Biografia di una catastrofe
Autobiografia per conto terzi. Il travestimento letterario permette di vivere più vite, come al cinema. Allenamento sul set di Jim&Andy, 2017, making off di Man of the Moon di Milos Forman. Attonita la platea della Mostra di Venezia, Jim, l’ex Scemo più scemo, è già un altro, filosofo sotto i baffoni, le basette e i Carrera neri di Tony Clifton, l’anti-comico che non può raccontare la sua vita perché non esiste, ma si nasconde dentro Andy Kaufman, suo fratello Michael, Bob Zmuda e Jim Carrey. Tutti sotto la giacca rossa dell’uomo sulla luna, Kaufman, che odiava i rituali dello spettacolo per “far ridere” e in cambio sul palco leggeva fino all’ultima riga Il grande Gatsby.
Carrey si convince di essere anche lui “un personaggio immaginario” e scrive il suo libro sotto copertura, feroce e straziante nel raccontare un mondo divistico in delirio esistenziale. Hollywood Babiliona di Kenneth Anger è una storia per bambini di fronte alle torture psico-fisiche autoinflitte dai miliardari Oscar sulle colline di Los Angeles e nelle ville di Malibu. L’infelicità delle super-star è rimanere sole con se stesse, nell’impossibilità di nascondersi dietro un’altra identità, costrette, senza più un copione, a smascherarsi. Sono gli ex campioni di incassi, quelli che vivono in bilico tra ieri e oggi, un po’ come Norma Desmond sul Sunset Boulevard. Jim si sente così, disteso a marcire davanti alla tv, partecipe di raduni psicolabili con i colleghi privati degli alias. Costretti a raccontarsi senza il filtro di altri da sé. Dov’è finito Truman? E la sua vita tutta di finzione? Beatitudine dell’attore eterno al quale hanno scritto minuto per minuto dialoghi e azione.
Ricordi e bugie (Memoirs and Misinformation), vero e falso. La crisi abissale è per eccesso di consapevolezza. Jim soffriva la fame da bambino. Gwyneth Paltrow invece adorava squartare le rane nel laboratorio scolastico, e Nicolas Cage, allevatore di serpenti, colleziona ancora robaccia da milioni di dollari. Tutti in circolo a respirare il ritmo introspettivo del guru-psicanalista Natche Gushue sul bordo di piscine enormi, tutti a raccontare le proprie false esistenze. Autobiografie di qualcun altro recitate in pubblico. E non c'è nessun produttore che aizzi il divo a esagerare per vendere di più, a imporre, per esempio, a Lana Turner di descrivere i godimenti di una sfilza di amanti, uomini e donne, e di altre perversioni.
Se Paltrow bambina godeva un mondo a tagliare la testa a gatti e maialini gridando “Voglio fare il lavoro della morte!”, Cage si sentiva, e si sente, inseguito da un mostro marziano con le zanne e gli occhi rossi. L’esperimento “nouveau sciamanico” comprende la confessione di qualcuno a proposito di uno yacht di marocchini che ricicla soldi sporchi, armi e droga, nella produzione di film. E non è un ricordo d’infanzia. Tutta Hollywood è in seduta psicanalitica con Jim che prende appunti per la sua autobiografia collettiva, nomi e cognomi compresi, Goldie Hawn, Sean Penn, James Spader, Renée Zellweger, Sofia Coppola, Sissy Spacek...
La confessione si fa spontaneamente spudorata.
Jim gronda disperazione, è grasso, è depresso, nessuno lo vuole più, anzi sì, un altro Kaufman, Charlie, sceneggiatore Oscar 2005 di Se mi lasci ti cancello, quello sì un film degno, non cose di genere Z, Ace Ventura, The Mask, Il Grinch. (Nessuno gli dice che sono capolavori). Charlie Kaufman gli propone di interpretare Mao Zedong “il padre crudele della Cina moderna”, dovrà essere lui come il burattinaio nella testa di John Malkovich. Febbrile mutazione nel “sanguinario dittatore cinese”, il doppio di un grande della Storia, interpretazione dignitosa, “in stile Daniel Day-Lewis”, sullo sfondo di una pila di cadaveri, uomini, donne bambini “cibo per i suoi sogni diabolici”. Il Mao grottesco di Kaufman si eclisserà nel nulla...
Scrittura a valanga, penna-scalpello, sintassi perturbante, il “romanzo hollywoodiano quasi autobiografico” è firmato anche da Dana Vachon, fiancheggiatore dell’attore canadese, giornalista per The New York Times, autore di un scorticante ritratto del mondo finanziario, Mergers and Acquisitions. Una specie di fotocopia giovane di Jim, quasi (fisicamente) una controfigura. È lui che mette a ferro e a fuoco la fabbrica dei sogni, e osa immaginare un’orda di comparse invadere gli Studios di Burbank e giocare a palla con la testa criogenizzata di Walt Disney. Il libro (ed. italiana La nave di Teseo) è un esercizio iperbolico di scrittura quasi dada (grazie anche alla traduttrice Tiziana Lo Porto), solitario esempio di ritmo punk-rock, lontano dai romanzi italiani tipo “la marchesa uscì alle cinque”. Il fuoco di Dana Vachon divampa davvero nel canyon di Brentwood, invaso da cervi e coyotes, là dove “gli incendi non arrivano quasi mai” e dove abita Jim. Una stagione infernale divorò qualche estate fa mezza California e mandò in fumo le ville e il cervello di molte star, riunite qui sul bordo dell’oceano in un’ultima seduta di allucinati supereroi perduti su un set che neanche dopo una sbornia di Hunter S. Thompson, il gonzo di Paura e disgusto a Las Vegas, romanzo semi-autobiografico e film di Terry Gilliam. Gli alieni calano dal cielo e ammazzano tutti, Steven Spielberg riprende, felice, la scena.
Ma “adesso torniamo al momento in cui abbiamo conosciuto Jim Carrey”, sdraiato sul suo lettone a guardare documentari di National Geographic o di Netflix del tipo “Pompei ricostruita: conto alla rovescia verso il disastro”, in lacrime per i piccini ignari della lava che li trasformerà in statue. Blindato nella sua villa collegata con un sistema di allarme - filo elettrizzato lungo la “barriera difensiva” - in compagnia di pizze giganti e di due rottweiler bavosi addestrati a leccargli la faccia all’ordine “Affetto profondo!”, stesso nome, Jophiel, così non si perde tempo se arriva un minaccioso intruso.
Jim sogna la sua infanzia e una vita di elemosine in qualche eremo. Ha dissipato se stesso, eppure l’insulto alla sua Hollywood fuori di testa, biografia di una catastrofe, diventa infine un canto d’amore. I corpi consumati e spenti degli attori tornano alla divinità, lievitano in cielo nella “guerra dei mondi” finale. L’aura ce l’hanno davvero, sono i nostri avatar. L’autobiografia di Jim Carrey include il suo pubblico, adorante, perfino di fronte ai fallimenti. L’autocritica spietata, la voragine in cui è finito, e ogni surrealtà demoniaca, sempre in equilibrio tra il fuori luminoso di Los Angeles e il dentro buio dei teatri di posa, si dissolve nel sorriso di Scrooge di A Christmas Carol, con Jim sotto i marcatori elettronici della motion capture di Robert Zemeckis. Finalmente in pace, senza essere visto, proprio dentro un altro. Poetica disneyana scongelata.