Vedere, un atto di resistenza
Já Visto Jamais Visto di Andrea Tonacci è la storia impossibile di una memoria al lavoro. L’etnografia visionaria del ricordo. L’ipotesi che il cinema esista sempre in un luogo che non conosciamo ancora. In una giungla, in un romanzo, in un filmino casalingo girato per caso e poi dimenticato in uno scatolone anonimo, nel pensiero minimo e immediatamente sfuggito. O forse, più a fondo, il sogno che il caso sia il montaggio già pronto del film, o dei film sognati a loro volta, e che, proprio perché incompiuti o ancora da girare, sono stati tutti fatti e sono tutti stati visti, quindi ancora e sempre tutti ancora da fare e da vedere.
In questo Tonacci non solo si lega durevolmente alla generazione più eccentrica libera e selvaggia del cinema brasiliano (per capirci: anzitutto Julio Bressane e Rogério Sganzerla, e poi Ivan Cardoso, José Mojica Marins…), ma vi si impone come lucida figura di riferimento teorico (spesso e volentieri, a partire sempre da studi coerenti e pignoli, declinata invece su registri obliqui, non sistematici e refrattari a qualunque classificazione), all’interno di tutta una riflessione recente sull’immagine come memoria viva di ciò che nell’immagine è sempre sintomo di ricordo perduto (compresi i propri ricordi, e sempre in direzione anti-autobiografica): zona cruciale per chi intende ancora il cinema come spazio irrinunciabile del pensiero critico (da Paulo Rocha a Godard, i nomi della pattuglia di resistenti sono nella conversazione).
Partiamo dal titolo del tuo film, Já Visto Jamais Visto. Più che chiederti cosa è per te il vedere, ti domando se ci sono ancora cose mai viste.
Proprio ieri spiegavo a qualcuno di questa mostra che vorrei organizzare sui film fatti dagli Indios, che vorrei intitolare Vedere, un atto di resistenza. Quando dico vedere non intendo l’atto del giudizio dipendente dagli occhi che guardano, ma un’intensità, un’attenzione indipendente dall’atto del formarsi dell’opinione, indipendente dalle domande che dirigono lo sguardo. Se ci si libera da questo sistema stimolo/risposta, allora immagini e pensieri sopravvengono, e in questo senso sono mai visti.
Ecco perché ho lavorato con questi materiali che stavano per scomparire. Quando la mia casa ha cominciato a odorare aceto, mi sono accorto che tutte le mie vecchie pellicole erano in parte rotoli cristallizzati, in parte quasi un liquido nero, si stavano letteralmente sciogliendo, e ovviamente tutte le etichette erano cadute, non sapevo più cosa ci fosse dentro. Un altro caso di cose mai viste, non esattamente ritrovate, ma certo immagini che non ricordavo, o di cui non sapevo nulla. Per esempio Lucilla, la mia prima compagna, che nel film si vede mentre si siede, fa una telefonata e gira il viso verso la macchina. Nelle pizze ho trovato delle cose girate da lei, che non so proprio da dove sono uscite! Quando è morta io non ero a San Paolo, e posso solo immaginare che i suoi genitori abbiano consegnato ai miei cose che le appartenevano: dei rotolini super8, scatole di libri e pezzi di carta, delle lettere. Allora, cosa ho fatto per recuperare questa memoria. Prima di tutto, grazie all’aiuto della Cinemateca, ho fatto telecinemare tutto: 8, super8, 16, 35, video Hi8.
Tutti materiali che sono nel film, dove non c’è nulla di girato per l’occasione…
Nulla. L’ultima immagine del film risale a vent’anni fa, le altre sono dalla fine degli anni Cinquanta in poi.
Sono immagini familiari ritrovate, ma anche estratti dai tuoi film, per esempio Blablablá, oppure scene di tuoi film incompiuti.
Esatto. Le sequenze con mio figlio Daniel dovevano far parte di un film. Avevo scoperto che nella regione dove abitavo c’era una migrazione italiana legata al trasferimento di manodopera di operai che andavano in Argentina e facevano tappa al porto di Santos. Qui i proprietari delle piantagioni di caffè pagavano la dogana per far scendere un certo numero di operai, e così si è creata una forte comunità. Ho cominciato a intervistare persone di ottanta e novant’anni che mi hanno raccontato questo loro viaggio verso l’Argentina, che invece terminava in Brasile. Venivano tutti dal Veneto. Volevo farne un documentario, ma le autorità locali non erano interessate a finanziarlo. Così un giorno, dopo aver ritrovato la divisa militare di mio padre, quella che indosso nella scena che si vede nel film, ho pensato che la storia di questi operai assomigliava a quella di mio padre quando venne in Brasile dall’Italia, e allora ho girato queste sequenze in 16mm con mio figlio piccolo che era in vacanza con un suo amico, fingendo che quella storia fosse la mia storia. Poi c’è la scena della lotta dei galli, un altro film che volevo fare su uno spiritista italiano che viveva da quelle parti e allevava galli da combattimento…
Ci sono anche dei viaggi in Italia e in America giusto?
