"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

INTERZONE - Bleeding Edge (Thomas Pynchon)

Sunday, 22 March 2015 18:44

Edipo Massi

Il grande nulla

“Future of film if you want to know – someday, more bandwith, more video files up on the Internet, everybody’ll be shootin everything, way too much to look at, nothing will mean shit”. Così Reg Despard, il pirata di film in sala, la cui ossessione per lo zoom, con cui si ingegnava a deviare fior fior di blockbusters in mosaici post-cubisti, ne ha fatto a un certo punto, secondo i tipici miracoli post-moderni (“post-post modern art”) delle Accademie, il rinomato documentarista d’avanguardia studiato e venerato nelle Università che è adesso…

Come sempre in Thomas Pynchon non vi è alcun moralismo in un’analisi del genere, né l’esattezza della profezia (“Think me as the prophet of that”, conclude Reg, rivolgendosi a Maxine, l’eroina assolutamente anti-moderna di Bleeding Edge) si sofferma più del necessario sull’evidente auto-ironia che contraddistingue – if you want to know – l’umana presenza di immagini su questa terra. Né la parodia, d’altro canto, sembra a sua volta voler troppo a lungo imporre il suo canto acido e dissonante.  Semplicemente - oggi lo sappiamo bene - non solo tutti, ma tutto filma tutto, al punto che di immagini ce ne sono ben più di quanto si riesca a guardare, e il passo verso l’insignificanza totale e incontrollata è forse già stato fatto. Eppure, ripetiamolo, nessun moralismo, anche perché l’andatura in questo caso è piuttosto una passeggiata sull’orlo sanguinante di un abisso paranoico, dove tuttavia la paranoia può risultare un buon punto di partenza (stavolta è Maxine a Reg: “(…) paranoia’s the garlic in life’s kitchen, right, you can never have too much”).

La questione dunque è in una sorta di lunghezza d’onda che stilla gocce lente e inesorabili: si chiama malinconia, e ognuno, come in tutte le cose della vita, o come davanti a uno di quei grandi e infiniti biopic che al cinema non sono mai passati di moda (ne è onnivoro cultore l’ex marito di Maxine, che forse non a caso, fra la storia della vita di Ray Milland e una finale di football, sarà uno dei sopravvissuti casuali al crollo delle Twin Towers), potrà di volta in volta assegnarle la forma di dolce speranza o di crepuscolare presa di coscienza. Ovviamente, benché tutto sia già stato detto fatto e visto, l’aspetto davvero malinconico è che il Caso (o la Vita, dipende dai punti di vista) trova sempre il modo di introdurre, nella panoplia astrale di atti ed eventi mancati, una seppur minima variazione.

Bleeding the edgeCosì se è (quasi) logico che i filmmakers siano (e dovrebbero) essere anzitutto dei pirati; che la responsabile di una piccola agenzia antifrode si ritrovi a un passo dal poter evitare al mondo l’11 settembre 2001 (ammesso che ci sia al mondo qualcosa di evitabile); che chiunque inventi qualcosa, per esempio un Web alternativo o sommerso, finisce per scoprire che l’idea è già venuta a qualcun altro e che già ci lavorano plotoni di impiegati (se non proprio a New York, di sicuro in Medio Oriente); che non esista una sola immagine cui sia sensato credere (ripresa amatoriale di una prova d’attentato o filmino porno); che tutti – chi gioca e chi no – siano ampiamente rassegnati a vedersi rigiocati, e a mettere in conto, nel perpetuo lancio di dadi, la venuta meno di qualche fidato compagno di viaggio: allora, è altrettanto quasi logico (ma anche questo è stato detto), che la caduta delle Twin Towers non solo fosse nell’aria, come e più del puzzo di cadavere successivo, ma laconicamente prevista, e che, come tutti gli spettri, quando avesse smesso di aggirarsi per l’America, sarebbe finalmente avvenuta, per di più diventando un’immagine così Immagine, da fornire un planetario desiderio di mai visto, di sogno collettivo di un’immagine differente (soprattutto un’immagine diversa di se stessi), da mandare in eterno loop, non certo per vedere meglio, ma per non svegliarsi dalla magnifica illusione, con addirittura la non tanto segreta speranza che poi nulla sarebbe stato più come prima. Così, il modo in cui si adagiano le macerie fa subito pensare al vuoto cui New York è già troppo ampiamente dedita e assuefatta, per non sapere, con fatale e sonnolenta esattezza, che questo nuovo buco, per quanto simbolico, è solo vuoto che si aggiunge al vuoto più grande, che al massimo lo precisa, lo visualizza, con l’unica controindicazione dell’acre e livido odore di carogna che viaggerà a lungo in città, portato dalla ventosa geometria dello skyline, e che, per un attimo ipocritamente inatteso, ha effettivamente catturato l’attenzione del resto della metropoli, milioni di abitanti che hanno saputo della catastrofe la mattina recandosi dal droghiere o all’edicola o svegliandosi col mal di testa dopo una notte di bagordi, o correndo al lavoro e saltando da una linea della metropolitana all’altra, sbirciando sui giornali a caratteri cubitali, cogliendo al volo dai pezzi delle conversazioni disperse nell’aere per una volta tutte sullo stesso tema, rientrando poi velocemente nel rango abituale di telespettatori, e godendo insieme a tutti gli altri dell’attonito e cristallino loop di una realtà specchiata e accortacciata su se stessa, incredula di potere infine realizzare le sue fantasie più paurosamente inconsce, mentre qualcuno, salendo il promontorio di macerie, sogna a occhi aperti anni di guerre intorno al mondo (altra profezia auto-avverantesi) e un’unica grande rivincita, la quale a sua volta comprende già la riduzione di tutto a nuova meraviglia auto-complottista di cui discutere ai cocktails e alle feste di sempre. Insomma, una grande magica occasione per tutti il Ground Zero.

Pynchon tuttavia, questo mostruoso cineasta-romanziere, non si limita, com’è d’altra parte davvero accaduto nella terrea quotidianità di una città come New York, a far crollare le Torri in sordina, come se niente fosse, a poco più di metà romanzo, lasciando poi tutto svolgersi nella doppia bolla del prima e del dopo. No, Pynchon va a fondo con tutta la nave (capitano coraggioso e capo violino dell’orchestrina), e dice che il crollo è stato alla fine solo un punto casuale di chiarezza nel buco nero, come quando in un bosco un gioco di riflessi sulle fronde agitate dal vento genera una macchia di luce in uno spazio atmosferico e poi subito sparisce. Un punto chiaro, trasparente, all’interno del nulla già da tempo conquistato e a cui tutti si aggrappano, e la cui luce fa parte del nulla stesso, producendo quei piccoli grandi scossoni che servono solo a riassestarsi. Qualcuno lo chiama Capitalismo, ma ci si può limitare a definirlo il vizio di forma del nostro mondo. Di certo è uno spazio tutto politico, lo stesso del grande cinema quando ricava dei punti-luce senza dare conto di avvedersene, restando appunto fermamente malinconico, sapendo sempre ciò che sfugge in ciò che si vede. Per questo Pynchon, che è anche grande romantico (nel senso kafkiano), regala alla sua eroina Maxine due fuggevolezze, due fughe di luce per cui varrebbe la pena vivere – if you want to know: un albero all’inizio, che lei vede e i suoi figli no; un non-sguardo dei figli alla fine, che stavolta si vede.

 

 

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