Alien
JAKE (His face is pale, his eyes glazed with liquor. He’s not drunk, but he’s been drinking heavily.): The Medusa’s eye. Know what I mean? Whatever I look upon finally dies under my gaze. The Medusa’s Eye. Yeah. Somebody once told me about that. Maybe it’s true. The eye behind the camera. Maybe it’s an evil eye at that. There were some Berbers once up in the Atlas Mountains that wouldn’t let me even point a camera at them. They think it dries up something in the soul. Who knows? Maybe it can. Aim too long at something. Stare too hard. Drain out the virtue. Suck out the living juices. The girls and boys, even the places, I’ve shot’em all. Shot’em dead. Whiskey, Mother?
(Orson Welles, Peter Bogdanovich, This Is Orson Welles)
Un UFO alla Mostra del Cinema di Venezia. Resta questa visione nitida di un oggetto non identificato calato al primo festival degli anni della pandemia, sul Lido fantascientifico del 2020, una sorta di base carpenteriana con noi tutti mascherati come scienziati, distanti, diffidenti per difenderci dalla “cosa” che poteva annidarsi sotto qualunque spoglia. Forse quelle mascherine invocavano protezione proprio dal virus del cinema, che quando si manifesta scompagina le nostre sicurezze, ci fa ammalare, fa venir meno i confini al cui interno siamo abituati a muoverci, cambia gli orizzonti. Quando è apparso Hopper/Welles nel suo bianco e nero tremulo di due camere 16mm è stato subito chiaro che era quello l’incontro ravvicinato, quelli erano gli alieni, era l’irruzione del cinema tra i film, più o meno buoni non fa differenza, che si alternavano stancamente nel rituale recitato a memoria nonostante tutto intorno rimarcasse la sua vacuità e la nostra vanità. Che ci siano il cinema e il film e che non siano la stessa cosa è ampiamente dimostrato dalla rivista che Pasolini e Adriano Aprà decisero di chiamare proprio Cinema&Film: Hopper/Welles si offre ai nostri occhi immediatamente come cinema: non è montato, non ha titoli di testa e coda, ha i ciak e le luci in campo, sin dal titolo sembra non avere personaggi e attori. Alla Mostra era presentato come un’appendice, un minima parte delle 120 ore di girato per The Other Side of the Wind, una conversazione tra Orson Welles e Dennis Hopper girata a mo’ di “provino” per il film che Welles aveva iniziato a girare e non avrebbe mai portato a termine. Per Bob Murawski e gli altri che hanno partecipato all’impresa di comporre una versione di The Other Side of the Wind queste due ore di conversazione non sono soltanto un “approfondimento”, una discesa ulteriore nel magma di girato e materiali, ma la riprova che le intenzioni di Welles fossero proprio di girare un film che avesse alla base il confronto tra due generazioni di Hollywood. Il fatto che Welles si faccia chiamare Jake come il personaggio di Huston nel film, che le camere siano fisse e puntate entrambe su Hopper, che il discorso, pur nella sua deriva, si avviti intorno al cinema e alla sua fabbrica californiana danno ragione alla visione materica e tecnica degli autori di The Other Side of the Wind 2018 che qui, presentando i materiali intatti, si fanno “curatori”.
Ma accostandosi a queste due ore memori dello spirito e dello sguardo di grandi wellesiani come Ciro Giorgini e Rogério Sganzerla, ecco che Hopper/Welles appare in tutta la sua immensa statura, flagrante cinema che quindi contiene in sé tanti, tutti i film. Ciro Giorgini con il suo lavoro ha mostrato come ogni frammento, ogni singolo frame di Orson Welles porti con sé tutta la potenza del cinema, come in un cono il fotogramma è il punto di partenza che si proietta all’infinito. Lo stesso ha trovato Sganzerla che, smontando e rimontando i materiali wellesiani, ne ha messo in luce la vita che incontenibile in ogni immagine si presta alla creazione di altri film, che ogni singola parte è sineddoche di un tutto che è il cinema, che ogni progetto ha la visione e la presenza del genio, dell’Homo Ludens che fu sconfitto dalla sagacia dell’Homo Sapiens. Il perno è Orson Welles ovvero una cosa da un altro mondo, un altro pianeta, un’altra specie.
Ecco allora che allo stesso tempo Hopper/Welles è propedeutico al progetto The Other Side of the Wind ma è anche l’indagare curioso di Welles su colui che in quel momento, siamo nell’autunno del 1970, è assurto a simbolo della cosiddetta New Hollywood, di uno che in quel momento si professa rivoluzionario e non solo gli è “concesso”, ma è proprio la concessione a donargli un’aura dal punto di vista degli Studios. Completamente diversa era stata la sorta dell’autore di Citizen Kane, ripudiato e radiato dallo stesso establishment che fa di Easy Rider un punto di ripartenza. È chiaro che questo era dovuto alle questioni di marketing che ponevano i movimenti sessantotteschi, ma è altrettanto evidente 50 anni dopo che Citizen Kane è un film irrecuperabile dalle dinamiche politiche e produttive di Hollywood tanto quanto il film di Hopper, pur portando tematiche “scabrose”, era funzionale al gattopardismo delle major.
