"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Visita ou Mémorias e Confissões

Sunday, 19 July 2015 10:29

Roberto Turigliatto

Infinitesimale presenza

Nota a margine di un film di Oliveira

Paulo Rocha diceva spesso che il  libro da scrivere su Manoel de Oliveira sarebbe  la sua biografia, il viaggio in una vita fatta di molte vite. Non era Rocha a chiamarlo  affettuosamente “vampiro”? Ma si può dire che egli sia stato un figlio del suo tempo,  un “maestro cannibale” che ne ha divorato la fibra vitale? Non è stato invece il cineasta più visionario, sempre più avanti del suo tempo? Non è stato la più splendida e sconcertante anomalia del cinema e delle sue età?  Figlio della sua epoca non lo si può dire mai di nessuno, ma ancor meno di Oliveira, nel quale più tempi coesistono a tal punto in bilico abissale che tutta la sua opera è iscritta in una dimensione escatologica, “nel ricordo di un tempo che fu e un futuro che sarà passato”. Dicendosi debitore di quattro grandi scrittori portoghesi, Camões, padre António Vieira, Fernando Pessoa, José Régio, Oliveira considerava NON ou vã glória de mandar, dove la storia portoghese si fa storia cifrata dell’eternità, come l’inizio e la fine di tutta la sua opera: “Senza NON tutto il mio lavoro sarebbe incompleto”. 

Visita ou Mémorias e Confissões, realizzato mentre il regista preparava NON, costituisce a sua volta, come ha scritto Francisco Ferreira, “le plus fort bouleversement du temps jamais opéré par Oliveira”. Solo un fraintendimento totale, oltre che l’assenza di pensiero critico, hanno permesso che il film fosse presentato a Cannes in “Cinéclassiques” e a Bologna nella sezione “Ritrovati e restaurati”. Non è classico, non è ritrovato, non è restaurato. È un nuovo film che non ha alcun equivalente nella storia del cinema, come molti altri del suo autore. Il luogo più giusto sarebbe stato Venezia,  il Festival cui Oliveira si sentiva più legato nella sua storia di cineasta e che ebbe il coraggio (direzione Rondi) di presentare nel 1985 Le soulier de satin in concorso, dove  vinse il Leone d’Oro speciale, e l’anno dopo Mon cas nella serata inaugurale, i due film che egli girò subito dopo di questo, quando si vide costretto a posticipare di dieci anni  NON secondo uno sfasamento cronologico ricorrente  nell’intera sua opera.

fotografiaLa datazione finale di Visita ou Memórias e Confissões Oliveira ha voluto stringerla indissolubilmente a un futuro che restava occulto e imprecisabile quando il film è stato realizzato. La vita, infatti, oltre che un teatro, una divina commedia di cui siamo tutti  degni e spesso  meno degni  interpreti, è “un dramma che cominciamo a conoscere solo mentre viviamo”: non ne conosciamo il futuro “perché l’autore non lo ha rivelato”. Visita ou Mémorias e Confissões avrebbe dovuto essere presentato tra i film novissimi, oscurando tutti gli altri per la sua bellezza, la sua temporalità enigmatica, la sua costruzione formale vertiginosa. 

Ogni inquadratura di un film è insieme messa a morte e resurrezione. L’idea che Ordet sia il film centrale della storia del cinema ricorre spesso nelle riflessioni di Sergio M. Germani, e recentemente la stessa opinione è stata enunciata da Jean Douchet nelle  poche righe  pubblicate nel n. 700 dei “Cahiers du Cinéma” (maggio 2014), illuminanti tanto su quel film quanto sulla domanda posta da Bazin oltre cinquant’anni fa. Ordet non poteva non essere una presenza ricorrente anche nel film di Manuel Mozos dedicato a João Bénard da Costa, Outros amarão as coisas que eu amei.  E lo stesso Bénard da Costa non poteva non chiedere del film a Oliveira nella bellissima conversazione  filmata da Rita Azevedo Gomes, A 15a pedra. Oliveira risponde ridendo che il cinema “può fare qualsiasi miracolo” per  poi  passare a parlare di Gertrud, dove “Dio non c’è, è dimenticato, ma è presente in qualche modo nel rintocco delle campane e nell’orologio, che non sono di questa terra: “il tempo fa parte della creazione”. Ordet era anche un film molto amato da José Régio.  

