La rappresentazione concomitante.
Breve storia di fantasmi per adulti
Ma il vostro sbirciare da castrati vuol persino chiamarsi «contemplatività»!
(Così parlò Zarathustra)
Non si può parlare dell’origine del movimento se non distinguendo gli esseri, le specie, i generi, le cose; e dividendo il buio dalla luce, la terra dalle acque, i pianeti dalla consistenza del vuoto per assumere, infine, il punto di vista dell’atomo. Della genesi del movimento è meglio tacere o provare a immaginarne la sua genealogia di meccanica e di leggenda.
Era il 1829 quando Joseph Plateau avanzò l’ipotesi della persistenza per 1/50 di secondo dell’immagine sulla retina che, fusa ad una seconda ‘impressione’, creerebbe la concomitanza di due immagini cioè la rappresentazione. Nel frammento 26[12] del 1873, Nietzsche, immaginando il mondo come un punto spaziale infinitamente divisibile, elaborò una complessa ‘teoria della sensazione’ che annulla il movimento ma ne afferma la rappresentazione:
Tutte le leggi dello spazio sono quindi pensate al di fuori del tempo, cioè devono essere contemporanee ed istantanee. Tutto il mondo in un colpo solo. Allora però non esiste il movimento. Il movimento soffre di questa contraddizione: è costruito secondo leggi spaziali, e con l’assunzione del tempo rende queste leggi di nuovo impossibili: cioè insieme è e non è. [...] Non esiste quindi una contiguità, se non nella rappresentazione1.
Il tempo è quello di cui abbiamo bisogno per fissare sulla retina la contraddizione del movimento, la sua contiguità: l’ossessione della vista in cui sensazione e materia, memoria e oblio si fondono nel riflesso di un brivido patetico, di una forza persistente nello spazio. Il movimento originario, che «insieme è e non è», si focalizza in un solo punto atomico («tutto il mondo in un colpo solo») che danza. L’affollamento delle figure e la singolare galleria posturale di cui l’opera di Nietzsche è satura non esauriscono il rapporto problematico con l’immagine che resta, ma come lettera inespressa dalla scrittura, suono inaudito dalla musica, figura irrappresentabile dall’arte. L’arte nasce dalla irriproducibilità di una imprecisione sensoriale, da una fondamentale incapacità a elaborare il tutto attraverso le parti: «Immagini nell’occhio umano! Ciò domina ogni essere umano: si parte dall’occhio! Soggetto! L’orecchio ode il suono! Mirabile concezione, del tutto differente, del medesimo mondo. L’arte si fonda sull’imprecisione della vista. Anche a proposito dell’orecchio, imprecisione del ritmo»2. Una imprecisione che deve essere appresa attraverso la distanza dalle cose e la loro graduale scomparsa: «finché molto di esse non lo si vede più e molto invece si deve aggiungere con i nostri occhi per vederle ancora – oppure a vedere le cose di sbieco e come in uno scorcio – o a disporle in modo che in parte restino dissimulate e offrano soltanto la possibilità d’intravederle in prospettiva – ovvero a contemplarle attraverso un vetro colorato o alla luce del tramonto – o a dar loro una superficie e un’epidermide che non abbia una piena trasparenza»3. Imprecisione e opacità.
Nietzsche inaugura la sua grammatica del frammento scomposta in una grafia di punti in caduta. Ad ogni movimento sulle punte coincide una ferita, per ciascuna cicatrice un passo contiguo allo sviluppo dell’organismo. Memoria e sensazione sono il materiale plastico con il quale l’uomo trasforma senza dimenticare, accoglie la forma spezzata e lascia che essa si manifesti nel suo effetto traumatico.
All’insufficienza della scrittura sopperisce un vero e proprio tentativo dinamografico della distanza in cui le relazioni spezzano la possibilità di esistenza di una linea temporale (telos) e la misurazione riguarda solo «qualcosa che resta spaziale»4. La necessità grafica imprime l’imprecisione nell’occhio, ritma il battito di una opaca sopravvivenza (Nachleben) e scandisce la vibrazione di uno spirito elementare (Elementargeist): actio in distans temporis punctum. Tutta l’opera di Nietzsche usa archi ampi e accelerati, curve strette che rimbalzano o rallentano in un adagio verso terra per dire il ritorno di una figura-ancella del tempo non lineare; una sovversione della grammatica ad opera dell’immagine.
