Darkavatarpassage. Un’incarnazione
La sai una cosa? Sei un bravo ragazzo, come donna!
(Robert Mitchum in Angel Face di Otto Preminger)
Qual è l’origine di un corpo? Una domanda che fa il paio con quella, spinoziana, che si poneva Gilles Deleuze: che cosa può un corpo? Genesi II: 18:, a proposito di origine delle immagini, dei corpi a immagine di, ci racconta “Allora Jahweh-Elohim fece cadere un sonno profondo sull’uomo, che si addormentò, poi gli tolse una delle coste e richiuse la carne al suo posto. E Jahweh-Elohim costruì la costa, che aveva tolto all’uomo, formandone una donna. Poi la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse. ‘Questa volta è osso delle mie ossa e carne della mia carne! Costei si chiamerà donna, perchè dall’uomo fu tratta costei’[…] e di due diventano una sola carne. Or ambedue erano nudi, l’uomo e la sua donna, ma non sentivano mutua vergogna” Ora che cosa è un corpo al cinema, un corpo che guarda ab imago, se non un corpo che agisce uno stato di sonno-sogno? E qual è quella potenza se non quella della tenuta dei corpi lungo un tragitto mentale? I corpi filmici hanno una tenuta spettrale, sensibile e originano e si destinano nell’atto stesso della loro esposizione, della loro assegnazione. Appunto The Assignment è il titolo originale di Nemesi di Walter Hill (e pure di un processo nemesiaco, mnestico, una anamnesi che procura un ritorno dell’immagine su di sé, incorporandosi e scorporandosi, si tratta nel film): il corpo, e il destino androginico (l’origine in una sola carne di uomo e donna) di Frankie, viene allo stesso tempo mostrato, esposto, confessato, ricordato, raccontato, agito dalla dottoressa Rachel Jane, in modo tale da trasferire (e ‘transfert’ è il nome analitico che viene assegnato dallo psichiatra all’esporsi delle tracce mnestiche del racconto della dottoressa), senza tagli ma appunto con un trascinamento orizzontale delle immagini, i corpi l’uno nell’altro, facendoli scivolare in una serie di dimensioni delle immagini. L’innocenza e insieme l’origine di una colpa sottostà al film nella tipica dicotomia del noir (essere innocenti e perseguitati, essere colpevoli e al contempo presi in una spirale di redenzione). Ma, ci dice Hill, le stesse immagini sono innocenti e colpevoli, a seconda di come le si immagina. L’origine biblica dice che, a seguito della bifida e serpentina seduzione mortale (è questo il titolo italiano del noir premingeriano, scritto quasi sul set le notti prima di girare, Angel Face, 1952, che non è senza punti di contatto con il film di Hill, a cominciare dalla somiglianza della bellezza bruna di Jean Simmons con quella di Michelle Rodriguez alla presenza dei comprimari cinesi, dalla pulsione della confessione della colpa e del delitto da parte della protagonista Diane al circuito della seduzione, dal ruolo dell’infermiere-Mitchum alla fuga distruttiva verso il Messico, alla stessa nemesi ripetuta) i corpi originari videro, e si videro (nella loro nudità, nuda vita, ed il vedersi e mostrarsi dei corpi nudi e dissimulanti la sessuazione, nella doppia cesura, davanti allo specchio, è insistito con forza simbolica nel film, come accade nei due Carlo, uomodonna, in Petrolio di Pasolini). È appunto su un occhio che si dischiude per vedere una luce (di una lampadina), l’occhio sotto le bende mummificanti di una metamorfosi, ed è appunto lungo due cordoni intrecciati come quelli dei due serpenti intorno al caduceo ermetico in cui la camera scivola a vedere la luce della lampadina, che il film ha inizio. E l’inizio, uroboricamente, si congiunge con la fine per dare luogo a un processo di ri-assegnazione dei corpi. Da un lato il chirurgo-lucido-folle intrattiene un lungo dialogo che è precisamente il processo ricostruttivo dei corpi e delle immagini. Lo psichiatra sembra coprire la funzione di testimone-spettatore di una esposizione-deposizione-confessione che riguarda proprio il destino, e l’origine, e la potenza dell’immaginare (e palingeneticamente generare, rigenerare, incarnare, trasformare) l’immagine-corpo. Indecidibile, come è necessario, resta l’assegnazione di quel processo di ri-attribuzione del corpo sessuato, che nello stesso tempo dribbla l’assegnazione di genere e di identità. Killer potente, legato al feticcio-pistola, Frankie Kitchen ci si presenta allo sguardo già come una immagine ibrida nel suo originarsi, nel suo riprendere vita e insieme assegnare la morte, e nel suo morire-rinascere.
