"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

INTERZONE – David Bowie

Thursday, 30 March 2017 08:07

  

 

 

Demented Burrocacao

Forse neanche è esistito

 

Mi si chiede di scrivere di Bowie in maniera che non si sia già scritta prima, o quantomeno di vederlo da una prospettiva differente dal “lui era la star, io il suo fan”. È una sfida molto interessante, e mi accingo ad accettarla semplicemente…non scrivendo di Bowie. Scriverò infatti di me che divento Bowie, principalmente guardando i suoi video. Che sono brulicanti di poteri magici, radioattivi, mutanti.

 

david bowieIn che senso? Beh, semplicemente mettendogli gli occhi addosso, il carisma e quell’alone stregonesco del nostro David hanno da sempre avuto su di me l’effetto che guardando lui stavo invece guardando me. Che quando osservavo i video, io ero al posto suo perché, non si sa come, riusciva a tirare fuori dal mio intimo la volontà di potenza delle rockstar, che poi in realtà è il mito dell’uomo che si fa demiurgo del suo destino e della sua ispirazione, costi quel che costi. Che alla fine, siamo tutti speciali, incredibilmente belli, e soprattutto inafferrabili anche a noi stessi. Ecco perché alla vista del primo video del nostro che riuscì a colpire le mie cornee, alla tenera età di 7/8 anni, mi resi conto che il mondo non era solo quello che mi raccontava l’educazione scolastica (per dirne una): ma esisteva anche una zona in cui la follia era incanalata in maniera provvidenziale, in cui gli uomini si baciavano in bocca, in cui si indossavano maschere antigas senza un motivo preciso, ma nonostante questo sembrava un perfetto manifesto di intenzioni della generazione che stava per venire fuori: ovvero la mia. Bowie non era in grado di essere giovane, ovvio: scimmiottava quello che avrei fatto io di lì a poco, quello che avremmo fatto noi adolescenti del futuro nel tentativo di barcamenarci fra rifiuti tossici dell’aria e della mente. Strano a dirsi, eravamo noi ad avergli dato l’idea, come se si fosse fatto un giretto in una macchina del tempo e poi fosse ritornato indietro a raccontarci la contemporaneità perché noi potessimo essere pronti una volta arrivati. Secondo video fondamentale per la mia crescita, ecco qua Blue Jean. Brano sottovalutato, anno 1984, album correlato ancora più affossato da una critica impietosa. Ma la storia dello sfigato che a un certo punto vede il suo alter ego figo suonare live, e catturare il cuore della sua ragazzetta (che ovviamente ama la star che poi lui stesso è senza saperlo) in qualche modo smuoveva il terreno del riscatto collettivo: dentro ognuno di noi alberga un gemello vincente, la bomba pronta a esplodere, l’idea decisa a spaccare. Qualsiasi brutto anatroccolo lo è solo per miopia, e se non è la realtà a coprirci di oro lo sarà un make up. Per un adolescente alle prime armi, un video del genere dava speranza e forza ad affrontare qualsiasi tipo di sgambetto della vita, adattandosi ad essa alla bisogna facendo se necessario una chirurgia estetica della mente. Vita che, come nel video di This Is Not America, può essere molto pesante: immagini che unite ad un brano che definire intenso - per quanto infarcito di melodramma a volte volutamente eccessivo - è poco, portano a trascendere il film dal quale sono tratte e a proiettarti subito nell’idea della lotta per la sopravvivenza. Non sarà facile, ma nessuno aveva detto che lo sarebbe stato: infatti anche nel video di Ashes To Ashes, a un implume ragazzino come me venivano impartite lezioni di psichiatria in scatola, “desideri e speranze in confezione spray”, come diceva Renato che di Bowie era imbevuto da cima a fondo (anche se, non a caso, lui dice che Bowie è invece lo Zero inglese!). Il Pierrot malinconico che cammina per la spiaggia col suo codazzo di spettri e una scavatrice, una figura in fondo smarrita che si ritrova a parlare con la vecchia madre, è la psiche di cui non fanno cenno sui banchi di scuola, una cosa che meno si conosce meglio è per il potere, che è pronto a manipolare tutto sulla base dell’ignoranza altrui. Logico che Bowie fosse una scheggia impazzita da questo punto