The Searcher
La particolare forma di veggenza, per cui pure e semplici visioni interiori si trasformano in fatti incontrovertibili, è una delle facoltà esoteriche di cui è in possesso chi fa l’esperienza del cinema e delle immagini nei modi e nei tempi raccontati da Quentin Tarantino in Cinema Speculation. Gli esclusi da questi viaggi arcani (e da questo libro) sono di conseguenza i critici cinematografici, tutti quelli che non credono all’inconscio delle immagini e, purtroppo, le cosiddette nuove generazioni di visionatori che hanno apparentemente tutto a portata di mano e che, forse proprio per questo, non vedono quasi nulla, intrappolati nell’accumulo ideologico di contenuti fuori contesto.
Se per esempio scrivo che Sisters di Brian De Palma è un film fondamentale ma che negli anni mostra delle zone di deperimento più accentuate rispetto a Blow Out o a Dressed to Kill: ebbene, grazie alle facoltà di cui sopra, al lettore sarà sufficiente chiudere gli occhi e venire raggiunto da una visione di conferma che, in quanto tale, è tanto vera quanto inspiegabile (non è difficile immaginare qualunque lettore di questo libro fermarsi dopo poche pagine, munirsi di carta e penna e continuare la lettura segnandosi tutti i film citati, per vederli o per rivederli). Deliverance di John Boorman, dopo la scena incredibile della tortura e dello stupro, è come se non avesse la forza di mantenersi in quella luce accecante e ne sceglie un’altra più semplicemente narrativa: chiudi gli occhi e saprai che è così, lo hai sempre saputo (Boorman in seguito non mostrerà più la stessa incertezza e si getterà a capofitto nei suoi voli liquidi astrali). Rocky II è superiore a Rocky I e entrambi non esisterebbero senza uno degli esordi migliori di sempre, Paradise Alley… Chiudete gli occhi.
Cinema Speculation è così trasparentemente e violentemente un libro di magia nera, che la prima cosa che mette in questione è che il cinema abbia a che fare col vedere. Non lo dice, lo sa: non si vede nulla. Si viene attraversati da predizioni (previsioni e pre-visioni), quindi l’unica cosa che si continua a fare è rivedere (altrove in questo numero c’è chi cerca vie d’uscita in questo assedio costante: de Gli ultimi giorni dell’umanità di ghezzi/Gagliardo vorrei citare il momento pericolosamente finale in cui in un incontro pubblico enrico ghezzi domanda, in forma di asserzione, a Jean-Marie Straub: chi può mai dire di aver visto un film. E la risposta è inevitabile: nessuno può dirlo).
Qualunque capitolo di Cinema Speculation starebbe bene in un numero dell’Acephale di Bataille, Klossowski e Caillois. Da dove viene questo sapere? Non si può dire, in realtà è un bellissimo non-sapere (Bataille, appunto, sarebbe contento). È il naufragio, anzi l’ossessione per il naufragio di un bambino che ha avuto la fortuna di andare al cinema tutti i giorni dal 1970 (a sette anni) fino all’inizio degli anni ottanta quando il cinema non era tutte le chiacchiere odierne sul contenuto dei film e i genitori non avevano paura di discutere con lui gli aspetti più delicati per la sua età perchè non si aveva paura di avere paura.
Una cosa è chiara però: come nei film di Tarantino generi feticismo e citazioni sono specchietti per le allodole, così in Cinema Speculation il numero di film citati o presi in considerazione e la loro effettiva riuscita sono del tutto ininfluenti. Ogni viaggio è valido e personale, Tarantino è il primo a saperlo. Io per esempio, che non ho mai creduto a Siegel quando parlava male del suo Telefon, figurarsi se mi lascio abbindolare da Tarantino che su questo concorda con Don (certo, se il paragone è con Escape from Alcatraz, troppo facile). Chiudo gli occhi e mi sembra ancora bellissimo, soprattutto per gli aspetti comici tanto criticati.
Poiché tutto è scritto come è stato visto da qualcuno che è un bambino all’inizio degli anni settanta e un adolescente alla fine del decennio, tecnicamente nulla nel libro riguarda il vedere o il visionare, tutto sta nel visionario (per inciso: la sequenza di apertura dell’ultimo Spielberg Fabelmans - genitori, cinema, ritorno a casa, discussione in macchina - è una delle scene più ricorrenti nelle pagine di Cinema Speculation. Il capitolo dedicato alla generazione che negli anni settanta capovolge Hollywood, i cosiddetti Movie Brats, è a dir poco emozionante per il reticolo di ascendenze e convergenze che ricostruisce alla velocità della luce1. Alcune frasi sono uniche e irripetibili e meriterebbero uno studio a parte. Per esempio su Spielberg: “When Jaws came out in 1975 it might not have been the best film ever made. But it was easily the best movie ever made”).