Sicuramente la precisa volontà che Visita ou Mémorias e Confissões non fosse mostrato prima della sua morte corrisponde al naturale pudore, alla ritrosia e  riservatezza proprie del suo carattere, del suo mondo, del suo ambiente sociale, qualità umane divenute quasi implausibili, incomprensibili, nella nostra triste epoca malata di ogni forma di narcisismo e di esibizionismo, e dove i tanti film “autobiografici” danno ben misera prova di sé. Ma è nella sua costruzione formale più profonda e intima che il film si presenta davvero come radicalmente postumo: ci arriva da un uomo morto, che a noi si rivolge direttamente nella pura finzione cinematografica. Il cinema può sì fare qualsiasi miracolo ma il tempo appartiene alla divinità.

Chiamato a fotografare il corpo appena morto della giovanissima Maria Antónia (cugina di quella Maria Isabel che diventerà sua moglie, e imparentata anche a  Agustina Bessa Luís), Oliveira ebbe negli anni Trenta l’illusione di una resurrezione attraverso le lenti della macchina fotografica. Questa esperienza della sua giovinezza  (“per me la morte non è una cosa astratta”) l’avrebbe trasposta nella sceneggiatura Angélica del 1952, l’avrebbe magnificamente raccontata nel 1992 a Paulo Rocha in un lungo e memorabile piano sequenza di Oliveira o Arquitecto, e infine l’avrebbe trascesa per l’eternità  nel film del 2007 dal titolo O estranho caso de Angélica.

Prima che il cancello del giardino si apra e noi possiamo entrare insieme ai “visitatori”, la voce di Oliveira presenta il film dicendo puntigliosamente ed esattamente ciò che esso è  (come se già non bastasse il titolo, con le sue tre esaurienti  parole): “È un film di Manoel de Oliveira su Manoel de Oliveira a proposito di una casa. È un film mio su me stesso. Forse non andava fatto, ma è fatto”. Oliveira conosce l’agonia (nel senso greco tanto caro a Bressane), è un grande lottatore contro la morte e un grande lottatore della sua arte. Ricorrendo a una disciplina sportiva tra le tante che ha praticato da giovane, e seguendo una suggestione di Francisco Ferreira, si può dire che nel cinema è il campione di salto con l’asta, un’asticella che egli colloca ogni volta più in alto.

Non voce lontana e cavernosa “dall’oltretomba” con l’autore ancora in vita, alla maniera di De Maistre, come nel film JLG/JLG. Autoportrait de décembre, ma “resurrezione” nel tempo enigmatico del cinema del suo autore ormai scomparso,  mentre noi stessi, come in un racconto fantastico, siamo chiamati a farci “visitatori” al seguito delle anime erranti, a nostra volta passeggeri transeunti nella casa in cui ha vissuto e a conoscerne gli spiriti che continueranno ad abitarla: questo è Visita ou Mémorias e Confissões, il cui unico confronto possibile sarebbe peraltro proprio con  JLG/JLG (e perfino Histoire(s) du Cinéma). Solo Godard e Oliveira sembrano saper filmare stupendamente una casa-mondo incantata o stregata, un giardino magico, i fiori, gli oggetti, i mobili, le fotografie, i film girati e proiettati, i quadri, il loro abitatore fantasma tra i fantasmi dei ricordi. Solo loro due, parlando di se stessi si aprono al mondo, all’universo. Solo loro hanno la coscienza esatta di fare cinema e la capacità di rifletterci sopra.  

Visita ou Memórias e Confissões esplora e insegna più di ogni altro film che cosa è il cinema nelle sue origini, nei suoi mezzi e nelle sue possibilità. Come ha scritto José Manuel Costa, mai si era visto un “gesto” autobiografico rifiutare così radicalmente il genere dell’autobiografia (e la facilità volgare e ottusa dell’autobiografismo dilagato negli anni recenti), fiorire miracolosamente in vari livelli di rappresentazione, inversioni di registro, spostamenti e trompe-l’oeuil, sdoppiamenti vertiginosi. Tutto il cinema nei suoi diversi procedimenti, dalle origini in poi, è riunito in inestricabile fusione di diretto e indiretto, di soggettivo ed oggettivo, di letterale e traslato, di quotidiano e di fantasmatico. 

