"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Afternoon (Tsai Ming-liang)

Friday, 23 October 2015 18:29

Lorenzo Esposito

Cinema vs. film-art

Su una cosa Tsai Ming-liang è davvero sincero in questa conversazione a cuore infranto col suo Lee Kang-sheng, ed è quando si dice al settimo cielo perché il loro ultimo film Stray Dogs verrà proiettato nei musei: “Ti rendi conto, siamo arrivati in un museo!”. Però però, ingenuità a parte… Cosa intende davvero Tsai? Che dopo tutti i film fatti solo Stray Dogs ha raggiunto il livello necessario per garantirsi un posto nel salone dorato di ciò che è considerabile arte o di un’arte considerata alta? Che dunque solo ora lui e Lee Kang-sheng sono considerabili artisti? Che il cinema stesso, per essere arte, ha bisogno di installarsi nelle stanze o sulle pareti di un museo?

Afternoon (Tsai Ming-liang)Curioso, soprattutto perché tutto Tsai Ming-liang insiste invece a disinstallare, se non il cinema, sicuramente se stesso. Comunque, si sa che le magnifiche e progressive sorti della film-art oggi sono tanto sublimi quanto prevedibilmente canoniche e canonizzate, a cominciare dalle parole, che non sembrano designare altro che generiche etichette - cinema d’avanguardia, film sperimentale, film di ricerca, opera radicale - che designano a loro volta una questione, questa sí, attuale: non sappiamo più neanche di cosa parliamo (e le conseguenti domande: cosa fa delle otto ore di Albert Serra non solo un film, ma un oggetto artistico? La durata? La disposizione su cinque schermi? La posizione collaterale all’interno della Biennale Arte di Venezia, con tanto di canale dipartito in fondo a Via Garibaldi del quartiere Castello, sfociante, tenendo la destra, sul ponticello antistante i cantieri navali, cioè arrivarci sarebbe di per sé un’artistica passeggiata-anticipazione? E cosa distingue due lavori della compianta Chantal Akerman come Now e No Home Movie, per cui il primo è in una grande esposizione universale e il secondo nel concorso internazionale del festival di Locarno? Il numero di schermi in gioco, anche qui? Quale dei due è un film e quale film-art? A parte che in quello considerato ‘cinema’, No Home Movie, ci sono più schermi dei cinque disposti a mo’ di fuga western in Now… E che dire di un pezzo di pellicola in fin di vita di Lezioni di storia di Straub-Huillet scolpito in loop all’ingresso del padiglione italiano, e che appunto – ma qui a Straub è ben chiara la questione di lana caprina, lasciate ogne speranza, voi ch’entrate: “Questo film parla di commercio e di democrazia, ovvero di imperialismo” - dovrebbe omaggiare l’arte italiana? Che fa? Installa? Disinstalla? Harun Farocki, per esempio, benchè integralmente filmografato su una parete delle Corderie schermino dopo schermino, ha poi una saletta tutta sua e i film li proiettano, uno al giorno, per intero: dis-installazione di una retrospettiva? Il passo da museo poi, continuamente dis-tratto, fa senz’altro preferire lo schermo in miniatura, davanti al quale ci si ferma, irrazionalmente, e ci si mette a guardarlo lì il film, perché c’è il maledetto sogno di vederli tutti contemporaneamente – ho visto tutto Farocki in una sola occhiata! - invece che andare a sedersi per un’ora e mezza o tre e vederne uno solo e non avere il tempo di volo per tutte le altre sale. Mentre nell’hangar collaterale dove ci sono i cinque schermi di Serra, su tre persone che prendono una sedia e cominciano a scivolare nel buio, ce ne sono trenta che entrano e dopo poco escono sgomente alla sola idea di tutto il tempo che avrebbero perso, insomma a chi può venire in mente di scambiare il cinema con… l’arte!? Chissà, sarà tutta questa beata confusione a permettere all’orrido furbetto moralista Steve McQueen di fare con Ashes I&II un pezzo pianamente accettabile, una fotocopia fronte-retro che magari è più filmica del solito, con l’unica trama il sonoro di un’immagine double-face e non le solite insulsaggini sociologiche neanche poi tanto passabilmente sceneggiate).

In ogni caso, restiamo al gioco. Intanto è per lo meno paradossale che Tsai Ming-liang possa considerare più museale Stray Dogs di questa inquadratura fissa di due ore, intitolata Afternoon, dove un regista e il suo attore feticcio, installati nel quadro bucato di una casa diroccata, consumano una delle ossessioni amorose più sconcertanti e appassionanti della storia del cinema. Come sempre in Tsai Ming-liang siamo in un acquario: due voragini nel muro, oltre le quali si increspano, battute dal vento e dalla luce, le cime degli alberi che declinano in profondità in quella che sembra una foresta, o una valle, o un sistema di colline. I due parlano, ridono, piangono, ricordano, restano in silenzio (cioè, più che altro, Tsai Ming-liang parla piange si dimena disperatamente e Lee Kang-sheng protrae i suoi proverbiali silenzi in una zona molto vicina, vicinissima al disumano…).