Si, anche quelli con Daniel. E qui abbiamo un altro caso di mai visto così come lo intendo io. Vedo queste scene girate allora che avevo dimenticato, io e mio figlio che entriamo nell’edificio, la porta, la chiave della serratura… Queste cose dimenticate mi sono letteralmente apparse, e solo e in quanto risalite dal nulla, acquistano un senso che poi ottengo al montaggio. E d’altra parte anche all’epoca le giravo quasi per caso, colto da un istinto del momento, come la scena della mia amica che legge il giornale e sulla televisione trasmettono un servizio sul dittatore, l’ho fatta così, senza pensare a un film, come se fosse una fotografia, ma in forma di ripresa.
La cosa affascinante è che poi il film ha una struttura che ragiona proprio su questa forza del passato, su questa contemporaneità di cose che proprio risalgono da un altrove e subito trovano un rilancio nella realtà, al punto da far venire in mente la pratica mnemonica di Aby Warburg o il concetto di Storia di Benjamin. Forse per questo la trama è una trama fatti di abissi, voragini…
Infatti, ti spiego come è stato montato il film. Prima di tutto ho fatto un elenco preciso di tutto quello che avevo ritrovato. La prima intuizione fu di prendere la parte girata con mio figlio e di farne il nucleo su cui associare tutto il resto, ma quello che è venuto fuori aveva una struttura cronologica che non funzionava. Allora ho fatto un gioco, ho preso dei pezzetti di carta e su ognuno ho scritto il riferimento a un piccolo blocco di sequenze, a quel punto ho provato a mischiarli, a provarli velocemente uno accanto all’altro…
Una moviola di carta…
Si, e ho continuato così per due o tre giorni, lasciando che gli accoppiamenti – ricordati cosa ti dicevo all’inizio sul mai visto – non riguardassero la logica delle cose o avessero senso sulla base di un giudizio, ma che anzi lo acquistassero da qualcosa esterno a loro ed esterno a me stesso. In questo modo mi sono concentrato piuttosto sui sentimenti che sorgevano dalle associazioni, e a un certo punto l’ordine si è trovato da solo. Mi sono reso conto che il montaggio si è generato da un processo di smontaggio della cronologia della memoria personale, dall’eliminazione dell’Io appannaggio degli affetti legati alle persone in gioco: un ricordo di mio padre, un sogno di mio figlio, la memoria di un incontro mio con loro, ma sempre con l’obiettivo di incrinare la linea del tempo. Sono le cose che mi hanno montato.
Questo fa pensare per esempio a un film come Rua Aperana ’52 di Julio Bressane, per questa idea di un Io che si rimonta cancellandosi. Viene da chiedersi se non sia poi proprio questo il cinema.
Per me il cinema non è mai stato legato a un fatto narrativo o professionale, ma a dei sentimenti che scopri nel mondo reale e che aiutano a capire il tuo sentimento. La mia traiettoria è di cercare di narrare la storia di quel sentimento. Per esempio, perché a un certo punto della mia vita ho fatto un film come Serras de desordem. Avevo scritto una storia su un padre e un figlio, come poi è stato Serras de demordem, come adesso è Já Visto Jamais Visto, evidentemente è un’ossessione, ma lo scopro dopo, non mentre lavoro… La storia si chiamava Agora ou nunca mais, in italiano Adesso o mai più, ed era la storia di un uomo del futuro che fa il decontaminatore ambientale e che un giorno viene contaminato, e allora c’è un’inversione, la tuta che usa per non essere contaminato adesso la usa per non contaminare gli altri, e perciò non può più abbracciare il figlio e le persone che ama. Tutto però è narrato dal figlio come se fosse un sogno. Questa è la storia. Poi, anni dopo, al tempo in cui mi sono separato da Rita, la mamma di Daniel, un mio amico sertanista, Sydney Possuelo, con cui ero già stato a lungo nella foresta con gli Indios, mi ha detto che voleva scrivere un libro dove narrare, al di là dell’antropologia, i suo legami affettivi con queste tribù. E poiché all’epoca io mi interrogavo su cos’è la tecnologia delle immagini per una cultura che non l’ha mai contemplata, cercavo di portare la macchina da presa in quei luoghi e darla in mano a qualcuno che non avesse mai visto televisione né cinema, mi chiedevo cosa avrebbe inquadrato quest’occhio e cosa avrei percepito del suo pensiero. Non so se si tratta di un occhio ingenuo, sta di fatto che decidiamo di lavorare insieme, e il mio amico comincia a raccontarmi storie, di cui una è proprio la storia di Carapirù, un indios a cui hanno massacrato la famiglia e che poi ritrova il figlio, appunto la storia di Serras de desordem. Ne ho scritto anche una versione urbana, con protagonista un barbone, ma non funzionava. La verità è che attraverso la storia di Carapirù, attraverso il suo sentimento di perdita, ho capito che potevo affrontare il mio sentimento di perdita. Sono stato a lungo con lui nella foresta, e alla fine gli ho chiesto di fare il film. Lui ha accettato chiedendomi solo che alla fine di tutto, se fosse venuto con me a Brasilia, avrei dovuto riaccompagnarlo a casa.