Negli ultimi anni Oliveira ha goduto di universale considerazione come uomo di rara signorilità e gentilezza, di quasi stravagante e incredibile longevità. Affrontava deferenze e omaggi con humour e giocosa leggerezza mentre in realtà  lavorava fino all’ultimo, tenacemente, testardamente, disciplinatamente, severamente, nell’agonia, nella lotta, a film nuovissimi e antichissimi,  passati e futuri,  come il Don Chisciotte e il film brasiliano da due racconti di Machado de Assis (e anche Il ritratto di Dorian Gray, chissà?). Ma quanti sapevano davvero chi fosse il signor Oliveira, che tutti si permettevano di chiamare Manoel? Ci sono qualità che difficilmente si riuniscono in una sola persona, e quando ciò miracolosamente o misteriosamente accade esse  rendono l’uomo un essere nobile, elevato  nella  modestia e nella grazia, creatura fragile ma non indegna della creazione. Quella creazione di cui, come disse l’altro regista, l’opera d’arte non può che essere “ripetizione”. Da parte sua Oliveira confessa a Bénard da Costa di sentirsi un “intermediario”. 

Nella casa ormai è scesa la notte, i due visitatori escono dal giardino, finalmente possiamo vederli come ombre vaganti per sempre e in ogni tempo, figure evanescenti eppure magnificate nel buio dai grani della materia della pellicola che sono la sostanza alchemica di tutto il film. La fuga a due voci tra maschile e femminile in perpetuo  movimento, scritta meravigliosamente da Agustina e filmata in movimenti di macchina sontuosi e ambigui, si arresta e si dilegua. Oliveira è di nuovo solo, seduto alla  scrivania, la Gioconda sembra assisterlo misteriosamente, ora si gira e si  rivolge a noi: “Mi ricordo della mia infanzia, mi ricordo dei miei genitori, di mia moglie, dei miei figli, di un tempo che fu e di un futuro che sarà passato. Mi ricordo di me, della mia infinitesimale presenza nel tempo e nello spazio, e scompaio”.

Da dove, da quale luogo, da quale abisso, giungono infine queste parole dette al termine del film se non da questa arcana camera oscura del cinema (oscura e nello stesso tempo molto chiara), mai decifrata una volta per tutte – quella finzione che è l’”unica realtà del cinema” - , cui lui ha dedicato tutta la sua vita, la passione cui ha sacrificato tutto, non diversamente da Dreyer ? Dove scompare, dove si dissolve?  

Il montaggio finale delle sue fotografie si conclude, in senso cronologico inverso, con l’ultima, infinitesimale presenza nella storia dell’eternità del bambino di due anni battezzato e registrato all’anagrafe come Manoel Cândido Pinto d’ Oliveira che si allontana rimpicciolendo rapidamente e “sparisce”  lasciando lo schermo nero. Il film è finito, la bobina continua a girare mentre l’immagine si rischiara negli ultimi lembi della coda, poi il ronzio del proiettore si interrompe e lo schermo diventa completamente bianco, nella pura luce del proiettore ormai senza  pellicola: è l’ultimo salto, al di là del sipario nero, di chi ha osato collocare l’asta al punto più alto ed incommensurabile. 

Quella biografia sognata da Rocha era già stata scritta e non poteva che essere il viaggio all’inizio e alla fine del mondo.