Il suo nome è Ninfa. La sua postura è l’arresto improvviso nel vento. La sua sensazione è il godimento. Anche se visibile, è solo attraverso la congiunzione amorosa con l’uomo che l’immagine acquista un’anima e si trasforma in creatura.
Qui me ne stavo e attendevo, nulla attendevo,
Al di là del bene e del male, or della luce
Godendo, or dell’ombra, tutto semplice gioco,
E mare e meriggio, tutto tempo senza meta5.
Ninfa è l’atomo di tempo che assale lo spazio, la materia mentale o il sapere esoterico che incanta. In sua presenza, il tempo è quello della pura attesa senza meta, la puntuale sospensione di un amplesso nel fluido della creazione. Quando Ninfa appare, l’uomo ne viene assolutamente posseduto e la descrizione dell’incontro diventa la sua ossessione: come un insetto preso nel bozzolo, il tessuto volatile si imprime nella retina e la tessitura del desiderio, inafferrabile e tattile, s’incarna nell’occhio.
Nietzsche è stato nimphóleptos, un rapito dalle ninfe e, come lui, lo fu Aby Warburg.
Il primo dedicò alla ossessione ‘trasfigurante’ un libro leggendario che ripete, come esercizio mnemonico, la necessità dell’Oblio, La nascita della tragedia (1872); il secondo passò la vita a selezionare, catalogare, montare gli avvistamenti di ninfa in un atlante infinito della Memoria di cose rimosse, Mnemosyne, l’atlante delle immagini (opera incompiuta pubblicata solo nel 1993). Warburg riconobbe il potenziale cinetico dell’immagine nimphatica tra i capolavori del Rinascimento fiorentino e poco più tardi i fratelli Lumiére ne cristallizzarono il potere incantatorio nella danse serpentine di Loïe Fuller.
Che cos’è la danza? Movimento. Che cos’è il movimento? L’espressione di una sensazione. Che cos’è una sensazione? La reazione nel corpo umano prodotta da un’impressione o da un’idea percepita dalla mente … La mente funge da tramite e fa sì che le sensazioni siano riconquistate dal corpo … Per imprimere un’idea io mi sforzo con i miei movimenti di farla nascere nella mente dello spettatore, di svegliare la sua immaginazione, che possa essere pronta a ricevere l’immagine … Sì, io posso esprimere questa forza che è indefinibile ma certa nel suo impatto. Io ho il movimento6.
Loïe Fuller è la menade danzante della modernità, la ninfa di Ghirlandaio, la Maddalena di Raffaello, una corifea di Eschilo. Nella danza immobile del suo corpo esposto (ed espanso), il tempo rimbalza nei panneggiamenti roteanti della rappresentazione in un linguaggio di gesti potenziato. Lei possiede il movimento. Il punto di vista dell’atomo coincide con l’azione creatrice che è gesto ripreso durante la sua scomparsa. In concomitanza: Raffaello dipinge l’incompiuto e dietro di lui la Trasfigurazione presiede ad un glorioso svanire; Nietzsche ne fa il manifesto iconologico della sua Tragedia; Warburg individua nel pathos la formula primaria della conoscenza e il cinema raccoglie il sontuoso residuo musicale nella memoria dei gesti, la pittura nel movimento del panneggio virtuale e dei capelli scompigliati dal soffio della vita:
Il Dramma Visivo è Arte Plastica; arrestandone lo svolgimento in un punto qualsiasi durante la proiezione, dovrà mostrarsi nell’espressiva immobilità dei personaggi della Pittura. È unicamente per mezzo del movimento impresso alle sue figure con un apparecchio da cui si sprigiona il soffio della vita, che il Dramma dipinto con la luce, divenuto Arte Ritmica, trascina la nostra sensibilità7.
