"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

PLANS FROM OUTER SPACE 3 – The Deserted (Tsai Ming-liang VR)

Sunday, 26 November 2017 12:36

Lorenzo Esposito

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi 

 

Siamo ancora dalle parti di Afternoon. The Deserted riparte da qui. Il set è la stessa fila di edifici abbandonati diroccati bucati senza finestre immersi e circondati da valli e foreste acquitrinose. Ammassi umidi di calcinacci, brecce che spalancano orizzonti al centro di pareti ammuffite svettanti su neri abissi.. Eppure qualcosa è cambiato. Tsai Ming-liang gira The Deserted in VR. Tuttavia la materia è talmente fisica e talmente legata alla fisica disincarnata del cineasta di Taiwan che anche la definizione di Realtà Virtuale (ci si siede in una sala di un isolotto-eremo a due passi dai luoghi soliti del Festival di Venezia e solo dopo aver indossato un particolare casco con il suo visore cominciamo ad aleggiare all’interno del mondo liquido e cavo appena descritto) sembra in qualche modo e di primo acchito non darne completamente ragione o soltanto indicarne la mimesi.

Certo, più ancora di sempre la spettralizzazione è totale, non riguarda più solo i corpi nell’immagine (i quali a loro volta vengono privati di uno schermo su cui incamminarsi, dunque diventano parte di uno sfondamento dello spazio insieme liminare e assoluto), ma la consistenza (e la coesistenza) stessa del cosiddetto spettatore. Se l’immagine stringe se stessa in un assedio cubico, la posizione dello spettatore, che dovrebbe aleggiare folle e libero fra i volumi (e in effetti questo avviene, ma come avvengono le illusioni, come si ascoltavano le favole da bambini..), è paradossalmente sottoposta a un disarcionamento siderale, invero bellissimo mancar la terra sotto i piedi, cui, ecco il punto, non corrisponde un autentico senso tattile superiore, un’aderenza amniotica all’immagine, ma stranamente l’indecifrarsi dei tratti da un lato e un’affascinante spinta contraria simile a un allontanamento dall’altro. Al punto da chiedersi se la realtà del virtuale non sia questa visione a occhio nudo dei processi interni che un cineasta compie per trovare la distanza giusta. Non si sta più solo nel punto di visione, ma continuamente in bilico fra il prima e il dopo, parte integrante dell’elastico stellare che è il pensiero (sistema peraltro che Tsai Ming-liang decide di complicare mantenendo intatti come nuclei di partenza la frontalità del punto di osservazione e, nel corso del viaggio, insistendo su attacchi di montaggio addirittura classici, in un processo di straniamento più unico che raro).

La prima inquadratura mostra Lee Kang-sheng su un divano, vittima dei suoi leggendari problemi alla schiena e al collo (The River..), che regola con le dita una sorta di macchinetta elettrica che lo punzecchia sulle spalle per mezzo di piccole terminazioni nervose. Sulla destra la grande attrice Lu Yi-Ching (la madre in molti film di Tsai Ming-liang) sta cucinando e bollendo qualcosa sui fornelli di un angolo cucina. Sul fondo, oltre le mura scrostate e bagnate e il grande varco di cui sono cornice, verdeggia la foresta. L’impressione è quella di trovarsi in un abisso o, di nuovo, nel fondo di un acquario (acqua pioggia umidità muffa riflessi). Ma siamo in un’esperienza di Realtà Virtuale e dunque il visitatore (non chiamiamolo più spettatore) può cambiare il proprio punto di vista e per esempio guardarsi alle spalle, oppure auto-dronizzarsi con panoramiche palmo a palmo del pavimento o del soffitto: ecco allora l’inizio di un corridoio, alte mura grondanti liquidi, strapiombi, anditi neri, scorci di foresta, figure anfibie quasi ancestrali…

Da qui in poi, come anticipato, ogni singola scena-inquadratura ci pone al centro dell’azione (pur con differenti posizionamenti all'interno delle stanze): ma il fatto è che il viaggiatore virtuale può decidere di non guardare. Letteralmente. Non guardare guardando altrove. Virtuale significa e finanche avvicina l’invisibile? Forse. Intanto implica, dato l’aggiornamento difficile della tecnica in questione rispetto alla morbida intensità della pupilla, un vero e proprio accecamento. L’occhio, cui il casco dona l’onnipotenza di una visione a trecentosessanta gradi, è in realtà costretto a uno sforzo continuo di messa a fuoco e di abitudine ai salti nel vuoto e alle oscillazioni abissali di prospettiva. Scordatevi di poter cogliere i tratti dei volti o la precisione dei dettagli; accettate la vostra nuova vita grandangolare e concentratevi a camminare liquidi lo spazio… (il titolo inglese The Deserted è fin troppo preciso nel nominare questa complessa desertificazione della visione tutta).

