Filmare tutte le mie azioni non vuol dire fare film
Si è scritto molto sui lavori di Robert Beavers. Forse se ne è in parte sottovalutata la statura di cineasta (complice il suo legame, nella vita e professionale, con il più osannato Gregory Markopoulos) capace di intervenire simultaneamente sul corpo dell’immagine e sull’idea stessa di cinema sperimentale, capovolgendoli entrambi, ma non si può dire che sia sfuggita ai più la matematica ininterrotta (la si chiami anche qui, in mancanza di meglio, sperimentale), quella certosina fuga musicale che muove a ritroso in cerca del battito originario, qualcosa che viene prima dello studio analitico delle ottiche e della pellicola, prima dell’immagine, prima di se stessi, delle proprie azioni, all’interno dell’immagine, forse prima ancora dell’inconscio che sempre disarticola l’insieme di questi elementi (così Beavers in un’intervista del 1998: “The ‘act’ of filmmaking? Yes, but this act is not just what is carefully composed in front of the lens”).
Non è dunque così innocuo riprendere il discorso oggi (così come è stato ripreso nel Forum Expanded dell’ultima Berlinale), laddove fra ingenui peana all’epopea documentaria (italiana!? cui segue una confusione più unica che rara sulle nozioni di realtà, realismo e fiction), ininterrotto fiume digitale e mitomanie di ritorno (alla pellicola), un film (parola semplice e inequivocabile) come From the Notebook of… (1971-1998), che viaggia a velocità che si credevano perdute, sia in orizzontale che in verticale, sia muto che sonoro, tutto interno al fotogramma, ma in modo che il fotogramma si riversi splendente sul mondo (ebbene si, lo splendore del vero) e lo muti sottilmente, drammaticamente: già solo questa sarebbe una posizione primigenia, un piccolo immenso lucidissimo tumulto che, mentre si addensa, mette simultaneamente in conto la propria sparizione (altra parola semplicemente inequivocabile: cinema).
Questo sentimento di mai visto non ha nulla di aggressivamente nostalgico o di tragico (come per esempio nei primi super 8 di Jean-Claude Rousseau, il cui debito nei confronti di Beavers – si pensi a Venise n’existe pas o più in generale all’idea di salto dalla finestra con la camera e il tuffo che, nell’impatto con la città, diventa un giro rocambolesco di ascissa e ordinata – è per lo meno ingente) ma di chiarezza improvvisa, dove per chiarezza si intende una restituzione di complessità che nella gran massa dell’odierna produzione risulta poco rintracciabile. Beavers è a Firenze, nella sua stanza, con la sua camera e con due differenti taccuini, uno (che ispira il film) col saggio di Paul Valery sul metodo di Leonardo e con le note di Leonardo, l’altro con quelle di Beavers stesso. Quando Beavers lancia letteralmente la camera dalla finestra il pianeta intero si risveglia dal suo sonnolento incedere, riprende vita: Firenze balza nell’inquadratura, i taccuini sfogliano le pagine, i fotogrammi si attorcigliano, la luce organizza un sistema di micce e riflessi, ogni sfoglio di pagina coincide col battito d’ali degli uccelli, ogni lettura di una nota produce un mutamento di lenti e di riscoperta dell’ombra, una traslazione continua di muto e sonoro (come diceva Valery di Leonardo: “Scapiglia e arriccia i filamenti delle acque, le lingue di fuoco”). Eppure, in questa overdose di strati e rilanci del pensiero (che Beavers prolunga negli anni, se si pensa che su tutti i suoi film di quel periodo è reintervenuto – da qui la data 1971-1998 – col principio che il rimontaggio comprendesse anche il parallelo riassemblaggio del sonoro), si percepisce una calma, una fisica interna delle suture fra le immagini, nei loro ritorni ossessivi su un punto dello spazio già occupato e ogni volta rimesso in gioco con una differente porzione di tempo (siamo nell’ordine di uno o due secondi, ma così alcune delle note sostano più a lungo allo sguardo, perché devono essere leggibili per produrre lo scatto successivo nel film e nello spettatore), che sembra porre Beavers in una posizione abbastanza unica nel panorama dei suoi coetanei del cosiddetto cinema sperimentale. In molti hanno parlato di Bresson, probabilmente per il modo in cui il taglio è essenziale perché essenzialmente annuncia l’installarsi del suono. Non è tuttavia una questione di soli nomi (gli altri che Beavers ha spesso convocato a numi tutelari della sua formazione, da Dreyer a Lang a Stroheim, sono altrettanto inusuali per l’avanguardia attorno a cui fin dall’inizio gravitava). È come se Beavers - benchè non si sottragga alla pratica del cineasta soggetto fondante e fondativo dell’immagine stessa, e quindi filmi il proprio corpo nudo – in qualche modo rifuggisse dalla marca autoriflessiva che sostanzia molto cinema sperimentale. Tutto è nella camera e tutto è nell’immagine, vale a dire che tutto sfugge, e che proprio questo diramarsi delll’oggeto del film esclude la possibilità che esista un soggetto dell’immagine generato unicamente dal Sé (a meno che invece non venga ricercato nella voce interiore dello spettatore, ma a quel punto il cineasta è per fortuna sparito, altrimenti non farebbe cinema). Ed è il motivo che lo porta a scrivere la nota datata 1969 che chiude il film (e che, se ben interpretata, darebbe vita a una nuova generazione di grandi filmmakers): “Filming all my actions doesn’t mean making films”. Che fa il paio con una nota a margine di Valery alle sue note su Leonardo: “Viceversa, la costruzione comporta le condizioni a priori di una esistenza che potrebbe anche essere tutta diversa”.