"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
I sogni e gli incubi nel cinema di Michel Gondry prendono forma simultaneamente. C’è proprio l’impossibilità di poterli filmare ma solo avvertire. Kidding, la serie tv trasmessa da Showtime e creata da Dave Holstein, dove Gondry ha diretto 8 episodi nelle due stagioni in cui è andata in onda (la terza è saltata per il basso share della seconda), non è soltanto la possibile sintesi tra Se mi lasci ti cancello e L’arte del sogno. Kidding porta inscritte in maniera esplicita le forme del mélo più diretto di Gondry, con tracce claustrofobiche che arrivano da Aldrich. Jeff Piccirillo/Mr. Pickles è una possibile reincarnazione al maschile di Baby Jane. La casa dove vivevano le due sorelle interpretate da Bette Davis e Joan Crawford è il set, lo stesso che nel cinema di Gondry è, contemporaneamente, prigione e rifugio. Ma anche il luogo ipnotico dove si possono raccontare, con tutta la libertà possibile, tutti gli amori e le illusioni. Dove i protagonisti, che possono apparire apparentemente come dei pupazzi manovrati dal suo creatore (lì c’è stato a suo tempo uno sbaglio di interpretazione critica proprio nell’associazione del cinema di Gondry con la scrittura di Kaufman), prendono invece una vita propria. In Kidding Mr. Pickles sfugge al controllo di Jeff. O anche Jeff da Mr. Pickles: Jim Carrey si sdoppia ancora una volta in una prova dove il suo personaggio, come Truman, come Andy Kaufman, come ancora Joel in Se mi lasci ti cancello, non riesce più a scindere il proprio passato dal presente. I ricordi diventano la sua trappola, proprio per il fatto che non possono essere più cancellati. Anche qui non ha età. È da tempo (dall’infanzia?) la star di un popolarissimo show per bambini. Canta e diffonde il suo sorriso contagioso. Poi c’è il trauma che manda tutto all’aria: la morte di uno dei due figli in un incidente d’auto. Non c’è più l’impossibilità di fuga. Il padre, interpretato da Frank Langella, è il produttore del programma dove lavora anche la sorella (Catherine Keener).
L’estasi del caos, in una serie tv come Kidding ha qualcosa di rivoluzionario. Innanzitutto perché Carrey la attraversa non come se la interpretasse ma proprio ci abitasse. Quasi una reincarnazione di Truman, dove sono gli affetti e la famiglia a generare una malata dipendenza da lui e a sopprimere in realtà ogni forma di desiderio. Eppure per l’attore statunitense i tempi delle serie sono qualcosa di raro nella sua carriera; era stato infatti protagonista all’inizio degli anni ’90 di una sketch-comedy In Living Color, per cinque stagioni. In Kidding ne restano dei residui, come le risate in studio. L’elasticità del suo corpo qui si immobilizza. Resta solo la smorfia sul viso. Infine, Gondry sembra lasciare il segno anche negli episodi che non ha diretto. La sua è un’identità tale che ha lasciato il segno in tutta la serie. Nel mostrare la famiglia di Jeff, entrano in gioco anche gli spettri. La sua famiglia viene gradualmente scoperta, in modo simile a quella della zia del cineasta mostrata nel documentario L’épine dans le coeur. Attraverso lo sguardo di Jeff si rintraccia la vita degli altri. La stessa da cui il protagonista viene estromesso. Spia dalla finestra l’altro appartamento dove vivono l’ex-moglie con il nuovo compagno e il figlio. Guarda il figlio al cimitero alla tomba del fratello. Ma sono distanti. Lui da una parte. Lei dall’altra. Nulla ha più senso. Né l’amore né la morte. Non vuole restare sé stesso e non riesce mai ad avere il coraggio di cambiare totalmente, come nell’immagine in cui si vuole rasare i capelli ma lascia solo il segno in mezzo alla testa. Anche Jeff/Mr.Pickles, come avviene spesso nei film di Gondry, ogni tanto però vola. Nella pista di pattinaggio, sulle note di Nino Rota di Amarcord. Si, tirando in ballo Fellini ogni tanto gli incubi possono diventare sogni. Si possono fabbricare come in L’arte del sogno ma anche Be Kind Rewind. Il cinema, la tv (chi se ne importa) è la materia. E viceversa. Già si vede nei titoli di testa. Per un po’quindi i sogni possono dare ossigeno, far esplodere il caos che è poi l’unico vero desiderio in Kidding. Quanto può durare?
