"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

INTERZONE - Consumed (David Cronenberg)

Sunday, 22 March 2015 18:45

Luigi Abiusi

La chimerica plasticità del nulla

Divorati, in originale Consumed (che amplia il campo semantico del consumo corporale, riflessivo, fino alla dimensione dell'intimità, allo psichismo, oltre che ovviamente alla politica) legittima la velleità del transito al letterario, alla carta, da parte di un regista che, pure, negli ultimi anni ha caratterizzato il suo cinema come pochi altri, quindi lo ha motivato, radicato dentro una congerie visiva, cinematografica specifica, dialettica; e la legittima proprio nel senso di ciò che è cartaceo, di una cartografia stilizzata (mi viene in mente l’idea mappale nel Houellebecq della Carta e il territorio, ma è facile risalire ad altre orografie puramente poetiche da Ballard a De Lillo a Pynchon, ancora lui, di questi tempi), tratta fuori dall’intrico, dalla complessità e incidentalità della cosiddetta globalizzazione e vigente come suo specchio e nemesi. Perciò il tracciato del libro, la traiettoria degli spostamenti di Nathan e Naomi, di Aristide e Célestine, Romme e Chase, abbozzano sulla carta una mappa e i confini di un territorio che è innanzitutto estetico, in cui l’inizio, come dire, diegetico, è mobile, basculante, e riscontrabile tanto a Parigi quanto in Corea del Nord o in Canada, e nel quale i personaggi sospettano di essere tali, e forse di essere il riflesso di altre liquide identità nate dal nulla, cioè da una qualche occasionale necessità dialettica dentro il territorio. E in tal senso uno dei nuclei di questo libro proteiforme (cioè propriamente cronenberghiano) è il dramma vissuto da Naomi mentre si scopre personaggio, entrando in contatto con il mondo fertile (di senso) degli Arosteguy, che si sovrappone, erodendolo a poco a poco, al suo territorio di competenza e di pragmatica esistenziale (essere nella prassi telematica), vale a dire l’enorme apparato massmediale e paragiornalistico, che le dà corporeità e, secondo il lessico cronenberghiano, identità, a fronte del timore dichiarato di «lambire l’inesistenza» fuori dalla superficie granulare delle fotografie digitali, dei video, dagli innumerevoli meandri della rete. E in effetti posta al di là di questo panorama (specie di protezione contro il sentire, il sentirsi in quanto baratro, scura e orrenda vertigine proveniente dal vuoto, usata anche, allo stesso scopo, da Aristide: “Sapevo di ricavare un piacere eccessivo da piccoli eventi e oggetti tecnologici, e che si trattava probabilmente di una strategia semiconsapevole mirata a evitare il confronto con determinati eventi dolorosi della vita probabilmente irrisolvibili e destinati a provocare inarrestabile dolore e sofferenza”) Naomi svanisce (da un certo punto in poi del romanzo non si sa più nulla di lei), trascolorando forse in un altro sé (costitutivamente malleabile, liquido, un’ipostasi su cui si sviluppa via via il processo di personalizzazione/spersonalizzazione), in Chase (già amante degli Arosteguy a Parigi e dedita alla loro filosofia della promiscuità), che mantiene l’origine canadese della giornalista ed estroflette il suo intimo, inconfessato desiderio creativo, nella pratica delle stampe (e della decorazione) in 3D.