Il tremito nel buio è un gesto vivo che trasfigura le cose in fantasmi. Quella tra Nietzsche e le immagini è una genealogia che non si conclude all’interno dei suoi scritti musicali e delle sue teorie pittoriche, ma si dissemina nel tempo condensato in quel punto-mondo in cui i salti e gli strappi coincidono nelle visioni di altri autori, nella danza rituale di un fotogramma, tra le pagine di un romanzo nabokoviano. La ninfetta è un demone luminoso, un atto d’amore in grado contemporaneamente di lacerare e di sanare. È lei che puntella la storia per scompaginarne irrimediabilmente il corso e annulla il telos per far coesistere umanità cristiana ed energia pagana, dio morto e menadi danzanti, Dioniso e Crocifisso. La trasfigurazione acquista centralità per il fatto stesso di essere postura, modalità di pensiero e tentativo autocritico di sovvertire la scrittura, la rappresentazione, la vita. L’incontro con Ninfa ossessiona: Nietzsche viene trasfigurato da questo rapporto a partire dal quale ogni frammento, ogni atomo di tempo, ogni esperienza dello spazio converge in dionisiaca visione.
Nella Visione dionisiaca del mondo (1870) si distinguono tre diverse possibilità del linguaggio, in una graduatoria ideale che va dall’espressione verbale alla rappresentazione silenziosa del gesto. Se il linguaggio dei concetti è il più limitato perché si occupa esclusivamente di un “resto riducibile” del sentimento che può essere comunicato solo in una lingua conosciuta, il linguaggio dei gesti e quello dei suoni tenta una pericolosa approssimazione all’irriducibile sfuggendo alla parola. Imprecisione e opacità. Il gesto, essendo un ‘riflesso’ dell’istinto e non della ragione, è universalmente comprensibile; la sua rappresentazione è quindi una concomitanza: «che cosa simboleggia dunque il gesto, rispetto a quell’entità duplice che è il sentimento? Evidentemente la rappresentazione concomitante, poiché soltanto questa può essere accennata, in modo incompleto e parziale, dal gesto visibile: un’immagine può essere simboleggiata solo attraverso un’immagine»8. La rappresentazione concomitante è danza: gesto e sentimento, impressione e sensazione fusi nella contraddizione del movimento. Solo la musica è in grado di cogliere l’irriducibilità: è più del linguaggio perché ‘prende’ senza ‘comprendere’ ed è in eccedenza rispetto al gesto perché ha a che fare con una forza dinamica: «l’ebbrezza del sentimento: il grido».
L’«intuizione priva di dolore»9 nella luce si eleva dall’«eterno dolore originario»10 che schiaccia nella polvere uomini e donne in una confusione di piedi nudi, mani gesticolanti e grida. Se la musica apollinea è un’espansione celeste e una panica sospensione, l’oscuro chiasso dionisiaco azzera l’autocontrollo. In alto il canto armonico, in basso bestemmie e sussulti. Il libro aperto della sapienza è relegato a margine, confuso tra le cose, liberato tra le forme. Levità e convulsione: movimento contraddetto: tutto il mondo in un colpo solo.
Era il 1517 quando il cardinale Giulio de’ Medici commissionò a Raffaello per la cattedrale di Narbona una grande pala sulla trasfigurazione. Tre anni dopo, l’opera non finita, fu posizionata dietro il feretro del suo creatore, non nella pace celeste di una chiesa monumentale, ma nella bottega sporca e confusa, agitata dall’intensità cinetica di mani gesticolanti, piedi ritornanti e grida di dolore. Una inconsolabile Maddalena (musa, moglie e amante Fornarina) fissava il corpo del creatore morto sperando di catturarne la forma-fantasma nella retina e di scongiurarne la definitiva scomparsa. La trasfigurazione si moltiplica nella concomitanza vertiginosa che è già eterno ritorno della rappresentazione: lo splendore divino sul monte Tabor - la visione demoniaca del ragazzo sfigurato - il corpo esanime di un dio creatore adagiato tra panneggi e capelli scompigliati. Tutto il mondo in un colpo solo è «in ogni momento la raggiunta liberazione di Dio, come la visione eternamente cangiante, eternamente nuova dell’essere più sofferente, più contrastato, più ricco di contraddizioni, che sa liberarsi solo nell’illusione»11.