Somiglia infatti a un famoso quadro del Ribera-Spagnoletto: la donna con la barba scura che tiene un bambino allattante ai seni prominenti. La sua trasformazione, come quella mitica di Salmace in ermafrodito, avviene uscendo, crisalide di carne, dalle bende di quella similmummia che (diceva Bazin) è il generarsi filmico. Il corpo flessuoso, e altrettanto potente, della nuova donna, nata insieme alla sua carne, ci appare come l’incarnazione del corpo filmico, la sua consustanzialità di carne e ombra, di corporalità e fantasmaticità. Il sentire e l’immaginare maschile si incarna senza soluzione di continuità con il gestire e il palpitare femminile (come in Switch di Blake Edwards ) e si riversa nel rapporto delicato e insieme disperato con la ragazza bionda che ha un nome maschile: Johnnie (e qui il rimando è allo stesso Hill di un film del 1989 come Johnny handsome, dove un Rourke sfigurato si fa ricostruire il volto chirurgicamente per agire a sua volta una nemesi). Si tratta allora di riconoscimento-misconoscimento, lacanianamente di una messa in questione del soggetto e insieme del tendere desiderante all’oggetto mancante, all’oggetto-a, cioè all’immagine perduta. In questo senso radicale Hill pensa a un prototipo estremo, Dark Passage il film del 1947 di Delmer Daves che (molto più azzardatamente e lucidamente di Lady in the Lake di Robert Montgomery) era proprio al processo ricostruttivo dell’immagine-nemesi, cioè di un imago-volto capace di ritornare e di vedersi come destino di risarcimento che si richiamava (“una chirurgia plastica come in quei vecchi film di una volta” dice una battuta). Bogart avvolto da bende ci offre l’occhio, si espone nascondendosi, ritrae se stesso sottraendosi alla vista e poi consegnando il proprio volto ricostruito oltre la metà del film, nello specchiarsi iconico, dopo un tragitto in soggettiva atto a ricostruire l’immagine stessa. Di un passaggio, e quindi di una passio, oscuro si tratta: Frankie compie una sorta di calvario palingenetico, sottoposto alla presa e alla tenuta di chi lo sta immaginando. Lungo i bassifondi metropolitani (come nel film di Daves) si compie la nemesi, l’assegnazione e la partizione sensibile (direbbe Ranciére) delle immagini e dell’immagine-corpo di Frankie che tracima in un raddoppiamento-sdoppiamento dello stesso trucco, dell’abito, del mascheramento (i pantaloni, l’abito femminile, la parrucca bionda e soprattutto la maschera-bautta dorata che indossa due volte, doppio sogno a occhi chiusi-aperti che lo scompone e ricompone). “Dio ti ha dato una faccia e tu ti mascheri” è la battuta shakespeariana che viene citata (e certo Shakespeare, a parte il riferimento esplicito a Riccardo II, è alluso segretamente nella dicotomia/identificazione androginica della Dama Bruna e del Bel Giovane dei Sonetti, così come nel nominare Sebastian il fratello perduto della dottoressa Rachel, endiadi ermafrodita e sororale entro cui tutto sembra aver inizio, con lo stesso nome del fratello gemello perduto e ritrovato nella Dodicesima Notte). Che tutto questo assegnare corpi e nomi (come Adamo nel Paradiso Terrestre, in assenza di Eva, ma in presenza con la sua filogenesi animica e animale) tenga il luogo di una teoria filmica (anche nel senso di muovere lo sguardo, theoamai, vedere intensamente) appare evidente, così come la citazione della Filosofia della composizione di Edgar Allan Poe. Tutto sembra avere la necessità e possibilità di un teorema, salvo che la soluzione è indecidibile. Se una certa misteriosofia, come dimostra Zolla in L’amante invisibile, dispiegava sciamanicamente la possibilità di sognare il corpo amato e di attribuirvi incarnazione, cioè di generare con la mente e l’immaginazione forte una forma corporea cui l’amore