Citazioni da: 

Francisco Ferreira, introduzione e note ai film (in versione bilingue, francese e inglese) del programma Oliveira da lui curato per il FID Marseille di quest’anno, nel catalogo del Festival: http://www.fidmarseille.org/index.php/fr/?option=com_content&view=article&layout=edit&id=1878

José Manuel Costa, “folha” della CinematecaPortuguesa su Visita ou memórias e confissões, pubblicata in occasione della prima di,  a Porto e Lisbona all’inizio di giugno, che si può leggere anche in spagnolo nella rivista on line “Lumière”: www.elumiere.net



Appendice biofilmografica


Di tutta la prima parte dell’opera di Oliveira, a lungo isolata e nascosta, che va dagli anni Tenta agli Anni Sessanta, Rocha invitava a riconoscere l’assoluta grandezza proprio  nel suo  percorso a ostacoli, non lineare e di lunghissima durata, nel quale si contano capolavori assoluti come Douro faina fluvial, Aniki-Bóbó, O pintor e a cidade, O pão, Acto da primavera, A caça. Lo stesso De Oliveira ha ripercorso i suoi passi mescolando come sempre ricordi e finzione in Viagem ao princípio do mundo e Porto da minha infancia. Júlia Buisel ha pubblicato una Fotobiografia  (Figueirinhas, 2002), la Cinemateca Portuguesa il volume Manoel de Oliveira Cem anos (2006), che riprende anche una parte del libro torinese del 2000. Ma l’indagine non è ancora conclusa, non soltanto riguardo alle sceneggiature non realizzate (Desemprego, Gigantes do Douro, Bruma,  A Mulher que Passa, Prostituçaão,  Angélica, Pedro e Inês, Ritmos de água,  Clair de lune, O Bairro de Xanghai,  Vilarinho das Furnas, O Comboio do Toneca, A Mulher do ladrão, più tardi O Preto e o Negro e moltissimi altri), ma anche ai materiali effettivamente filmati, come ad esempio i documentari meno noti degli anni Trenta, firmati Cândido Pinto,  o le varianti di O pintor e a cidade e Pão. Qualche anno fa, inoltre, sono emersi in una proiezione a Venezia (per poi scomparire stranamente di nuovo) due straordinari cortometraggi, Romance de Vila do Conde e O Vitral e a santa morta, realizzati nel 2008, ma i cui materiali erano stati girati negli anni Sessanta per un film (o forse un ciclo di più film) dal titolo Palco d’um povo, da dedicare a José Régio, di cui l’unico realizzato allora fu As pinturas de meu irmão Júlio. (Di Régio aveva pensato anche di adattare Monstruositades vulgares col titolo A Velha Casa e O Caminho). In Oliveira la macchina del tempo opera dunque in una cronologia non aritmetica ma forzatamente elusiva. Alcuni film sono nati mezzo secolo dopo il primo concepimento, altri riprendono materiali antichi, altri insinuano un senso di  spaesamento  non solo spaziale, altri ancora  si susseguono e rimandano l’un l’altro a distanza di decenni. Nato all’inizio nel 1908, Oliveira si è formato su una cultura scolastica ottocentesca. Morto 15 anni dopo l’inizio del ventunesimo secolo, ha potuto lasciare alle spalle il secolo precedente, che aveva attraversato quasi per intero. Abitante di un paese  in isolata decadenza da secoli dopo le glorie del XVI, nella sua regione di  Porto (più aperta agli scambi e all’industria) ha potuto assorbire a inizio Novecento, sia la tradizione ancestrale del Nord rurale, sia, come altri artisti portoghesi coevi, uno spirito europeo e “modernista”, talvolta perfino avanguardista. Ha vissuto una vita piena, dalle molte esperienze: atleta di molti sport, pilota, attore per un breve momento, imprenditore per eredità del padre, coltivatore nel Douro. Ma è stato più di tutto e per sempre un “cineamatore”, esperto di tutti gli aspetti tecnici e materiali  delle macchine e delle lavorazioni, capace di far cinema artigianalmente con mezzi propri, solo e  sconosciuto, per i lunghi decenni del regime salazarista, a parte l’unica eccezione di Aniki-Bóbó. Se si è arricchito attraverso le frequentazioni intellettuali più importanti dell’ambiente portuense (tra gli altri Adolfo Casais Monteiro e José Régio), fino alla conoscenza diretta, anche per legami della moglie, con Agustina Bessa Luís), ha anche potuto sperimentare fino in fondo nel suo lungo viaggio terreno il mistero e l’imponderabile dell’esistenza umana, quella vita che molto amava che proprio per questo sapeva da sempre essere contigua alla morte.



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