"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

FESTIVAL/Berlinale 2015 - Balikbaya n#1 Memories of Overdevelopment Redux III (Kidlat Tahimik)

Sunday, 22 March 2015 18:42

Erik Negro

Alla ricostruzione di una Storia

1. Ricerca del vero

Fuori dalla accogliente sala dell’Arsenal un uomo in costumi tipici col fare da artigiano allestisce un piccolo santuario di oggetti primitivi filippini. Avvicinandosi, quegli stessi appaiono come sculture, come immagini tridimensionali e cristallizzate di un’esperienza, un viaggio, una storia. Quell’uomo è Kidlat Tahimik e quelle statuine sono il diario di viaggio del nostro eroe Malaka che, non sapendo scrivere, imprime su legno e bambù la sua esperienza al limite del conosciuto.

Balikbayan #1 racconta la storia di questo Enrique di Malaka. Come schiavo di Magellano, usò le sue abilità linguistiche e di sopravvivenza per guidare l’esploratore nella sua ricerca (meta)fisica verso la circumnavigazione del globo. Magellano è morto sulla strada di quei mari sconosciuti, svuotato di qualsiasi energia allo scopo di raggiungere il suo obiettivo. Enrique, che da quella energia finalmente fu uomo libero, tornò a casa completando il viaggio e diventando così il primo uomo a rivedere la terra dopo averla traversata. Ma tutto ciò, in un certo senso, deve ancora riemergere.

Dopo la proiezione, in puro stile Tahimik, il regista esce dallo schermo ed entra in palcoscenico. Racconta le sue esperienze e poi si esibisce in una danza rituale nativa. Prima di lasciare il pubblico, quasi in lacrime, per smontare la sua istallazione di simulacri, grida il suo monito ai presenti ed ai futuri cineasti; abbracciare il proprio patrimonio ed esprimerlo nel proprio linguaggio.

2. La lingua della terra

fotoLa lingua è la chiave per l’impero, da sempre. Oltre a fare il bagno a Magellano ogni sera, Enrique ha tempo anche per tradurre le lingue filippine in portoghese e spagnolo. Con lo spirito di archiviazione di chi ha paura del  naufragio. Anche per questo il film si apre con una scatola di cartone contenente bobine di pellicole nascoste nella terra. Cosa sono e da dove provengono quei rulli? Sembra quasi sia il girato stesso di Tahimik del 1979, le prime sue immagini che mostrano lo scorrere del tempo e raccontano la  storia della circumnavigazione. Lui era il giovane Malaka, lui aveva costruito quella barca e la navigava. Eccolo il primo transfert tra lo schiavo (poi libero) e l’autore (poi narratore) che scolpì direttamente i suoi ricordi del viaggio in legno, come lo stesso Malaka, e che ora diventano le sculture che adornano il suo giardino (o all’occorrenza la sala di proiezione). Proprio da li Balikbayan #1 intreccia la storia ufficiale con quella di Enrique, così come con il taglio del regista che iniziò le riprese trentacinque anni fa al fine di scoprire (o ricreare) la verità. Thaimik è un artista di vita, ed i suoi attori non sono nient’altro che gli abitanti e i discendenti di quella follia. L’esperienza comunitaria fu straordinaria ed unica. Il film però si bloccò, come se fosse anch’esso un’impresa epica, una terra lontanissima da raggiungere attraverso paesaggi esotici come passaggi storici, politici, tecnologici; mentre Tahimik  invecchia insieme al personaggio dello schiavo Enrique a cui dava vita sullo schermo. Il tempo passa ma non il romanticismo e l’urgenza nel definirlo. In un villaggio nella provincia di Ifugao nel 2013, Tahimik riprende la costruzione del suo infinito mausoleo in divenire della storia. Gli attori non sono più gli stessi, gli anziani sono mancati, così come sono nati i bambini, altri possibili personaggi  e protagonisti di quella infinita mise en scene.

Il film così esplora i temi della rinascita, della memoria, del patrimonio culturale, e del confine stesso del cinema. Come se già l’atto del girare/si, del set e della scelta di un campo fosse inanzi tutto vivere. Ha usato varie camere, dal 16mm passando per il Super ed il Video8, fino alle tecnologie digitali più recenti, rendendo il viaggio di Enrique un corridoio visivo, un time-lapse eretico, sensuale e straordinaramente politico. Un’opera che mostra una volta di più la costante lotta tra due idee, il richiamo di una narrazione intima e le possibilità del cinema "artigianale" di raccontare storie locali quanto universali. Forse il Terzo Mondo nel cinema non consiste tanto nel  linguaggio o nel luogo, ma nel modo in cui si creano e si fondono. Un cinema che sembra ancora rifiutare l’espressione individuale per la solidarietà collettiva, un metodo non legato all’appropriazione creativa, praticabile utopisticamente anche al di fuori da essa. Un atto estremo e  rivoluzionario di inusuale potenza espressiva e morale. Qui, la linea tra queste figure nel paesaggio e Tahimik regista, collassa completamente, in una riflessione  sul  cinema e sulla sublimazione della civilizzazione nei rapporti di forza, il massacro degli uni (i conquistatori) sugli altri (i nativi). Un’opera che esiste solo in quella fessura tra la drammaticità della storia e le immaginarie filastrocche della buona notte, tra tradizione orale e parola scritta.