Nella scena successiva vediamo Lu Yi-Ching aggirarsi in un piccolo orto, mentre Lee Kang-sheng si prende cura delle piante. Tutto intorno una giungla di alberi e colori: verde, rosso, blu. Poi Lu Yi-Ching lascia la casa, la si vede camminare in strada e scomparire, ma alle nostre spalle c’è già un’altra donna più giovane vestita di bianco che da altri palazzi spellati osserva la strada dall’altro lato. Da questo momento in poi Lee Kang-sheng rimane solo in una sorta di dimensione parallela (non diremo virtuale per ciò che attiene al narrativo), un quasi-sogno dove la giovane donna sembra prendere il posto della madre, si aggira come un fantasma nelle stanze vuote, siede allungandosi sulle mura mentre una rana le striscia sul vestito, fa sesso con Lee Kang-sheng in una grande vasca battuta dalla pioggia e dove Lee galleggia nudo giocando con un grande pesce (o il pesce diventa la ragazza?). I due si baciano e lentamente spariscono nel fondo come ombre d’acqua. Se state guardando questa scena o se volete non guardarla sappiate che intorno a voi e alle vostre spalle le mura a strapiombo e la foresta giganteggiano. Poi. Lee e la ragazza sono sdraiati su un materasso. Cominciano a ridere. Lei si alza e lascia la stanza sempre ridendo. Disperata. Di nuovo Lee resta solo, non smette mai di ridere. Disperato. Di nuovo nell’altro lato della stanza grandi buchi sostituiscono le finestre e mostrano la vegetazione esterna. Poi. Ultima inquadratura. La stessa stanza dell’inizio, ma stavolta siamo fuori sul terrazzo e guardiamo dentro (ecco, guardarsi dentro sarebbe forse il più preciso atto virtuale..). Lee sta cucinando e si siede a mangiare. Dietro di noi scende una notte calma a proteggere gli alberi, le foglie. Parte una canzone, “Passion eyes”, titolo forse più giusto per questo strano caso di Realtà Virtuale. Mentre invece il titolo originale del ‘film’ è La casa al tempio Lan Re, che è semplicemente l’indirizzo di questi edifici in rovina in campagna che ospitano il regista e il suo attore feticcio sperduti nel buio, malati o convalescenti dopo misteriose malattie fluide che scorrono e li avvelenano come le acque che colano sui muri e che proprio sembrano mimare un insondabile allontanamento da se stessi, una crepa nel corpo e negli occhi, forse addirittura nell’idea stessa del vedersi, del concepirsi come umani sulla terra. Che non a caso è anche un modo sensato per descrivere la visione virtuale: guardo allontanandomi da me, dove la distanza prodotta è al tempo stesso paradosso malinconico dell’illusione di controllo o sogno di visione a trecentosessantagradi.

Umano e disumano sono d’altra parte da sempre i due poli in combustione del cinema di Tsai Ming-liang. Col casco VR che ti fa sparire in quanto corpo e vorrebbe farti credere che sei finalmente puro sguardo (ammesso e non concesso che lo sguardo abbia a che fare con la purezza), su quale dei due poli davvero galleggi? Tutta questa apparente libertà di movimento così vicina e così lontana dalle cose è forse una mossa suicida, o comunque il sacrificio necessario e non-più-schermico per avvicinarsi pericolosamente a un’idea di morte (o forse solo l’idea che ne ha Tsai Ming-liang). Lo schermo in fondo protegge, invita alla contemplazione, venendo a mancare viene a mancare il tempo e si piomba nel vuoto pienissimo del puro spazio (The Walker, l’altro progetto di Tsai Ming-liang legato a questa idea di lenta inesorabile sparizione del sé in sé, va nella medesima direzione). Così se la domanda solo pochi anni fa era stata fare o non più fare cinema, ora tutto passa per un abbandono che coincide con una reincarnazione. Te ne vai, lasci tutto e sarà il tutto (la malattia?) a trovarti. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.

 

 

 

 

Una versione completamente differente di questo testo è apparsa su Nazione Indiana (www.nazioneindiana.com) il 5 settembre 2017.

 

 

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