Dennis Hopper sta al gioco, si presta, si lascia trascinare da Welles in un gioco al massacro nonostante sia evidente che non potrà che perdere, perché la sua posizione è quella di un pugile costretto all’angolo, incastrato tra le due camere fisse su di lui, con le luci all’altezza degli occhi. Troppo colto, cosciente quanto spavaldo, giovane e ardito Hopper per non accettare quella “convocazione”, per non lasciarsi torturare da quella voce calma e inquietante fuori campo, una presenza minacciosa che raramente fa capolino con la sua ombra, un paio di volte entra in campo per sbaglio mentre passeggia su e giù caricando di tensione la scena e rimpicciolendo l’altro. Perché è chiaro da subito che non è una conversazione, né un confronto. Come in un film noir degli anni ’40 Hopper viene trattato con affettata gentilezza, a tratti adulato, gli viene offerto ripetutamente da bere dalle due ragazze presenti tra trabocchetti e provocazioni, tutto per abbassare le sue difese, per spogliarlo delle sue sicurezze, per lasciarlo nudo con la sua colpevolezza. Man mano cadono le convinzioni cinefile à la page, si scoprono nulle le velleità rivoluzionarie, emergono la vanità e la fragilità di un progetto senza fondamento, vago e decadente, centrato sull’edonismo. La colpa di Hopper e della New Hollywood è l’aver ridato nuova linfa alla macchina stritolante delle major e illudendosi per di più che fosse un processo liberatorio (dieci anni dopo Glauber Rocha definirà un crimine Apocalypse Now di Coppola, il film che chiude un decennio in cui l’impresa dei padroni era stata di riportare all’interno delle proprie maglie tutte le spinte propulsive, autonome e devianti che si erano scatenato dalla fine degli anni ’50).
D’altro canto però Hopper è consapevole di essere lì a cospetto di Orson l’infernale, del genio che al primo colpo aveva fatto il film dei film e lo aveva fatto con un’autorevolezza e un’autorialità mai vista prima e forse ancora oggi insuperata. È lì innanzitutto perché, come Welles, regista ma anche attore, “dio” e “medium” come Orson già andava dicendo e avrebbe ripetuto negli anni a venire. In queste due ore ci sono tutti i temi e le provocazioni di Welles, le stesse che si ritrovano più di dieci anni dopo nell’incontro organizzato dalla Cinémathèque Française nel 1982 caricato in questi mesi sulla piattaforma Henri. Dai lazzi allo sberleffo della politicità del cinema, dalla centralità dell’attore alla negazione dell’autore l’evento francese, con Orson nella parte dell’ospite d’onore, mattatore sempre in scena, rappresenta un esatto controcampo di Hopper/Welles, al punto che alcune parti potrebbero essere montate al posto della voce fuori campo senza cambiare letteralmente una virgola. Il cinico Welles tormenta il pubblico con lo stesso metodo e gli stessi argomenti usati con Dennis Hopper, incalzando e confondendo l’interlocutore, anticipando quella che sarebbe stata la cifra del cinema di Franco Maresco: parafrasando un titolo di Ciprì e Maresco si potrebbe intitolare Hopper/Welles “Dennis, domani a Hollywood”. Ma come accade appunto nel cinema cinico è la solo presenza, il solo fatto di essere in scena a donare tutto il rispetto, la ri/conoscenza, una simpatia che a tratti si fa empatia.
Ai nostri occhi Welles appare ancora una volta un preveggente oltre che un anticipatore, 50 anni dopo è impossibile non lasciarsi trasportare dalla fantasia che quello per Hopper sia stato l’incontro fatale, in cui il touch of evil di Orson abbia fatto sì che il suo secondo film sarebbe stato davvero The Last Movie e lo avrebbe portato all’abiura di Hollywood (il titolo italiano Fuga da Hollywood è già in sé un atto critico) e ad abbandonare la regia per quasi 20 anni. Nessuno poteva immaginare questo nell’autunno del 1970, mentre noi oggi sappiamo che la “colpa” di Hopper è stata quella di spingersi nel continente sudamericano a cercare il proprio cinema, come già aveva fatto Welles in Brasile negli anni ’40, fregandosene del prodotto film, dichiarando a tutti fin dal titolo che il suo interesse era il cinema e che questo si intrecciava indissolubilmente con la vita delle persone coinvolte, quasi un’unione mistica tra l’uomo e la macchina, cosa sublimata in un finale ancora oggi sconvolgente e straniante con la morte ripetuta del protagonista.
Non è dunque un (solo) film Hopper/Welles, è un rincorrersi di storie, di fantasie, di immagini. Già nel 1965 Rogério Sganzerla scriveva che “Welles non riprende azioni ma discussioni” e riprendeva il critico francese Jean Domarchi che aveva scritto “per Welles vedere il mondo significa parlare di quel mondo”. Hopper/Welles è dunque l’ennesimo pezzo di cinema, un altro mondo immaginato con parole, di uno che con la sola voce aveva fatto credere a una massa di persone che era in corso un’invasione aliena. L’alieno era Orson Welles.