"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
’77 No Commercial Use di Luis Fulvio non è un film sul ’77. È un film letterario e non letterale. È un corpo a corpo continuo e continuamente a rischio con immagini materiali pagine e pezzi di vita, che lucidamente e inevitabilmente sceglie l’autobiografia come margine aperto e incerto per valicare confini temporali e paludamenti d’ogni tipo (archivistici documentaristici politici). Come si dice in altra parte di questo numero riguardo a Ready Player One e al suo mirabolante gioco di memorabilia, non ha alcun senso enumerare tutte le presenze, di cinema e non, che popolano il film, essendo esse stesse rigorosamente anti-citazioniste, e piuttosto tese a interrogarsi sul farsi stesso del cinema come eterno e mutante presente. ’77 No Commercial Use anzi è in questo senso il Ready Player One di Luis Fulvio (così come si è detto che Ready Player One è l’Histoire(s) du cinéma di Spielberg): un unico supersonico auto-ritratto, cioè un documentario sul mutarsi del proprio volto attraverso le variazioni infinite dei volti altrui (impossibile ritenere casuale la data di Incontri ravvicinati del terzo tipo, che infatti barbagliano in qualche punto del film). Se poi, fra gli altri, appare Carmelo Bene (nella sua infuocata incursione in e con Majakovskij), questo può solo indirizzarci a immaginare l’ampiezza immaginaria dell’autobiografia stessa. Immaginaria tanto quanto la storia sembra aver abbandonato nell’oblio l’anno in questione, al punto da far sembrare a più riprese fatti e persone di questa mina vagante rivoluzionaria durata due mesi appena e capace di situarsi come l’ultima esperienza rivoluzionaria in Italia e in Europa, quasi una fantasia. Il ’77 è sparito. Il ’77 non è mai esistito. Si parte da qui (salvo che 1977 è anche la data di nascita del regista, che è vivo e lotta insieme a noi). Si parte da un cortocircuito di intensità che non hanno bisogno di dichiarare qualità grane formati e proprietà. Si ricerca un battito, una frequenza già allora insondabile, precipitazioni già allora inclassificabili. Dunque quel battito, quella frequenza, quell’attrito. È l’intuizione maggiore di Luis Fulvio, concentrarsi sul cinema prima di tutto, non sulle interpretazioni postume (pur fondamentali e tutte visibili nel film), ma sul montaggio come auto-rivoluzione, come maelstrom cine-tv-video-amatoriale-fotografico-letterario che riesploda al presente gli eventi di un anno passato a lottare col presente.
Contro l’oblio. Contro lo sterminio (di nuovo Godard). Altrimenti come raccontare un numero di vicende che ha quasi dell’imponderabile. Si tratta anzitutto di non essere didattici, cioè di esserlo rossellinianamente, ridire la storia di qualcosa che non trova soluzione (nel film il cubo di Rubik - data di messa in commercio ovviamente 1977 - è metafora lampante) continuando a porre domande. Ecco perché da una parte le immagini si accavallano e si rincorrono e si inghiottono senza soluzione di continuità, e dall’altra si profila una struttura cronologica (da gennaio a dicembre), che a sua volta implica da un lato uno studio preliminare giustamente ossessivo che dura una vita, e dall’altro la ripresa fisica dei materiali - libri, stralci, scritte, proclami, pubblicazioni militanti. Ci sono i libri e i muri delle città prima delle immagini. L’esatto contrario di tanto documentario domestico e addomesticato. Non è questione di reale o non reale, ma di filmare delle voci riportandole alla luce con la loro fisicità originaria, dunque con la loro cecità e la loro veggenza insieme (Blanchot?). Metodo sorprendente che, prima ancora del ’77, racconta l’epopea dello spettatore, compresa quella del filmmaker che cerca la distanza giusta di fronte alla mole prodigiosa di immagini e fatti che lo riguardano (di nuovo Spielberg). ’77 No Commercial Use è un film sull’ineffabilità delle cose, su ciò che nella vita è capace di incollarsi alla pelle e allo stesso modo di essere completamente dimenticato, su ciò che si vede e su ciò che sfugge, sui processi indefinibili e indefiniti della memoria. Quel che viene davvero filmato è l’impossibilità di storicizzarsi nel pieno degli eventi, il movimento tellurico che li fonda come unica realtà o quel che ne resta. Se un documentario è un documentario.