di vista, forse si fa anche autocritica in questo gioco del dire/non dire, sapere/non sapere, essere/non essere: la gente che idolatra il video - peraltro eccezionale - di Blackstar, forse dimentica che molto prima con il clip di Jump They Say il nostro David aveva già mandato segnali di triplicamento della personalità al di fuori del discorso ludico del glam, e cenni di esorcismi da fine del mondo colla messa in scena del suicidio del fratellastro. Operazione in effetti shockante già dalla sua concezione di partenza, ma in fondo necessaria. Ognuno di noi sa che è in bilico su quel palazzo, e cadere giù in fondo non è altro che vivere, poi si traggano le conseguenze se si tratti di immagine o di sottotesto visivo (ma in fondo il nostro occhio è sensibile solo se l’anima è accesa). La confusione è un aspetto della conoscenza del mondo, non a caso anche nel video di Heart Filthy Lesson, va a finire che Bowie mette in scena dei rituali apparentemente privi di significato, fra le performance sanguinose stile azionismo viennese e i rigurgiti industrial del periodo, che però sono intrisi di una teatralità che li smonta alla radice dalle loro pretese iperrealiste. Ma non era lo stesso Bowie a portarci molto prima l’idea della violenza come volgare teatrino quando, con i Tin Machine, in mezzo a gabbie e altre poco rassicuranti amenità col video di Under The God si scagliava contro i nazi di cui molte malelingue dicevano lui facesse parte? Non si tratta forse di spettacolarizzazione della violenza allo scopo di neutralizzarla quando il nostro si veste di pelle nera e, in un programma Rai di fine anni settanta, in pieno periodo Heroes, suona la scala cromatica di Sense of doubt in un’aria di minaccioso vuoto? Parliamo forse di un modo stile l’altra parte di Alfred Kubin? Forse: tutto quello che succedeva era che, appunto, io rivedevo tirate fuori dal baule del mio proprio essere tutta una serie di cose rimosse, ficcate sotto il tappeto, appena annusate nelle mie notti agitate in cameretta. Alla fine, Bowie è una cartina da tornasole che forse neanche è esistito. Un collage di personalità micidiali come Klaus Nomi, Amanda Lear, Cherry Vanilla, come fa ad esistere veramente? Potremmo continuare, perché la teoria del camaleonte - animale che esiste, invece… e guarda anche dietro le sue spalle - applicata a Bowie funziona poco: Bowie è sempre lui, cambiano gli altri attorno a lui, dietro le spalle guarda poco. Semmai non guarda altro che per aria, alla ricerca di qualcosa che non sia né avanti né indietro ma abbia la forma di una psicomagia. Wharol in questo gli è stato maestro, famoso per aver spremuto i suoi sottoposti fino all’ultima goccia: molti infatti accusano anche David di aver fregato idee a destra a manca, cose a volte comprovate dai fatti (ma ora non abbiamo voglia di fare il compitino di elencare chi e cosa). Ma non c’è stata la stessa vampirizzazione forse, e il motivo lo troviamo ora che non abita più su questa terra. Bowie continua a tirare fuori video, e la cosa è allucinante se ci pensate. Non è più vivo, ma non lo era neanche nell’ultimo periodo pre-uscita di Blackstar, quando in pratica ci narrava del suo calvario di dead man walking. Ci confondiamo persino se parlare di lui al presente o al passato, come potete leggere. Ebbene, da consumato attore quale era, riesce a bucare il video anche senza esistere. Il 21 aprile infatti sembra che uscirà finalmente in vinile quello che forse è l’ultimo atto, ovvero No Plan, che era già stato diffuso nei vari formati digitali: per promuovere i quali, il video di rito non vede affatto Bowie. Ma Bowie si sente, si percepisce nei pixel. Può esserci o non esserci ma resta uno spirito che attraversa le onde della nostra immaginazione, ci fa vedere quello che non c’è e non ci fa vedere quello che c’è, altrimenti si vedrebbe davvero qualcosa. In fondo meglio così, perché appunto, ora Bowie è lo specchio in purezza delle nostre anime, fuori e dentro i corpi. Siamo tutti Bowie, siamo tutti insondabili. E Major Tom, quello si, è un drogato: dobbiamo farci i conti.

 

 

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