La contraddizione del movimento si libera nell’illusione.
La metà inferiore col ragazzo ossesso, gli uomini in preda alla disperazione che lo sostengono, gli smarriti e angosciati discepoli, ci mostra il rispecchiarsi dell’eterno dolore originario, dell’unico fondamento del mondo: l’«illusione» è qui un riflesso dell’eterno contrasto del padre delle cose. Da questa illusione si leva poi, come un vapore d’ambrosia, un nuovo mondo illusorio, simile a una visione, di cui quelli dominati dalla prima illusione non vedono niente [opacità] – un luminoso fluttuare in purissima delizia e in un’intuizione priva di dolore, raggiante da occhi lontani [imprecisione]12.
Al centro della scena ritorna Ninfa, in un’aura di luce propria, per risuonare in tutta la sismografia nietzscheana come vertice intensivo. Ha la spalla scoperta e i capelli intrecciati con sofisticata eleganza; la punta del piede è forza tellurica, le vesti compongono una tessitura organica che ne disegna le carni. La gestualità delle mani se da una parte indica l’ossessione per il gesto in sé (il raddoppiamento, la ripetizione infinita e immobile), dall’altro è rivolta al ragazzo, sintomo e simbolo della figura che esce da sé. Tutto in lei è un preciso ‘puntare’; tutto in lei è speculare («un’immagine può essere simboleggiata solo attraverso un’immagine»): dalla visione celeste e verticale, alla sofferenza e alla conoscenza della vita orizzontale. Ma quello che sgomenta e incanta è lo sguardo fisso, severo punto di vista atomico che non incrocia occhi umani ma contiene l’intero: «è solo l’occhio tuo – o infinitudine!/Che immenso mi sta guardando!»13 .
E Fornarina fissa muta la forma-fantasma del suo creatore.
La bellezza è sempre demoniaca perché poggia su un fondamento di sofferenza e conoscenza, scrive Nietzsche nella Nascita della tragedia e, per la prima volta nel corpo di un libro, risuona la musica della tragedia greca fusa alla potenza cinematografica della visione come la sopravvivenza paradossale, impercettibile eppure esistente, di una possessione.
La figura è al di là (trans-figurare) di quello che appare. L’impressione della prima immagine apollinea [prima tras-figurazione: Cristo sul monte] è sostituita dall’impressione della seconda immagine dionisiaca [seconda tra-sfigurazione: il ragazzo ossesso-Nietzsche-Warburg].
Ogni rappresentazione imprecisa, opaca e residuale è una ninfo-manìa (manìa intesa nel senso greco di modalità della conoscenza folle proprio della baccante. Ninfo-manìa sarebbe allora il sapere eccedente che si dà attraverso la visione), un atto di amorosa fusione tra occhio e immagine, tra corpi e spiriti.
Ogni visione è una storia di fantasmi per adulti.
1 F. Nietzsche, Frammenti postumi, in Opere 1869-1874, I, III, 3, 26[12], Adelphi, Torino 1992, p. 171.
2 Ivi, 19 [66], p. 26.
3 F. Nietzsche, Gaia scienza, Adelphi, Torino 2007, p. 299.
4 26 [12], p. 174.
5 Sils Maria, in Gaia scienza, p. 333.
6 L. Fuller, Quinze ans de ma vie, Librairie Félix Juven, Paris 1908, p. 202.
7 R. Canudo, L’officina delle immagini, Edizioni di Bianco e Nero, Roma 1966, p. 90.
8 F. Nietzsche, La visione dionisiaca del mondo, in Opere, III, 2, p. 71.
9 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, in Opere, III, 1, p. 33.
10 Ibidem.
11 Ivi, p. 9.
12 Ivi, p. 33.
13 Verso nuovi mari, in Gaia scienza, p. 408.