Un road-movie con un’estetica vintage. Peter Farrelly (senza il fratello Bobby) verso gli anni ’80. In un decennio non attraversato dal suo/loro cinema. Apparentemente più controllato. In una strana, quasi sospettosa classicità nelle forme tradizionali della narrazione. Tratto da una storia vera, mostra il viaggio di un autista ex-buttafuori Tony Vallelonga e un pianista di talento Don Shirley che deve attraversare il paese per un suo tour. Tutto sospeso tra l’eccesso e la sottrazione già dal contrasto tra Viggo Mortensen, in un’altra mutazione cronenberghiana e Mahershala Ali, quasi una specie di spettro dopo Moonlight. In un cinema che si prende pause più lunghe rispetto al cinema di/dei Farrelly. Gli anni ’60 come potevano essere mostrati nel cinema statunitense di trent’anni fa. Quasi uno strano ibrido tra Norman Jewison, John Landis e John Hughes. Il contrasto bianco/nero di Una poltrona per due in sovrimpressione con Una pazza giornata di vacanza. Con le immagini della famiglia di Vallelonga, quasi riciclaggio di Stregata dalla luna. Ma Green Book è soprattutto un cinema di largo respiro. Capace di entrare nel ventre degli Stati Uniti. L’automobile come specchio del paese. Quasi altro sguardo, sovrapposto ma anche parallelo, in un cinema dove lo sguardo dei due protagonisti diventa già memoria. Le tracce della Storia prima dell’omicidio di John Kennedy. Ma anche squarci intimi sul proprio privato che si apre a un finale di prevedibile e grande intensità. Che rispetta quelle attese banali e grandiose della migliore recente commedia statunitense. Ma dove in questo attraversamento nelle forme del buddy movie, c’è un impeto politico che può apparire trattenuto e in realtà è impetuoso. Non c’è la rabbia contagiosa di Spike Lee di BlacKkKlansman. Al cinema di Farrelly non interessa costruirla con una musica incalzante che crea una sorta di sdoppiamento sensoriale tra quello che si sta vedendo e l’illusione impetuosa di deformare quell’immagine, di far saltare tutte le prospettive e mescolare i colori nel momento stesso in cui si sta guardando. Ed è determinante, per esempio, la scena nel ristorante di Birmingham, in Alabama, dove a Don viene impedito di cenare prima del concerto che deve tenere perché la sala è riservata solo ai bianchi. A quel punto Tony decide di far saltare l’esibizione che si terrà invece in un locale di afroamericani. Ancora Spike Lee. Dalle parti di Mo’ Better Blues. Senza scendere in una zona documentaristica. Quella scena diventa esplosiva proprio perché unisce elementi apparentemente semplici ma in magica combinazione: scrittura precisa, mai oppressiva (tra gli sceneggiatori c’è anche Nick Vallelonga, figlio di Tony assieme allo stesso Farrelly e Brian Hayes Currie), esibizione da film-concerto e soprattutto il piacere della narrazione. Esattamente quello che ha sempre attraversato il cinema dei Farrelly. Anche malgrado i suoi detrattori. Dove il demenziale diventava elemento futurista. Quasi di rottura. L’autista di Viggo Mortensen che copre ogni zona di vuoto con la parola è la reincarnazione di quello della limousine di Jim Carrey che la colmava con un’elastica fisicità in Scemo & più scemo, anche quello diretto solo da Peter. E quello dei Farrelly è sempre un cinema di viaggi nel cuore del cinema americano. Dal poliziotto dalla doppia identità con la ragazza arrestata nello strepitoso Io, me & Irene alla luna di miele burrascosa di Lo spaccacuori. Green Book è anche un cinema sulla ricerca della propria identità. Quella del pianista, che non appartiene alla comunità dei bianchi ma neanche a quella afro-americana che aveva ripudiato. Forse l’anima black di Jim Carrey. Quasi il suo opposto. Ma con gli stessi cromosomi di un corpo in grado di scindersi e moltiplicarsi.