Verrebbe da chiederti allora che cos’è il cinema.
Il cinema è qua…
Per esempio hai parlato di raggiungimento e direi proprio di fuoriuscita delle immagini attraverso la sparizione e la cancellazione dell’Io. Puoi spiegare meglio questo processo di spersonalizzazione?
Quando tu vedi qualcosa, c’è sempre questa scintilla di senso in testa, e subito dopo arriva il ragionamento. Se hai fretta, se sei nervoso, se sei distratto, la scintilla scappa e non la percepisci. Se riesci a diminuire la tua velocità, se hai una calma interiore, è più facile osservarla questa prima immagine. Con Já Visto Jamais Visto ho cercato di trattenere tutte le prime immagini che attraversavano la mia mente, come con i sogni, che non puoi tanto ragionare cosa vuoi sognare o cosa non vuoi sognare. Era un’epoca in cui me li scrivevo e spesso, anche se mi svegliavano, ero capace di riaddormentarmi e rientrare nel sogno. Ecco, se faccio attenzione a queste prime immagini, il cinema è lì. C’è tutto: sovrimpressioni, sequenze, salti nel tempo. Anche quando giro seguo queste sensazioni originarie. Per esempio, tornando a Serras de desordem, la scena in cui sparano agli Indios e li ammazzano, sono due cose che ho girato separatamente, perché non volevo che gli Indios pensassero davvero che gli stessero sparando. Anche se avevo un trattamento delle due scene, non sapevo esattamente come girarle. Il giorno prima delle riprese era un giorno di riposo, e allora sono andato sul luogo dove era previsto dovessi girare e sono rimasto lì da solo tutta la giornata. Davanti c’era solo la foresta, con i suoi rumori inconfondibili. Ero lì che la guardavo, ed ecco che mi viene in mente un evento di molti anni prima. Ero in un’altra foresta che camminavo, e all’improvviso ho visto un verde più chiaro per terra, come una linea di movimento verde, più verde, la seguo, ascolto con le orecchie il terreno, sento sotto scorrere l’acqua, allora continuo a seguirla, fino a quando non arrivo all’altezza di un dirupo, c’era muschio, vegetazione, comincio a scavare, arrivo a una roccia e alla fine ecco che sgorga l’acqua, come se l’avessi liberata. Piansi per la sorpresa e l’emozione. Ora, questo ricordo si trasformò davanti ai miei occhi in una sequenza in cui gli Indios vengono fuori dalla foresta come se fossero foglie e vengono ammazzati. Così, concentrandomi sul quell’immagine sorta dal passato, seppi come girare la scena. Questa visione, che presentandosi diventa immagine, è quello che io intendo per mai visto.
Non sei l’unico cineasta che oggi lavora alla creazione di immagini attraverso il ritorno alle proprie stesse immagini, al proprio corpo di cinema. Abbiamo detto di Bressane, ma andrebbero citati Paulo Rocha e Ruiz, e poi Straub, Godard, de Oliveira… Forse il mistero, per restare a Godard, non è il cinema, ma il lavorio ininterrotto e bucato della memoria, e il cinema è ciò che più si avvicina a questo misterioso avvicendarsi e rimontarsi della vita e dell’immagine.
La tecnologia è stata trasformata in una forma meccanica di riproduzione, ma secondo me il cinema è anzitutto qualcosa che attiene al tuo occhio interiore, che letteralmente lo scopre. È uno strumento di conoscenza, una forma del pensiero, non una tecnica. Il progetto sulla carta che poi diventa film si chiama industria, ma questa è un’altra cosa. A ben vedere la parola conoscenza non è neppure la più appropriata. Potremmo dire che il cinema è uno strumento che ti permette di surfare fra i sentimenti che normalmente ti assalgono in forma di immagini e pensieri, e che ti permette di fermarti, oppure di cadere, di saltare fuori e tentare di ritornare.
Proprio il titolo del libro di Pynchon di cui parlavamo ieri, Bleeding Edge.
