Rules and engagement
[…] Volendo davvero girare qualcosa come un documentario, bisogna rispondere alla domanda: “Le persone nel film sanno che c’è una macchina da presa?”, poiché non c’è mai stato un film in cui la gente non se ne rendesse conto. La cosa diventa complicata. Se c’è una scena di dialogo, le persone devono guardare la mdp e parlare ad essa? Il cameraman deve comparire in scena? A esser cattivi, si deve esigere che in ogni documentario gli attori parlino all’operatore o gli dicano di andarsene etc. – È meglio allora che la mdp sia una specie di occhio magico. Nessuno sa come è arrivata lì, non ha importanza”. La voce di Cate Blanchett è più fredda che carezzevole, più inconsapevole che improvvisata, più improvvisata che vissuta, posto che vogliamo ancora permetterci che le due cose non coincidano. Cosa ci fa in sala o a casa nostra o d’altri questa voce quasi seduta, il cui disagio è dato solo da una lievissima ombra di vergogna. Cate Blanchett, l’ennesima bionda degli ultimi Malick, è il vero enigma, o è l’enigma più probabile, che siede accanto a noi sfiorandoci ogni tanto la gamba. In Loznitsa l’effetto già rosselliniano pesciolini in un acquario si riferisce a una situazione quasi ad hoc, talmente ad hoc da apparire naturale. Entrambe le situazioni segnate dall’illusione del nuovo occhio, anche rudimentalissimo (Loznitsa), o comunque quella di un pa-droneggiare questo occhio che invece se ne va, e l’ombra di quest’occhio, solo accennata dalla voce di Cate, non è in effetti meno conquistata e imposta di quella della situazione semplicissima del campo. È nel campo della complicazione l’uno dell’altro che i due film immaginano di planare e di fermarsi a comando. Fatto sta che l’uno svolge il tema dell’altro, avvicinandosi o allontanandosi dal fuoco che non c’è, e lasciando platealmente solo l’ombra dell’umano. “[…] La distruzione di questo pianeta sarebbe insignificante, in prospettiva cosmica: per un osservatore sito nella nebulosa di Andromeda, il segno della nostra estinzione non sarebbe più appariscente di un fiammifero che si accende per un secondo nel cielo; se quel fiammifero fiammeggerà nel buio, non ci sarà nessuno a piangere una razza che usò il potere che avrebbe potuto mandare un segnale di luce verso le stelle per illuminare la sua pira di morte”. L’arcobaleno della verità. Non so se si dorme perchè dormivo. Voyage of Time. Bellissimo film disneyanamente dormiente, che dopo avere roso il sopralluogo torna ai Giorni del cielo e introduce il cinema, e il cinema-cinema sono i dinosaurini che a loro volta sgretolano l’idillio digitale e introducono il dubbio. Sono una briciola di digitale che mente per essere, uno spazio in cui l’economia del desiderio lambisce l’economia. Certo è più facile filmare un acquario da casa, però bisogna arrivare agli abissi. Se si vedesse a un certo punto la mano della Macchina ammazzacattivi che prende per la collottola uno dei due dinosauri e dice questa è la materia di cui sono fatti i sogni. A ciascuno il suo acquario. Il nodo è la scimmiottatura preistorico-umana, con la misura che ha sempre Malick, che al solito lo porta a esagerare per semplicità. In questo senso è il suo film più sul cinema, lo ha fatto sulla lirica sul volo sugli occhi sulle sovrimpressioni, ma non con questo confrontarsi direttamente a suon di dinosauri con la storia del cinema, con la storia nel cinema, con la sua stessa storia come storia del cinema. Consegnando a un cinema impotente l’idea di un cinema. Pacem in terrys. Quanto all’atteggiamento sempre più candido e turpemente ingannatore di Malick, una voce che arriva non si sa se per far nascere o per perdere, mentre Loznitsa sta lì, ad autodenunciarsi teleobiettivo. Mentre nella sacrosantità di Malick c’è uno scivolamento avanti e indietro del senso/direzione delle immagini verso un possibile vedente (spettatore bionico? bah). È la sua esperienza interiore, l’immagine organo esterno, niente Lascaux né nel senso di Herzog, né nel senso di Bataille. Per essere di Malick è il suo film più strutturato, tutti i film fino a The Knight of Cups sono immersi in una libertà difficilmente libera, questo non è un film facile è un film ermetico, non è girato da una sola persona, c’è una pluralità non riconosciuta, non conclamata. Loznitsa è portatore (in)sano di filmabilità a basso costo con dispendio solo fisico di chi la fa. Malick è il film meno mistico dei suoi e Loznitsa ha problemi di dimensioni (di rispettare le regole del gioco), sarebbe dovuto durare quattro ore. Arbeit macht frei (è il vero illegibile titolo di Malick). The New World è il primo film suo di invenzione dello spazio, Voyage of time è in realtà il viaggio del cinema, mutilato dello spazio in quanto dicibile, unica parafrasi accettabile di 2001: A Space Odissey. Malick si può occupare del tempo, cioè di quel che il cinema non è. È come se avesse sul tavolo lo stato della materia in diverse situazioni, disiecta membra. In effetti Tree of life non è la condensazione che si è creduta, è situazionista, chi lo svilisce si butta sui resti che è, e usa le stesse parole che si usavano per Francesco Giullare di Dio e Europa ‘51, sermone… Loznitsa ha questo scarto fra l’importanza della cosa (ecco perché Austerlitz…), fra la ponderosità della situazione e tutto il film che guarda in macchina, è il film-cinema contro cui va a sbattere l’occhio dello spettattore, in questo caso è a suo modo limitato, semplice come una macchina celibe, quindi cinema. Arbeit macht frei (cosa fai Hal? Hal… Hal… Hal…)