Forse ogni volta è un nuovo esordio. Quello che secondo Soderbergh dovrebbe essere l’ultimo film fa ripartire un’altra volta il suo cinema. Tra Logan Lucky e Unsane, lontanissimi e vicinissimi, c’è l’ultimo film e insieme un altro debutto. La rapina dei fratelli Logan durante la gara ha le tracce del film Disney che il cineasta non ha ancora fatto con le precise geometrie che sembrano arrivare dalla solidità del cinema di Richard Brooks, in questo caso da Il genio della rapina. Unsane invece è l’altra anima di Soderbergh, quella non solo più sperimentale (perché non si può parlare di sperimentalismo nella sempre più magnifica follia del suo cinema). Ma proprio quella in cui ogni inquadratura successiva diventa uno choc che frammenta ancora più l’immagine, la ferisce, crea un dissidio, ma anche una duplicazione corpo/mente. Tutto il contrario di quella, sempre esaltante, solidità di Logan Lucky. Emergono qui tutti gli ‘effetti colaterali’ del suo cinema’, i contagi, le ‘torbide ossessioni’. Realtà, illusione, pazzia. Sawyer cerca di ricominciare la propria vita e cambia città per sfuggire a uno stalker. Ma all’improvviso si ritrova intrappolata in un istituto psichiatrico.
L’immagine del mostro, la prospettiva distorta. Claustrofobie da Fuller (Il corridoio della paura), ma anche da Carpenter (The Ward). E l’annegamento dentro nuovi abissi dove Claire Foy si ritrova con la mente sana (?) nel corpo malato della clinica come Angelina Jolie nell’eastwoodiano Changeling. Ma ci sono anche, come naturale riciclaggio di una continuità tra un film e l’altro (e non solo), un film che potrebbe essere anche parte dell’estensione di The Knick, con i corridoi/labirinti che arrivano dall’ospedale Knickerbocker. Tutto dentro un iPhone. Con una rapidità, mobilità incredibili, tutto all’insegna di una leggerezza dentro le forme di un thriller psicologico che però si frantuma e va in mille pezzi. L’iPhone che non solo si appropria degli spazi, diminuisce le distanze tra lo sguardo e il corpo (ma forse Soderbergh già aveva inventato l’iPhone prima della Apple nel suo folgorante primo debutto, Sesso, bugie e videotape con cui ha vinto subito la Palma d’oro a Cannes ad appena 26 anni). Dove David, il responsabile della clinica che la perseguita, appare ogni volta con l’inconsistenza di un demone ma anche con una malinconia che arriva da De Palma. Lo sguardo voyeur non ha più soltanto l’ossessione fisica. In uno spazio che appare impermeabile (la camera d’isolamento insonorizzata), ma è sempre presente anche quando non si vede. Arriva dalla rete, si appropria delle informazioni, delle tracce. E l’iPhone di Soderbergh arriva anche lì dentro, fa avvertire tutte le potenziali mosse. Anche del telefono di un complice che può essere rintracciato. Non c’è via di fuga in un cinema invece incredibilmente aperto, esteso. Senza finale perché il cinema di Soderbergh non ha più finali. Più proiezioni della mente che corrispondono a più identità. Sawyer/Claire Foy, da corpo dentro il film, diventa lei stessa l’attrice che costruisce tutto il film. Attraverso le sue azioni/visioni (la ripetizione della scena in cui quotidianamente è costretta a prendere la medicina ha un’inventiva nelle varianti che pochissimi cineasti, forse nessuno, oggi, si possono permettere). Soderbergh ha bisogno anche di questo. Di una protagonista reale/costruita che si trascina da sola tutto il film. Come Gina Carano in Knockout o Sasha Grey, già figura doppia in The Girlfriend Experience. Così come lui stesso si moltiplica. Sempre ancora direttore della fotografia e montatore, con gli pseudonimi rispettivamente di Peter Andrews e Mary Ann Bernard. Perchè forse - e Unsane lo dimostra - queste stesse categorie sono messe in discussione. Ancora una volta sembra che si monti nel momento stesso in cu si gira. Lo sguardo. Il doppio. Dentro/fuori il film. Forse un B-movie 2.0. Forse no. Forse un’altra incredibile e strepitosa grande scommessa. Che ha tutta la densità narrativa per diventare un’altra serie tv. L’ultimo grande film di un regista che ha deciso di smettere. Prima di un altro esordio. La morte e la rinascita sempre più spesso coincidono.
