"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Si parte dal buio e dal nero, l’impossibilità del vedere è essa stessa un/il vedere. Siamo ciechi, aggrappati al nostro udito, l’audio ci porta alla sottomissione di Michelle, definisce quell’immagine che non c’è (per noi come per lei). Quel fotogramma emerge solo nello sguardo del gatto vuoto/vitreo, e lì sarà incapsulato per sempre. Il campo si apre, ora si vede lei violentata da un uomo mascherato, e noi spettatori lì, inutili e complici come il micio. Un attimo e la sua reiterazione, una ferita insanabile, spina nelle carni di un corpo in trasformazione, riflessa nei comportamenti della sua protagonista. Michelle possiede una società di videogiochi, ludoteca vivente in cui spesso la sfera dell’esposizione sessuale e del potere è un aspetto fondamentale. Allo specchio la ricostruzione di un quadro, l’esigenza di raccontare un’esperienza di vita traslata in un’analisi frammentaria ma estremamente logica dell’alta borghesia di un’Europa che forse non c’è più, o che oramai spicca solo per la sua decadenza.
Sono i fantasmi stessi di un continente a dover trovare il proprio senso, ricontestualizzati in un rapporto perverso con i media, e nello stesso rapporto della protagonista con il proprio io, nel complesso ed auto-imposto tentativo di rimozione di un evento e del suo apparente superamento, proprio attraverso il buio. Ma il limite è debole, come la carne, e la confusione di una ricerca sempre più pericolosa e misteriosa, una passeggiata sul filo del rasoio, una deriva continua di sguardi e sensazioni che attivano un senso del meraviglioso sbalorditivo, quasi impossibile da identificare, ma che a sua volta si verifica con il vivificarsi della narrazione. L’esperimento di Verhoeven allora appare come uno statico atto d’osservazione, legato al cambiare (e cambiarsi) di Michelle in conseguenza dello stupro, soprattutto in relazione con la società che le apparteneva. L’indagine del film diventa il provocatorio delirio di rivendicazione delle ferite che metaforicamente si (ri)presentano nella vita. Azioni corrisposte da un senso di necessario ed inevitabile, come tendenti a un fine spesso oscuro, difficile da intuire, designato e disegnato da un inconscio provvisoriamente inconsapevole e non sempre sotto controllo.
Verhoeven ritorna al suo cinema della fisicità più esposta, terribilmente sensuale, sorprendentemente audace nella sua originale funzionalità. Mai banale, perennemente discontinuo e a tratti sfrontato, che affascina e abbaglia. Definisce la figura della splendida Huppert (si salvi chi può…) sempre all’interno dell’inquadratura come motore unico (e spesso fine) dell’azione. Ed in quella movimentata staticità siamo noi stessa a guardarla con nuovi occhi, perchè in fondo ciò che continua a muoverla, forse anche ossessivamente, è la difesa dei suoi privilegi e l’autoaffermazione doverosa dei propri principi/progetti, nulla per lei probabilmente è cambiato. Questa impossibilità, propria dello spettatore, di ricongiugimento delle due figure di Michelle appartiene allo slittamento continuo di registri e personaggi, definendo il lavoro stesso di Verhoeven, dove il cosiddetto thriller/noir sposa fantasie segrete ai tratti dell’assurdo e a una forte componente analitica. In fondo rimane il solito dilemma, quello tra l’essere autori o attori della propria vita, quello che lei (Elle) continuamente cerca nella fusione totale del proprio Io con la sua diretta espressione ed esposizione sociale. Un’immagine, una vita, un’altra immagine, nel buio.