Si, e da questo bordo, benché si distingua bene l’abisso, è sempre possibile trovare un equilibrio. Per quanto riguarda me, il cinema semplicemente mi permette di esistere.
A proposito di industria, del modo industriale di fare film, in Já Visto Jamais Visto c’è una sequenza iper-teorica, quella in cui leggi un estratto, devo dire stupefacente, da Il disprezzo di Moravia.
Anche quella sequenza l’ho ritrovata nei miei scatolini e non mi ricordavo neanche di aver girato! Non so, forse era una sera in cui avevo fumato, ero sul mio letto in mutande, leggevo Moravia e incappo in questa frase, e allora prendo la camerina e giro e la rileggo ad alta voce, perché è una frase che fa capire bene come il cinema sia fatto soprattutto di relazioni, di affetti, e non di sceneggiature. Io per esempio avevo un amico (lo trovi fra i ringraziamenti nel film), Aloysio Raulino, un grande fotografo, lui era una di quelle persone con cui mi capivo senza parlare, era accanto a me mentre giravo e non dovevo dirgli nulla, come inquadrare, che movimenti fare, a me bastava guardare il suo corpo per sapere cosa vedeva, soprattutto con la macchina a mano, al massimo lo sfioravo e lui immediatamente seguiva l’indicazione muta. Io a mia volta vedevo l’inquadratura osservando lui con la macchina in mano. Ecco una cosa rara. Così dice Moravia: “Quando c’è una vicendevole stima e amicizia…”, allora succede il cinema, allora lavori davvero con un gruppo di persone.
Sarà perché per noi ormai Il disprezzo è il film di Godard, ma sono rimasto sorpreso, per rimanere in tema, dal mio vuoto di memoria rispetto alla lingua (italiana) di Moravia…
Ieri mi ha fermato un giovane, mi ha chiesto se ero Tonacci, e mi ha chiesto di fargli una dedica su una copia de Il disprezzo di Moravia, sono rimasto senza parole.
Comunque di nuovo un riconoscimento che si genera da un vuoto di memoria, o da una sparizione.
E di nuovo il mai visto, le due cose sono parallele, e senza virgola, senza interpunzioni, Já Visto Jamais Visto.
Ancora una cosa. Nel film c’è un filo rosso politico che lo attraversa, legato al Brasile. Anche questo è scaturito dal tuo lavoro di accostamenti, oppure era previsto?
No, anche quello è mai visto. L’unica differenza è che questa linea politica era evidente da subito, ritornava in tutte le immagini che avevo ritrovato. La sequenza con mio figlio che va a dormire era intitolata Passione, che era un progetto di un film a episodi con due miei amici, dove per passione intendevamo sofferenza, e legavamo il tutto a Lucilla, la mia prima compagna di cui dicevo all’inizio, che durante la dittatura era stata torturata. Molte cose che si vedono io le ho girate all’epoca della repressione, andavo per strada con la mia 16mm per documentare questa follia che stava distruggendo il Brasile. Quando ho ritrovato i girati, ho scelto le immagini dove invece di questa intenzione documentaria, potessi percepire la soggettività. Per esempio ci sono delle scene di scontri, dove non faccio vedere la polizia, ma cerco di stare con le persone, di essere tutt’uno con loro e al tempo stesso quasi nascondendomi. Cercavo dei sentimenti paralleli, che non emergessero dagli eventi espliciti.
Quanti film non finiti ci sono nella tua filmografia? Cos’è per te l’incompiuto?
È l’incapacità di portare avanti il sentimento che l’ha generato, la perdita d’intensità di un sentimento. E questo avviene in particolare se non hai obblighi commerciali, ma solo una cinepresa e vai avanti. Se non viene meno questa intensità, può succedere quello che è successo a me con Serras de desordem, e cioè metterci dieci anni per fare un film.
Cominci anche più film insieme?
A volte si. Fin dall’inizio, quando con Rogério (Sganzerla, ndr.) abbiamo fatto Olho por Olho, oppure Documentário, e c’era pure un altro progetto Il pedestre, tratto da Bradbury, giravamo tutto contemporaneamente, io aiutavo lui e lui aiutava me. Montavamo su una piccola moviola in una stanzetta che mia madre aveva per cucire, perchè era la stanza più stanza più buia della casa… Poi ci sono anche i film che non finiscono mai. Per esempio io ho cinquantatre ore di girato di un progetto che si chiama At Anytime, l’avevo visto scritto a Londra come ironica chiosa su uno di quei segnali di divieto, e ho queste ore di materiale che giocano sul proibito/non proibito… Non so se lo riprenderò, non so cosa diventerà, non so se lo finirò.
La conversazione si è svolta in italiano nell’ottobre 2014 in occasione del Festival Internazionale del Film di Roma.
Si ringrazia per la collaborazione Donatello Fumarola.