Dove torna e da dove riparte il cinema di Philippe Garrel. Attraverso un bianco e nero abissale che inghiotte nuove maladies d’amour, in un cinema fatto ancora di gesti, di scatti, di slanci, di abbandoni. L’amant d’un jour, come molto cinema di Garrel, filma l’istante proprio per catturarlo, per dilatare un tempo che è già perduto. Che il cinema può avere il potere di fermare, di intrappolare nello spazio di un fotogramma. Come avveniva in La gelosia e L’ombre des femmes, che possono comporre con L’amant d’un jour un’ideale trilogia. Di come l’intermittenza dei sentimenti può essere filmata attraverso corpi che appaiono come ombre, sottolineata dalla musica del pianoforte (che potrebbe anche fuoriuscire dalla colonna sonora e accompagnarla dal vivo) che scandisce tutti i battiti del (loro) cuore. Senza sapere mai quello che succederà. In un tempo che è il presente ma può essere indefinito con una voce-off che potrebbe situarsi più dalle parti del romanzo che del cinema. Ma quello di Garrel è tutto un lavoro di straordinaria sottrazione. Per questo L’amant d’un jour appare ancora come un film impetuoso, che ha la malinconia travolgente di Le vent de la nuit. Dove l’amore e la morte sono insieme sinonimi e contrari.
Un padre, una figlia e l’amante. Les amants (ir)réguliers di un cinema che sembra rigenerarsi ogni volta dalle proprie ceneri. Distruttivo e che brucia d’amore. Jeanne torna a casa dal padre dopo una dolorosissima rottura sentimentale. L’uomo ora convive con Ariane, la sua nuova compagna che ha più o meno l’età della ragazza. Ancora con tracce di un cinema che mette in gioco se stesso, i propri legami familiari, con la presenza di Esther Garrel, la figlia del regista dopo Louis in La gelosia, Un été brûlant, La frontière de l'aube e Les amants réguliers. Non c’è più distinzione tra il cinema e il vissuto. Tutto si confonde, tutto viene inghiottito. Non si può pensare, costruire una scena come quella in cui Gilles torna a casa e bacia prima la figlia ingelosendo l’amante. Lì c’è l’istinto, la traiettoria di uno sguardo che sa già cosa avviene prima che avviene nello spazio della scena che è già luogo intimo. La magia tra gesto e sguardo, immortalato anche dalla fotografia di Renato Berta che potrebbe replicare Raoul Coutard ma piombare anche in altre epoche, altre dimensioni spazio/temporali come può aver fatto con Manoel de Oliveira o Mario Martone. Togliendo i dialoghi a L’amant d’un jour, sarebbe quasi come un melodramma del muto, quasi un Frank Borzage dove potrebbe prendere forma l’atto estremo, quello più disperato e definitivo. Al tempo stesso, proprio in quel bianco e nero ci sono tutti i colori della Nouvelle Vague: i nomadismi di notte sulla strada (la splendida apertura con Jeanne che è seduta per terra e piange e poi cammina da sola col trolley), la voce sullo schermo nero, la fisicità del corpo ma anche della voce, come l’illusione della telefonata di Jeanne all’uomo che l’ha lasciata. “Plus jamais?”. Chissà quanto potranno tornare ancora in Garrel tutte le molteplici forme del desiderio. Come se L’amant d’un jour potesse avere ancora un sequel. O potrebbe arrivare anche dalla fine degli anni ’60, dai tempi di Marie pour mémoire. Perché si, il tempo filmato di L’amant d’un jour è già memoria. Nel labirinto di uno spazio dove le porte e soprattutto le finestre hanno un’importanza determinante. La finestra dove affacciarsi per guardare dall’altra parte. Ma anche il luogo dove oltre c’è il vuoto, nella spinta suicida di Jeanne poi salvata da Ariane in uno dei travolgenti momenti di un film che ha una spinta fisica inarrestabile. Ma anche la finestra tra il dentro e il fuori. Tra quello che lo sguardo di Garrel può mostrare e quello che c’è oltre. Che non è fuori-campo ma un’altra dimensione. Quasi di un ipotetico film di fantascienza con pianeti lontani. Perché il cinema di Garrel stesso, oggi è uno splendido alieno. Impermeabile ma anche pieno di sottili aperture. Che ancora rivela il piacere e la tristezza. L’amour c’est gai l’amour c’est triste.
