. “Preferisco non esprimere quello che ho da esprimere senza usare le parole” dice a metà della notte Mademoiselle de Jenslings.
E il pensiero e il film con lui non può che farsi frammentario, aforistico, “micrologico” seguendo quasi didascalicamente l’esempio dei Minima Moralia.
Se “non si dà vita vera nella falsa”, allora è possibile solo la sua rappresentazione negativa che sola è può essere realizzata attraverso l’opera d’arte.
La promessa di felicità, allora, «non significa semplicemente che la prassi fin qui esercitata preclude la felicità: significa che la felicità è al di là della prassi (…) La forza della negatività nell’opera d’arte dà la misura dell’abisso fra prassi e felicità» (T.W. Adorno, Teoria Estetica, Einaudi, Torino, 2009).