Consumed CronenbergQuesto trascolorare dei personaggi in (altri da) sé, o solo l’essere sintomo di estranei metaplasmi dispersi in un’ipotesi di spazio, è prerogativa esclusiva di questo habitat estrapolato dal contingente e tracciato, isolato sulla carta: ingiunzione di permutazione dei corpi (la cui carne allora si rivela liquame, ologramma o, al limite, pura trasparenza), com’è anche per Célestine e Dunja, sconosciuta l’una all’altra eppure profondamente, geneticamente collegate, entro questa mappa, dalla stessa frequentazione della clinica di Molnàr a Budapest (in altri tempi, o, forse, allo stesso tempo ma dentro leggi fisiche nuove, impensabili e piuttosto creabili sulla carta) e dalla manipolazione, dall’operazione sui seni affetti da supposti o verificati (e terminali) tumori; tanto che nel primo racconto della cannibalizzazione fatto da Aristide a Naomi, lui parla di fare l’amore “spasmodicamente, disperatamente” e dei “gonfiori e noduli ed escrescenze ed eruzioni cutanee” (probabilmente inesistenti) di Cèlestine che sembrano quelli (effettivi) di Dunja sotto il tatto e lo sguardo perturbato di Nathan. Così un personaggio pare il sintomo dell’altro, allo stesso modo in cui un evento lo sarebbe di un altro: perciò, come dicevo, è plausibile l’origine della storia collocabile nell’infanzia di Kim Jong-un, a contatto con la “filosofia per bambini” degli Arosteguy, o a Budapest, alla clinica Molnàr, con le vicende mastoplastiche di Dunja e Célestine, o in Canada, seguendo la crescita flessuosa di Chase e Naomi. Anche Nathan potrebbe esserlo, sintomo, sia di Aristide che di Romme, o meglio, potrebbe esserne l’evoluzione, la medicalizzazione, visto che lui non è affetto da deficit uditivo, mentre lo era sua madre e lo sono Aristide e Romme; comunque avverte anche lui la propria origine fittiva, perchè ad un tratto “gli era chiaro che lui non era davvero lì”, a Toronto, ma probabilmente dentro il libro che stava prendendo corpo, Divorati, di cui lui era coautore, insieme a Roiphe (ma anche a Naomi che si accorge che quello che sarebbe stato nei presupposti un articolo su un omicidio sta per diventare un libro, quindi un’inattesa quanto insperata sua creazione) e che inizia forse, ancora (in un infinito spettro incoativo), dalla patologia auto-fagocitante di Chase e di lì rimanda alla simulazione del cannibalismo di Aristide e così via, per altre ipotesi di trama. Che sono ciò che dà carne a Divorati, romanzo che in realtà si autoalimenta epurandone l’autore, mostrandosi in una forma di lessico-merce-tecnologia trito, sbrigativo e impermeabile a qualsiasi lingua letteraria; e si autoannienta in relazione al desiderio di dissipazione, di nullificazione che nutrono tutti i personaggi: desiderio di tornare a quel territorio (sempre incipiente e morente) da cui derivano, che è tanto più vero e riguardante il dramma costante della persona, del corpo dentro il mondo irretito (regolato dalla rete), in quanto davvero finto ed evanescente; come evanescente è alla fine Romme sullo schermo di Hervé, che non si sa più se ancora vero ed esistente (in uno stato che è la Corea del Nord o qualcosa che le assomiglia, collocato su una mappa tutta personale) o solo ologramma creato da un mondo-ologramma a cui i personaggi vogliono tornare come a un nido.

La fuga è dal digitale verso un neo-analogico di estrema avanguardia (per quanto regressivo) rappresentato dal giradischi laser e dal vinile intitolato Listen to the Crickets messi appunto da Romme Vertegal nell’eremo nordcoreano, attraverso cui fare l’esperienza misteriosa, neo-ancestrale del “modulatamente sinistro paesaggio sonoro fatto di minacciosi ronzii, frinii e ticchettii intermittenti, oltre a respiri rochi e non umani (attraverso gli spiracoli tracheali di un insetto?) e a un repertorio di fluide, pulsanti increspature che facevano pensare alla circolazione di sangue non umano attraverso minuscoli cuori tabulari multicamera”. Che corrisponde alla fuga dal consumismo, dal capitalismo, in direzione del kimunismo, “quella strana forma di nazionalismo xenofobo praticata sotto la dinastia Kim; non era proprio socialismo, né comunismo neanche in forma maoista, nonostante la pesantezza del culto della personalità. […] Erano la severità e la chimerica plasticità del sistema, così suggestive a renderlo attraente”. 

Reciso il raccordo carnale con il consumo (il seno di Cèlestine asportato nella clinica Molnàr, una delle eventualità del libro), i personaggi si rifugiano (o cercano di farlo) in una zona criptica e centripeta individuata sulla carta e illustrata dal film maledetto Il Giudizioso utilizzo degli insetti (parte integrante di quel neo-analogico che è linguaggio stratificato, artistico, al contrario della banalità del parlato tecno-merceologico) in cui estinguere l’arbitrio (di consumare/consumarsi), e, tornati bambini, subire la protezione del regime, abbandonarsi al suo controllo, alla severità e alla chimerica plasticità del nido, del Nulla su cui vegetano i grilli e il prato.

 

 

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