Quasi un tour. Negli attraversamenti senza meta, nelle soggettive della strada dove si cerca di sorgere altro oltre l’orizzonte. Sullo sfondo di un paesaggio che muta ma non sembra mai appartenere a Pierre e Paul. Una maladie d’amour giocata sulla distanza, sulla separazione. Dove la macchina da presa sembra scavare dentro/oltre i primi piani, sprigionando un tormento epidermico che porta Jours de France nelle zone del cinema di Paul Vecchiali a cui Jérôme Reybaud - qui al uo primo lungometraggio - ha dedicato il documentario Qui êtes-vous Paul Vecchiali?. I giorni perdono i loro limiti temporali. Sembrano frammenti di un’eternità. Nel cielo grigio, nelle luci della notte. Dove ogni gesto si porta tutto il sovraccarico di tutta una vita. Un urlo. Come quello nella campagna deserta. Un voce che si libera in un film invece segnato dai silenzi ma dall’incessante flusso dei pensieri. Dove la colonna sonora sono i rumori del motore dell’auto, della pioggia, le voci dell’autoradio.
Jours de France sembra quasi un film fantastico. Come se i corpi si sdoppiassero. L’iniziale addio potrebbe non esserci mai stato fisicamente. Può essere tutto nella testa di Pierre. Quasi una proiezione di se stesso a bordo della sua Alfa Romeo. Tra montagna e campagna appunto, con i tratti di una fisicità e sessualità che ha lampi di rabbia e di passione come in Claire Denis ma che poi ritorna nelle zone di un cinema che si spinge a filmare il pensiero e il desiderio. Il corpo, lo spazio. Pierre si autoalimenta con il vuoto attorno, nello spazio all’interno della sua macchina. Gli incontri diventano sempre tappe provvisorie. Sia gli incontri sessuali, che possono nascere dalla casualità di un numero di telefono scritto sulla porta del bagno di una stazione di servizio, sia quelli con le donne a cui da un passaggio in macchina. Oppure nel momentaneo slancio verso un proprio passato, nell’incontro con la libraia interpretata da Natalie Richard. Alla stessa maniera Paul. Che si compra due posti per vedere Così fan tutte di Mozart anche se non ha nessuno vicino a sé perché anche lui è un corpo che, cinematograficamente, vive da solo e acquista spessore solo se sullo sfondo dello spazio.
È continuamente segmentato Jours de France. Nelle carrellate che seguono continui movimenti orizzontali come le camminate, nelle autostrade che sembrano creare come delle rette parallele. Quelle di un viaggio parallelo, di un inseguimento/pedinamento che lambisce le zone del thriller. Che spezzano e poi ricompongono il paesaggio e che poi aprono nuovi squarci come l’entrata in chiesa o la corsa verso una borsa rubata, nella masturbazione vicino un muro. Con un attrito persistente tra la carne e la materia. Come se ci fosse uno scontro ogni volta che Pierre gli va incontro. Come a creare nuovi spazi, luoghi immaginari fisici/mentali. Dove musica (Mozart, Ravel, Rameau) e mito (la Medea di Corneille) diventano momentanee immersioni, controcampi e zone di fuga in un cinema di continui confini, anche geografici (la Francia/l’Italia), quasi pulsioni verso un altro tempo. E il contatto con la realtà e il ritorno al presente avviene frequentemente attraverso le app, mappe virtuali che (man)tengono quella sottile tensione di rivelazioni e sparizioni, di un cinema che riesce ad essere contemporaneamente concreto e astratto, che fa sentire addosso l’umidità della nebbia, il freddo della neve. Tutte temperature apparentemente esteriori che sono in realtà un altro dichiarato richiamo di contrasto. Proprio per dare forma a quel fantasy desiderante dove Reybaud ama perdersi. Come se anche il suo sguardo volesse perdere d’orientamento in un cinema che ama (re)inventarsi.