in sonno assegna carne e sangue e apparenza sensibile, qui sembra appunto che la figura gnostica del creatore secondo, di un demiurgo (la cui versione moderna è lo scienziato “savant”, lo “scultore di corpi”, il doctor Frankenstein, il novello Prometeo che pretende di dare corpo a creature di sogno) lungo l’intero film si alleni (e insieme si esponga e confessi) a immaginare Frankie, la cui esistenza reclama l’origine e il cui non esistere si incontra con la forza delle immagini e con la potenza del cinema che per necessità lo fa esistere. In ciò la stessa scelta da parte di Hill di Sigourney Weaver e del suo corpo mascolino (la cui potenza muliebre si scatenava nell’Aliens cameroniano transessualmente) e della Rodriguez, si dirige verso Avatar di Cameron. E non a caso, dato che alla base di quel film c’è appunto l’idea di un trasferimento di corpi, e di una loro messa in potenza, e insieme il dispiegamento dell’empatia con l’origine, con l’originarsi, con il generare di un Eden che ogni attimo può essere perduto e ritrovato, e dato che la fonte-allusione letteraria del film di Cameron è un racconto di Teophile Gautier dove appunto di doppio rigenerato in stato di sonno e immaginazione, come nel precedente Spirite sempre di Gautier, e cioè di ri-assegnazione incarnata del corpo come corpo glorioso, corpo potente, corpo ultrafanico (e al limite “corpo-senza-organi” come quello preconizzato da Artaud) si tratta. La figura del doppio, accanto a quella dell’androgino (androginia shakespearianamente teatrale e insieme neoplatonica), è ciò che di Poe insiste esplicitamente nel film (già nel suo lontano L’eroe della strada, Hill omaggiava Poe, e l’allucinazione alcoolica, assegnando il nome di “Poe” a un personaggio chiave, portatore di quella istanza visionaria), l’idea appunto di “elisione” dell’io e del soggetto, di nullificazione dell’identità (qui trova luogo nel film la scritta “Mai Più”, cioè il grido del Corvo poeiano: Nevermore). Lo statuto stesso dell’immagine-corpo viene messo così in azione nel film. È un processo alchemico di trasmutazione “al fuoco delle immagini”: “vediamo cosa succede se alzo un po’ la fiamma” dice da apprendista stregone lo psichiatra. Viene messo in campo, scivolando tra le immagini, l’occultazione-disvelamento del corpo-immagine nel farsi stesso del film, del suo esporsi e confessarsi sotto gli occhi dello spettatore (come accade analogamente nel James Toback ultimo di The Private Life of A Modern Woman ), con la forza incarnativa che ha sempre avuto il cinema classico. Un setting che si dipana (anche nel passaggio tra colore e bianconero), come nei classici, tra chiusura e dischiusura (“clao” chiudere è del classico, così come lo è la dischiusura segreta delle immagini, come si vede nel trattamento dei corpi, e della loro tenuta-metamorfosi, in Eastwood e in Cronenberg, ma come si percepiva in un cineasta che sta al cinema degli anni 40-50 come Hill sta a quello degli anni 70-80, e che non a caso si riassegna e rigenera oggi, Edgar G. Ulmer), un imbricarsi dello sguardo scopico e delle superfici schermiche, nella loro tersa trasparenza e insieme nella loro ambiguità, dal momento in cui Frankie uomodonna si riprende, inquadrandosi in bianconero, come in uno specchio. E verso quell’immagine allo specchio si punta la pistola, immagine assegnata al volto riflesso, allo stesso cinema, appunto alle sue origini, come nel film di Porter. Quelle vasche finali entro cui si immergono i corpi (palingenesi e rivivificazione e veggenza come in Minority Report di Spielberg e in La vie est un roman di Resnais) sono allora il crogiolo del film e il mistero di quelle dita mozzate sono l’arto fantasma con cui si possono ancora toccare le immagini: per rifare i corpi.