Numéro deux
Come filmare la malattia, l’incertezza e la paura? Come accompagnare l’aprirsi della crepa che la demenza senile porta in una coppia fino a separarla e a distruggerla, all’interno del labirinto complicato di una casa affollata di libri, oggetti, cassette di film, riviste, e affacciata sui tetti di Parigi?
Il tempo, più ancora della ferita viva nella carne, quel voler portare l’occhio alla battaglia solo contro tutti, scandaloso, vorticoso, ha sempre costituito per Gaspar Noè l’elemento desiderante e maniacale. In Vortex, nell’accumulo di cose materiali di terrificante caducità colte sul precipizio della fine cui siamo irreversibilmente destinati, si gioca il confronto rabbioso col dramma della vita e della morte, dove tuttavia entrare nel vuoto non è solo sinonimo di sparizione, ma al contrario climax che fa coincidere la fine con una qualche forma d’amore (il gioco con i titoli dei film di Noè viene spontaneo tanto quanto i titoli stessi sembrano voler indicare un tragitto fin troppo preciso, quasi strutturale, all’interno della sua idea di immagine prima ancora che di cinema).
La scelta di lavorare sullo split screen ritagliato dentro la cornice ampia del Cinemascope - formato caro da sempre a Noé fin dagli albori di Carne (1991) - per tutta la durata del film, salvo la sequenza iniziale, colpisce perché rende immediatamente visibile, con un’intensità mai sperimentata prima, l’assoluta necessità di questa scelta linguistica, che coincide ed espone l’idea stessa di separazione del soggetto, sia interna, da se stesso, sia esterna, dal mondo.
Lo split screen diventa la cifra di un vortice poetico-linguistico e delle sue componenti inseparabili di patologia-sentimento-stile. Si comprende quindi come sia stato inevitabile per Noé prendere come testo di riferimento Numéro deux di Jean-Luc Godard, in primo luogo, per importarne l’uso, appunto, dello split screen, come segno del rapporto di separazione e alienazione tra i corpi dei soggetti e come emblema di una disfunzionalità radicale interna alla famiglia. Poi per quel senso di angoscia e disperazione che già all’epoca colpì in Godard, in questo suo grande film del ‘ri-cominciamento’ così come potrebbe esserlo anche per Noè. Parafrasando Godard stesso che si chiedeva “è un film di politica o un film di sesso?”, potremmo dire ora di Vortex: è un film del corpo o un film del cuore? Anche per questo, più segretamente e forse perversamente - per ragioni però talmente evidenti che è inutile qui esplicitarle se non indicando i due capolavori - un altro riferimento per questo maelstrom di fine-vita della coppia potrebbero essere i due vertici inarrivabili Make Way for Tomorrow di McCarey e Viaggio a Tokyo di Ozu. A pensarci bene, ‘una strada per il domani’ sarebbe stato un titolo o anche un sottotitolo perfetto per Vortex…
Conseguentemente, è alla coppia di sposi, formata da Françoise Lebrun e Dario Argento, che Noé affida il compito di costruire e di mettere in moto, con la loro presenza fisica ed evocativa, un microcosmo familiare complesso, fitto di implicazioni ambigue, tra cui la provenienza di entrambi da regioni del cinema problematiche, inquiete, chiedendo a entrambi di gestire il carico di un campo di forze violente, dissonanti, negli spazi stretti e irregolari della casa, risolte attraverso lunghi piani sequenza, momenti di sospensione, di attesa e di vuoto, che lo spettatore è chiamato a inseguire e a cercare faticosamente di ricomporre dalla forma dissociata e duale dell’inquadratura.
Quale attore migliore di Dario Argento (lui di certo sa come si fa per morire in un film), allora, per incarnare il senso di spaesamento di fronte a una moglie che non lo riconosce più, e non sa perché vive con lei nella stessa casa, e per introdurre la suspense, come nella lunga sequenza in cui preoccupato la va a cercare in tutti i negozi del quartiere, di nuovo coinvolto nel sistema di tensione e angoscia di cui è stato per primo maestro indiscusso nei suoi film popolati da case sinistre e senza via d’uscita, disseminate di lunghi corridoi pieni di anfratti, di nascondigli e di segreti. Dario Argento, è in Vortex un critico cinematografico che sta scrivendo un libro che non si limita a collegare il cinema al sogno, ma, sulle tracce di una poesia di Edgar Allan Poe1, intende esplorare l’idea di un sogno che a sua volta si trova all’interno di un altro sogno, un’immagine viva di cui parla a lungo al telefono con un amico, e che si riverbera nelle immagini in soggettiva, dal punto di vista del morto, di Vampyr di Dreyer, che scorrono sullo schermo del suo televisore (Dreyer poi e non a caso, che non solo ha filmato il sogno a occhi aperti più sublime in Ordet, ma ha anche girato con Due esseri e Raggiunsero il traghetto - di nuovo l’entrata irreversibile nel vuoto della coppia - il racconto più preciso sulla caducità dell’esistenza umana).
