Alla ricerca dell’anima perduta
Arturo Lima
Che Paul Thomas Anderson sia un regista feticista è probabile non sia una novità, mentre la notizia è che lui per primo sembra infine essersi convinto a insistere su questa dimensione, l’unica apparentemente in grado di preservarlo dal macchinoso manierismo cui tuttavia continua a mostrarsi devoto (un esempio fra tanti equivocando del tutto la geniale ariosa ironia di Pynchon, scambiata per compatta e inestricabile struttura). A salvarlo invero è l’idea di un personaggio. Alma, giunta a mettere a soqquadro il lato inesorabilmente pomposo del cinema di Thomas Anderson, incarnato qui dall'impareggiabile e di impareggiabile freddezza tessitore di trame d’alta moda, Reynolds Woodcock, il sarto cui non dispiacerebbe cucire un vestito usando il corpo stesso della ragazza, enuclearlo punto a punto spillarlo e farne un pizzo pregiato di pregiatissima giovane pelle umana. Alter ego del cineasta, narciso insopportabile e convinto della bellezza delle sue vesti-immagini, al punto che intere sequenze che lo vedono protagonista assoluto (coadiuvate dal Daniel Day Lewis più barocco) hanno l’aria tipicamente imbolsita del Thomas Anderson che crede nell'assoluto della grande arte cinematografica, ricavandone la solita geometria naturalista che arriva a comprendere montaggio interno e movimenti di macchina, prosciugando qualunque possibilità di libertà filmica. Se non fosse per Alma. Nome per poco non palindromo, nome anima, anima del film che fa respirare inquadrature e danze di merletti altrimenti chiuse in se stesse, e che lentamente e inesorabilmente prende la scena, spoglia il film di quell'aria ridicola di capolavoro assoluto così come Reynolds tutte le volte che le appunta un vestito roboante in realtà sogna di spogliarla, lei nuda e libera, unica immagine autentica, mentre tutto intorno i vestiti o immagini-orpello finalmente bruciano fino a ridursi in cenere. Curioso meta-film perversamente autobiografico, conscio dell’impotenza a far cinema del regista stesso, che solo quando accetta una volta per tutte il suo fondamento sado-masochistico (non solo nel bel finale), può finalmente liberarsi e librare certi amori cinematografici che infine non si riducono agli usuali vuoti sfoggi. L’occhio di Scorsese del dimenticato lampo che fu Made in Milan (su Armani...), la girandola indimenticabile (qui intelligentemente declinata come atto mancato) dell’attacco di Max Ophüls Le plaisir. E poi ovviamente (dichiarati) Hitchcock Rebecca (su Vertigo qualche dubbio), certi gioiosi lustri anni cinquanta (Negulesco How to Merry a Millionaire). Poi chissà se certo lato gotico non si riferisca alla lontana a George Cukor Gaslight. Non pedisseque citazioni, ma vive ispirazioni. Come se Paul Thomas Anderson avesse finalmente trovato un po’ d’aria per sciogliersi dal giuramento della grande opera e avesse deciso di fare semplicemente un film (non a caso neppure scritto in solitudine, ma lavorato punto a punto con Daniel Day Lewis), intaccando dall’interno la sua stessa aura di presunta eleganza.