Cavalcare fantasmi
C’è una questione relativa alla bellezza che forse negli ultimi anni è andata lentamente intorbidendosi e, in molti casi, passando placidamente in disuso. Non si tratta solo delle evidenti e sistematiche (di sistema) storture con cui viene pensato un festival. Né di chi pensa che basti mettere la parola bellezza nel titolo perché un film se ne veda benevolmente diffuso.
L’estetica c’entra ovviamente, come non potrebbe d’altronde, quando a un primo livello si è capaci, come lo è da sempre Hou Hsiao Hsien, e ora soprattutto con questo suo ultimo The Assassin, di estasiare l’occhio con una tale acconciatura trasversale di panneggi che accorpano, che donano letteralmente un corpo, all’immagine, intarsiandola di colori, paesaggi, movimenti, incursioni sonore, corridoi atmosferici…
Ma il punto è che se così fosse, la bellezza di The Assassin non sarebbe sufficiente a farne il capolavoro che è. Perché sarebbe quello che non è mai in Hou Hsiao Hsien e quello che non è mai quando si prova a riferire del Bello al cinema: sarebbe solo stile e formalismo, cioè sarebbe appena una formalità, presto dimenticata e dimenticabile. Dunque non accederebbe al livello successivo (che in Hou Hsiao Hsien significa sempre lo strato più profondo), che in The Assassin riguarda il modo in cui il silenzio e la malinconia, la rabbia politica e il romanticismo si dipanano attorno all’abisso indecifrabile di visibile e invisibile, vibrante asse visivo-sonoro di cui si compone l’istinto, prima ancora che l’idea di cinema, del cineasta cinese.
In molti hanno parlato di King Hu, che certo in fatto di bellezza aveva qualcosa da dire. Ma in The Assassin tutto quello che nel cinema di arti marziali era tentativo di sciogliere in volo – nel volo ininterrotto dei combattimenti – l’intrico del set, diventa invece sprofondamento in una geometria di veli e di seta, dove la bellezza sta nell’ipnosi continua dovuta non a ciò che si vede ma a ciò che si disperde nella visione. O ancora in quello che si trattiene segretamente, che viene custodito, e proprio sottratto alla visione, attraverso l’etica assoluta di una donna addestrata a uccidere che tuttavia risolve politicamente un conflitto epocale rifiutandosi di dare la morte al cugino governatore di cui un tempo era stata innamorata e promessa sposa. La narrazione insomma si comporta in The Assassin come la struttra filmica: non esibisce lo sguardo, ma lo segna come vertigine illimitata, interrogandosi sulla sua identità, allo stesso modo in cui l’eroina di Hou Hsiao Hsien si interroga sulla sua posizione di individuo all’interno della storia collettiva.
E questo succede anche nei combattimenti, che sembrano un colpo di vento, leggerissimi, quasi fantasmatici, ma anche in grado di spezzare in due lo schermo e di accecare. Questo sguardo corrusco e d’oro, ritmato dal battito dei tamburi ossessivamente percossi nel fuori campo, tremolante fra arabeschi e lumi di candela, più monta la sua mareggiata più sembra sondare il terreno insondabile dell’invisibile, più scivola fra veli e panneggi più acquista una inusitata trasparenza. Tutto trema in The Assassin, l’ipnosi è frenetica, insieme densa e tagliente, nel ricordo, forse, di Powell&Pressburger (Black Narcissus, soprattutto, per la colata materica di pastelli accesi e, di nuovo, accecanti).
La bellezza è il modo in cui in questo film si diventa ciechi, o meglio come si assorba la stessa capacità e determinazione veggente della spadaccina Yinniang replicandola da una posizione di disorientamento, così come Yinniang accetta la posizione di donna sola, col mondo sulle spalle, ombra nell’ombra, immagine nell’immagine, e si ribella, disobbedisce, non uccide. Sposa impossibile, al contrario di Uma Thurman, non ucciderà il suo Bill, ma imposterà un’etica del non assassinio, parando ed evitando i colpi, disegnando nell’aria l’evidenza enigmatica di una capacità superiore e il peso malinconico di una veggenza che si fa scelta politica.
Viene in mente Città dolente. Nulla è come Hou Hsiao Hsien nel cinema dei nostri giorni (a parte Oliveira che, come scrive Roberto Turigliatto, pone il medesimo problema a partire dalla stessa idea di scomparsa e sparizione). Un’onda tragica che inventa pieghe e si porge al mondo con movimenti rapidamente febbrili. Una guerra la cui origine si perde nei secoli, con l’immagine che è la più cesellata mai vista ma al tempo stesso sembra sempre galleggiare altrove, per poi accendersi con scatti, colpi precissimi che feriscono e aprono vecchie ferite, mentre intorno lo spazio si abita di un crepitio mai sentito di grilli, uccelli, tamburi, tendaggi, petali, strati, fuochi… Ecco, in tempi di virtualità di corpi e coscienze, un punto su cui lavorare: non si tratta di vedere tutto e sempre di più, ma di fare a meno di qualche immagine, di disfarsene, non come una ritirata, ma per provare a cavalcare i fantasmi.