E Françoise Lebrun, che interpreta sua moglie, ex-psichiatra attualmente in preda alla demenza, porta nel film l’intensità quasi insopportabile di una luce interna, che continua a brillare e che proviene dai suoi ruoli più estremi. Più ancora di quello di Veronika in La maman et la putain di Jean Eustache, si pensa al suo ruolo, come qui, senza nome della donna in Trous de memoire (1985) di Paul Vecchiali dove un uomo e una donna, legati dalla perdita, e che forse in un passato lontano si sono amati, all’interno di un parco cercano di ricordare invano una canzone… Françoise Lebrun, anche in Vortex non sa e non riesce a ricordare, in diversi momenti del suo assorto girovagare dimentica il gas aperto e, poi, la fiamma del fornello accesa, non sa perché è entrata in un negozio, e tra i vaghi farfugliamenti sussurrati che formano il sound tenerissimo e straziante che la accompagna nel film, riesce solo a bisbigliare: “giocattoli”.
Forse Gaspar Noé con Vortex non è mai arrivato a tanto nel mettere così in gioco l’amore e il vuoto lasciato dall’amore sulla terra (ancora e ancora: Enter the Void, Love...) cioè ad avvicinarsi all’umano in ogni sua forma, compresa la più degradata, e al mistero ambiguo del duale, come quando ad esempio fa incontrare le mani di questi due sposi (L’Atalante?) che, per motivi diversi, non si riconoscono più, e ciò malgrado si cercano ancora, attraversando i confini stessi (invalicabili?) dello split screen, che non può separare ciò che è stato unito. Ma Vortex prevede anche qualche momento di vertiginosa comedy, che ripiomba subito in dramma, quando Lebrun cercando di rassettare lo studio dove il marito scrive a macchina (su un commovente reperto Olivetti Lettera 32) in unica copia, il suo libro su Cinema e sogno, lo distrugge in mille pezzi che finiscono per sempre nel vortex del water (il primo di due: nel secondo vortex ci finiranno a pioggia tutte le medicine di entrambi). Senza più il conforto dell’amante che lo tiene a distanza, ma forse e ancora di più senza il suo libro, il cuore di Argento non può che fermarsi.
“Naturalmente ogni vita è un processo di demolizione”, F. Scott Fitzgerald così scriveva nel 1936 in The Crack Up, tra i suoi racconti uno dei più lucidi e terribili sull’impossibilità di una vita di coppia, destinata in ogni caso a frantumarsi e a finire. Con quello stesso sguardo terminale Noè in Vortex si fa completamente carico di accompagnare il processo di demolizione di queste due vite, fino alla fine, che non si compie con la tumulazione al cimitero, ma va oltre, fino a enter the void, continuando a documentare, dopo, lo svuotarsi progressivo del loro appartamento, dei libri, dei mobili, di ogni cosa che lo aveva occupato, la casa a ogni inquadratura successiva sempre più spoglia, cronaca incalzante di una sparizione che fa paura perché non smette di riguardarci, tutti. Eppure con questa strana opera sperimentale che affianca i problemi della vecchiaia alla deriva dei genitori a quelli di droga del loro unico figlio, alle prese a sua volta con i servizi sociali e con la cura di un bambino piccolo, ci si scopre all’improvviso stranamente coinvolti, da questa bizzarra linea genealogica che, pescando tra le pieghe meno rassicuranti del cinema, rappresentate dalla coppia anomala Lebrun/Argento, riesce a raggiungere una zona franca e inattesa di autentica pietas, cioè una possibilità reale di tenerezza, di rendere visibili i sentimenti più nascosti e contraddittori, che pone Vortex decisamente agli antipodi dall’operazione di freddo cinismo - l’esatto opposto dell’amore - praticata da Haneke con la coppia Trintignant/Riva, due emblemi di un cinema d’autore da sterminare, in Amour .
Forse è ancora Poe a venirci in aiuto nel decifrare questa impressione che sempre i film di Noè, soprattutto nei loro passaggi più duri ed efferati, possano essere interpretati come volutamente e non così velatamente umoristici (come appunto sosteneva di Poe il grande Giorgio Manganelli). Un umorismo terreo dove la morte non può essere più considerata una cerimonia di addio, specialmente se si tratta della morte dell’altro, o del compagno o compagna di una vita, ma il percorso (horror) che porta all’accettazione del venire a mancare punto e basta, per cui una moglie che non riconosce più il mondo (il suo e il tuo) e un marito che si attacca alle file di libri e di oggetti che lui proprio assolutamente non può abbandonare (e infatti è il primo a morire), sono tutti indiscutibilmente risibili. Stelle che si spengono senza rendersene conto o consapevoli al punto da ipotizzare barlumi di sé anche dopo la morte e mai si immaginerebbero l’horror vacui finale (la casa che, appunto, viene semplicemente svuotata). Terrore e raziocinio (qui davvero Noè come Poe): essere per sempre testimoni ciechi della propria tragica e grottesca scomparsa.
1 Un sogno dentro un sogno
Questo mio bacio accogli sulla fronte!
E, da te ora separandomi,
lascia che io ti dica
che non sbagli se pensi
che furono un sogno i miei giorni;
e, tuttavia, se la speranza volò via
in una notte o in un giorno,
in una visione o in nient’ altro,
è forse per questo meno svanita?
Tutto quello che vediamo, quel che sembriamo
non è che un sogno dentro un sogno.
Sto nel fragore
di un lido tormentato dalla risacca,
stringo in una mano
granelli di sabbia dorata.
Soltanto pochi! E pur come scivolano via,
per le mie dita, e ricadono sul mare!
Ed io piango – io piango!
O Dio! Non potrò trattenerli con una stretta più salda?
O Dio! Mai potrò salvarne
almeno uno, dall’onda spietata?
Tutto quel che vediamo, quel che sembriamo
non è che un sogno dentro un sogno?
Pubblicata nella rivista “Flag of Our Union” nel 1849.