3. Occhi di un viaggio eterno

Apparentemente il cinema di Tahimik si sviluppa come destrutturazione dell’autocoscienza coloniale europea, a partire dal folle esordio di Perfumed Nightmare (1977) in cui uno pseudo pilota di villaggio progetta di lasciare le Filippine per l’America con il sogno di diventare un astronauta. Da quel film (lo stesso anno dello Stroszek di Herzog non a caso, forse) dichiara la sua sfida all’immaginario che afferma la rivoluzione di lingua, classi, prospettiva storica, utilizzando ogni forma di lotta narrativa e visuale possibile. In questi quasi quarant'anni quella semplice destrutturazione diventa ricostruzione. Tahimik ha inglobato la personalissima odissea di esperienze in un’unica tela cinematografica ancora più grande che abbraccia tutti i filmati, tra cui l’originale personale racconto ironico sul colmare le lacune narrative, per spiegare/si ciò che è ancora da girare. Poi gli inserti di cinema muto e appunti lisergici di questi infiniti giorni passati a ri-pensare il film; mentre un moderno surrogato di Magellano (uno dei figli di Tahimik), scopre uno shamano ribelle come intagliatore (Tahimik stesso) e passa il resto della storia cercando di ritrovarlo. I piani delle storie si mescolano, l’universo fantastico in cui i significati dominanti del linguaggio vengono capovolti, il tempo si strappa. Il giovane autore che un tempo fu Enrique Malaka ora pare contemplare il suo viaggio, riviverlo con i propri occhi, quelli di colui che ha circumnavigato la Storia. Tutti questi strati di scoperta diventano atto di libertà formale nel dialogo tra i diversi mezzi materiali, come il passato rievocato nel presente. Il filmarsi è la continuità di quello scoprire, un movimento di crescita nella fragilità dello stare qui, di noi. Il corpo di Tahimik è come un puntello per spostare l’azione e la storia, un puntello nel tempo che comporta un viaggio, perchè questo film è stata la sua casa per trentacinque anni (l’incendio del 2004 che brucia gran parte delle tracce audio, la scomparsa della madre consigliera e attrice e la sua salute psicofisica messa continuamente a rischio). Come in una continua ricerca di unità e umiltà in relazione ai luoghi, una complicità con la tradizione che assorbe la memoria.

Allora tutto torna all’apertura, nella mente torna a fuoco quella prima scena del film. Corre ancora verso la spiaggia Tahimik, come se in quel sottosuolo ci sia il suo/loro passato. Inizia a scavare, sempre più confusamente, con le mani che si agitano e con gli occhi agognanti di  una/quella Storia. Il tempo passa, come la scatola di tutti quei ricordi che perdiamo ogni secondo che passa, ogni attimo che si astrae, ogni frammento di passaggio che si perde. Ogni memoria è una lotta, ogni immagine si è già spenta. L’emozione scorre su quei rulli, come la lacrima che scende sul viso che ha visto la sconfitta coloniale, come ogni speranza di un viaggiatore al primo agognante tramonto verso la terra. La spiaggia in cui viene convocato un popolo a guardare lo spettro/specchio della propria riscoperta. Un estremo atto di amore e di resistenza, di affermazione causale e casuale del cinema come creazione di ciò che è stato, non di effimera visualizzazione. Ben prima (ed oltre) di qualsiasi nouvelle vague filippina (figlio illegittimo di Lino Brocka e padre sconsiderato del primo Lav Diaz), l’opera di Tahimik è radicale quanto preistorica, a caccia di radici e di libertà. Nel caos di sorta che è la vita (nel cinema), laddove Ulisse ha già perso le coordinate e le colonne d’Ercole non sono nemmeno più a fondo campo. Troppa acqua è scivolata sotto la chiglia di quella zattera della speranza; laddove ogni luogo è il  proprio sogno ed ogni tempo è il proprio perdersi. Così scorre anche la sfilza d’avverbi quasi doverosi e imprescindibili per indicare "quella" esperienza, già di tutti noi, da vivere e vedere nella luce che si interpone nel buio del battito di ciglia. Un dolcissimo e malinconico viaggio nel viaggio, un poema visivo sulla storia e autodeterminazione dell’immagine, un affresco sul tempo dell’umanità ancora da (de)finire.

 

Post Scriptum

«Lo yo yo nella giungla non è un semplice giocattolo» dice la voice-off presentandoci Enrique, ed ha il sapore della madelaine a casa della principessa Guermantes. Perchè solo quella esperienza alienante di guerra che a Proust fece perdere il Tempo, può insegnarci come poterlo ritrovare. Perchè il controcampo di quella autodistruzione così terribilmente europea è ancora dispersa nelle acque primitive del nuovo (e terzo) mondo (e cinema). Perchè per Tahimik, come per Malaka, quel viaggio non è stato solamente un rito di passaggio e scoperta, ma l’unica possibilità per avere nuovi occhi. Gli stessi occhi nostri, mai così liberi.

 

 

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