La grotta bianco-cinema dell’inconscio
“Ma che cos’è questo lampo di felicità che mi fa tremare, mi ridà forza, vita?” diceva Guido/Fellini all’inizio del monologo finale di 8 e ½, prima del commiato circense di tutti gli attori del suo film/vita. Impossibile non ripensarci con la visione di Dolor y gloria, in cui Almodovar, settantenne, si guarda indietro, come poi fece lo stesso Fellini in Intervista, in un film intimista di autoanalisi.
Radicalmente diverso ma speculare al precedente Julieta: insieme i due film analizzano, scavano nel Dolor e lo superano, lo sublimano in Gloria. Ma se in Julieta, il tema portante è la morte, a cui corrisponde ogni snodo di trama, sia negativo che positivo, e la protagonista subisce la vita in un vortice di senso di colpa e casualità, Dolor y gloria è forse un film di uscita dalla depressione, di riscoperta della vita, grazie sì al cinema (come più volte è ribadito), ma anche grazie al ricordo, al passato che si fa immagine del passato stesso e in questo modo acquista un valore del tutto nuovo: perché in fondo tutti non siamo altro che il nostro sguardo di oggi sulle immagini di ieri, che siano un vecchio film restaurato, un vecchio amore o un quadro restituitoci dal tempo. E a volte quello sguardo può anche cambiarlo quel passato, come nel caso della storia d’amore con Federico, che, galeotta la magia del teatro, ha la possibilità di avere una nuova fine. È grazie a quello sguardo di oggi sulla vita di ieri che i pezzi perduti, le strade interrotte, si possono riallacciare e possono trovare un senso nuovo. Un senso che salvi da quel senso di colpa così presente in Julieta, attraverso la sofferta consapevolezza dell’aver fatto il proprio meglio.
E così, con la conquista di questa consapevolezza, il protagonista Salvador esce da quello stato di torpore, di attesa della morte, di autolesionismo compiaciuto e ritorna a vivere. E poi il ritrovamento del quadro: il capolavoro di un artista inconsapevole, che restituisce un pezzo del proprio passato: finalmente Salvador è pronto per ritrovarlo, per riabbracciarlo e per restituirgli vita nuova.
Almodovar non scinde la vita dal cinema: tutto quello che so, tutto quello che sono lo devo al cinema, ripete più volte. E per cinema intende proprio quel dare nuova vita a immagini e ricordi del passato. Non è la prima volta: già in Parla con lei, la nuova vita veniva restituita, anche in modo se vogliamo brutale, dal Cinema. E così in Dolor y gloria, poiché per Salvador la separazione netta fra le due cose, la loro inconciliabilità, è solo un atteggiamento annoiato, tenuto un po' come autodifesa dalle insistenti domande dei vecchi colleghi (“Cosa fai se non giri?” “Vivo, forse”), mentre invece si alimentano e trovano senso l’una nell'altro.
E così il corpo stesso del protagonista, quel corpo martoriato, esaminato, divinizzato, non è altro in realtà che un contenitore: dentro, come in una radiografia, possiamo vedere l’essenza stessa del cinema di Almodovar: la grotta bianco-cinema dell’inconscio riempita dal Desiderio, che, illuminato da una luce dall’alto, restituisce un’immagine di sé stessi che prevarica il tempo e lo spazio.