Eccoci dunque in uno stupefacente inabissamento auto-psicanalitico in cui non si parla dei film più importanti ma di quelli più importanti per il piccolo Quentin e poi per il ragazzo Quentin. L’adulto Quentin invece, che comprensibilemente si ostina a rivedere, si vede costretto tutte le volte a accorgersi che un film negli anni ha mutato faccia e colore, che il sacro graal della prima visione è magnificamente irraggiungibile e che è esattamente questa l’essenza (o una delle esistenze e resistenze) del cinema: mutare nel momento stesso in cui si fissa in uno scacco matto fatto di sale storiche losangeline oggi sparite, di pubblici osannanti, della metropoli che entra in sala col colore della pelle, del sonoro del film che si mischia a quello ruggente della sala (chiaramente è un’invenzione di Tarantino, o meglio, una sua proiezione inconscia ultracinematografica, di aver visto da piccolo alcuni film in sale in cui lui era l’unico bianco). Stupende su questo le pagine su Taxi Driver, sull’esperienza di vedere allora e in quei cinema Taxi Driver, che davvero fanno pensare di non averlo mai visto veramente, o di averlo visto da appassionati di cinema e non da semplici spettatori americani di quelle città di quegli anni settanta: per loro - e non per noi (bella ed emozionante questa esclusione, abbiamo ancora molto da rivedere!) - era stato fatto!
Senza parlare poi del gioco perverso di Tarantino che trasforma le pagine del libro in continue discese in picchiata: cosa sarebbe successo se Taxi Driver lo avesse girato De Palma, che incontra Schrader per discuterne prima di Scorsese? La linea rossa che lega Schrader a tutti questi autori, la linea rossa che lega tutti questi autori a John Ford, a The Searchers di John Ford (in Mean Street si entra in un cinema che lo sta proiettando e tutte le sceneggiature scritte da Schrader per gli altri in quegli anni fino al suo Hardcore ne sono il remake per filo e per segno; e guarda caso il finale di Fabelmans…). L’amore di Tarantino per John Flynn, che senza dubbio ora tutti staranno recuperando (The Outfit, Rolling Thunder). A proposito, Rolling Thunder non può non far venire in mente The Deer Hunter, che è solo di un anno dopo, ma non a caso Quentin non cita mai personalmente Michael Cimino: ecco un cineasta che non sarà mai capito fino in fondo, né a sette né a sedici anni né dopo. Dunque, giusto una riga per Year of the Dragon in una lista di grandi film anni ottanta e la citazione per Thunderbolt and Lightfoot quando parla di Clint Eastwood e Jeff Bridges. Eppure Quentin avrebbe dovuto seguire l’esempio dell’incredibile, leggendariamente malinconico personaggio che chiude il libro, Floyd Ray Wilson, che così si esprime su The Deer Hunter: “now that was a great movie”. Tarantino si limita a ricordare il commento fra parentesi (altro regista completamente assente, direi gravemente vista la precisione con cui viene ricordata anche la prima cordata di cineasti post-televisivi, è Alan J. Pakula).
Floyd Ray Wilson, inascoltato su Cimino, è il tocco più romanzesco e insieme fordiano del libro. Collega l’inizio alla fine ed è la scelta definitiva che il piccolo Quentin fa tra realtà e leggenda. Quest’uomo di colore che per poco più di un anno ha frequentato la casa materna, che vive di espedienti e lavoretti, di cui Quentin impara a sue spese che non può fidarsi (vengo a prenderti settimana prossima per andare al cinema dichiara due volte senza mantenere la promessa), anzi peggio, che proprio non ha alcun particolare interesse per Quentin (e per mille altre cose) e può fare benissimo a meno di lui, è tuttavia l’unico che sa tutto di cinema e di televisione, l’unico in grado di accompagnare il piccolo Quentin nella sua ossessione per film corpi e immagini, cosa che, nel bene e nel male, farà per un anno per poi sparire definitivamente. Il percorso che porta Quentin a non aspettarsi nulla da Floyd ma a cercare di sfruttarne finchè possibile le conoscenze cinematografiche (e non solo: vedi i consigli sulle regazze), è il vero passaggio all’età adulta. Che avviene con qualcuno che potrebbe essere uno di quegli attori o attrici che Quentin idolatra come se fossero davvero i loro personaggi, fantasmi senza età che camminano al suo fianco nella vita quotidiana (per esempio: le pagine che Tarantino dedica a Steve McQueen o a Clint Eastwood o persino a Charles Bronson, non prendono nemmeno in considerazione che questi uomini possano morire o invecchiare, che siano umani, avranno sempre solo a che fare col disumano dei film).
Ma c’è di più. Floyd durante quell’anno scrive un romanzo e due sceneggiature e le discute col piccolo Quentin. Una di queste viene indicata da Quentin come fonte d’ispirazione per Django Unchained, Oscar per la miglior sceneggiatura originale. Ecco di nuovo all’inizio, “Little Q Watching Big Movies”. L’infanzia, i film, le sale, la città e… Floyd. Personaggio oscuro e fondamentale. Tarantino sceglie la leggenda: I don’t know how he died, where he died, or where he’s buried. But I do know I should’ve thanked him.