Ebbene, che c-i-n-e-m-a è questo? O forse è un documento? Forse allude a ciò che fa sempre del documentario l’ipotesi più ambigua possibile di quello che di solito ci affrettiamo a indicare come il nostro rapporto con la realtà?  L’inquadratura fissa, che per l’appunto non ha nulla di museale, è semmai ulteriore inganno, che gioca al suo interno un movimento irrefrenabile, vibrante fra l’elettricità delle circuitazioni cromatiche e gli smottamenti del cuore (senza contare la testa dell’operatore che ogni tanto compare nel plan; senza contare l’ambiguità con cui Tsai Ming-liang stesso, da oggetto del film, accede, all’inizio e alla fine, a quella ulteriore di soggetto-regista - il cut d’avvio e, prima di chiudere, l’ordine: “Aspettiamo che cali la luce”). Ecco perché non ci sono risposte, ma solo altre domande. Siamo qui o altrove? Ci amiamo? Ci siamo mai amati? Tu, mi hai mai amato? Dove andremo? Cosa faremo? Io sono qui, tu ci sei? Ma io, sono veramente qui? E il cinema, il cinema dov’è? E questo è un film? E se non è un film, ti prego, dimmi tu che film fare!

(Tanto per cambiare, le cose semmai si complicano. Perchè a questo punto ci sarebbe da discutere di alcuni film apparentemente non (più) situabili, né un’arte né una tecnica direbbe qualcuno. Qualcosa di così raro da sembrare vicino all’invisibile, la cui specificità non è ma potrebbe essere il cinema, preso però come cosa che inappare, che si allontana, proprio si ritrae combattendo da questa illusione del tutto documentato e documentabile perché tutto visibile e visto, adombrando la possibilità di non esistere, cioè di essere ancora tutto da inventare. La naturalezza con cui Otar Iosseliani ancora in Chant d’hiver fa sembrare che il gioco del mondo è il cinema, naturalmente. Al punto che forse, mentre sta lì sospeso e sorpreso dalle finestre che si aprono su più dimensioni, istupidito dai torrenti di possibilità, ma anche dal succedersi di semplici chiose quotidiane che si dipanano, ebbene scompare, non si vede. La morbidezza con cui Hou Hsiao Hsien The Assassin insegue vortici e onde disponendo il più grande intarsio atmosferico, consapevole che i venti lo dilapideranno, che l’aria spirerà altrove. La disperazione con cui Andrzej Zulawski in Cosmos e Jerzy Skolimowski in 11 Minutes praticano interventi cosmici sul corpo stesso dell’immagine sapendo che ogni chirurgia ricompone la ferita giusto il tempo di un battito di ciglia. La saggezza paurosa di Manoel de Oliveira che sapeva come ogni memoria e ogni confessione durano il tempo di una vita, dunque al massimo sono postume, febbrili e caduche insieme come la visita a un museo. L’altra saggezza olimpica di Hong Sang-soo, che infatti è Right Now, Wrong Then, tutto è rivedibile, variante di una variante di una variante, pagliuzza nell’occhio che spalanca abissi, caselle che proprio quando sembrano incastrarsi perfettamente e invitare a un saltello ironico e baldanzoso nel quadro, letteralmente ti disarcionano. La tempesta perfetta di Julio Bressane che con Garoto – parte di Tela brilhadora, un progetto a otto mani con Bruno Safadi, Rodrigo Lima e Moa Batsow - sfida l’indecifrabile, vento sole roccia foresta donna in un’unica insondabile massa sonora, una sorta di metafisica del fantastico, che riprende l’antico concetto di filosofia della natura: riconoscere la crisi e provare a riconferire densità alla materia. Una cosmologia in cui i cineasti sono continuamente sbalzati fuori, e possono rispondere all’attrito solo filmando e inventando una realtà parallela, nella speranza che un giorno rientri nel naturale giro degli astri).

Il cinema agisce in una zona che precede (e poi forse concede) i suoi autori. In Afternoon il fatto incontrovertibile è che il metodo di Tsai Ming-liang, partire sempre da un campo lungo e progressivamente stringere e stringere fino ad arrivare a un primo piano infinito e bagnato dalle lacrime, qui è genialmente rovesciato, l’inquadratura unica e la vita privata messi in campo sono subito da sé un primissimo piano, ingannevole e ambiguo come può esserlo solo la vita privata (privata di cosa poi?), e le figure possono allora sostare in un campo medio/lungo, col volto in ombra, che ingaggia la sua battaglia con ciò che si vorrebbe svelare ma che forse è già malinconicamente svelato, strenua difesa contro il visibile.

 

 

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