"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
A William Friedkin l’esorcismo è riuscito, alla fine il bene e il giusto hanno trionfato sulle maledizioni che si sono abbattute sul suo cinema. Non è autore maledetto Friedkin, nonostante i suoi lavori siano stati tagliati, censurati, mutilati e spesso incompresi per anni, è da un po', e soprattutto è da queste parti (in Italia) che gli viene riconosciuta la maestria che merita. Dopo la retrospettiva integrale del Torino Film Festival del 2003 c’è stato il Leone d’oro alla carriera di Venezia nel 2013 e il Premio Puccini di Lucca tre anni dopo. È in questa occasione che contatta Gabriele Amorth, il decano degli esorcisti di santa romana chiesa, una vera celebrità per il sempre corposo gregge cattolico. Amorth, ormai novantenne, intuisce subito che l’occasione è ghiotta, l’Esorcista filmato dal regista di L’Esorcista, brillare di luce terrena prima del trapasso a quella divina, quindi accetta che Friedkin filmi il suo lavoro, ma da solo, con una piccola camera digitale. Un gioco doppio, diabolico appunto: aprire uno spiraglio alla conoscenza/coscienza per spalancare il portone del potere demiurgico e demagogico della religione.
Friedkin sta al gioco senza prestarsi, lo svela subito in quanto tale e imposta il film secondo formule televisive in cui lui stesso passa da “presentatore” a “giornalista” a filmmaker. Mentre gioca di rimando con il suo celeberrimo L’Esorcista attraverso il ritorno sul set, interviste a medici e “esperti” del settore nonché a Peter Blatty, autore del romanzo da cui trasse il film del 1973, Friedkin mette in scena una riflessione sul cinema e sulla sua capacità di conduzione del “male”. Quanto il film del ‘73 era per il suo autore “un documentario sulla fede” questo può essere definito una “messa in scena del male” che si manca completamente se la si guarda attraverso le categorie del cinema (documentario, budget, cinema/tv etc.) dimenticando che Friedkin è innanzitutto un cineasta della “prima generazione che ha fatto cinema sapendo chi era stato David W. Griffith”, come ha più volte dichiarato.
The Devil and Father Amorth richiama piuttosto la conversazione di Friedkin con Fritz Lang, girata l’anno dopo il trionfo de L’Esorcista. Anche lì Friedkin si metteva in scena, di spalle come un intervistatore qualunque, e anche in quel caso cercava di scoprire il “segreto” celato dietro la maestria di Lang. Amorth sfugge all’inquadratura così come Lang, entrambi spiazzano l’autore/primo spettatore, si dicono inconsapevoli e incoscienti delle proprie, seppur evidenti, capacità, dichiarano di agire in una sorta di trance. Ma al contrario della conversazione con il cineasta, che Friedkin considerava mancata per via delle risposte elusive, letteralmente sconfortanti, di Lang e che infatti è venuta alla luce soltanto a Torino nel 2003 grazie all’insistenza di Giulia D’Agnolo Vallan, questa volta il regista di Cruising non ha avuto esitazioni ed ha costruito il film intorno all’esorcismo che Amorth compie su una donna di Alatri, nei pressi di Roma.
In entrambi i casi la questione non è quello che vediamo, l’intervista o l’esorcismo, ma la pura messa in scena, e se nel primo caso ci sono voluti trent’anni perchè Friedkin si accorgesse che le risposte di Lang alle sue domande su cosa dia il senso dell’orrore al cinema erano nei tic, nei grugniti, nei silenzi questa volta è evidente la consapevolezza che basta seguire Amorth per arrivare, appunto, alla messa in scena dell’esorcismo. Il prete infatti, esattamente come un regista, detta tempi e spazi in cui possa avvenire il suo incontro/scontro col Diavolo, è consapevole delle coordinate esatte, gioca con le parole e stabilisce la presenza e la disposizione di altre persone. È il rito dunque che fa il cinema, come per la tragedia, e il cinema si fa, in potenza, strumento di esorcismo collettivo. La questione non è vero/falso, men che meno fiction/documentario, per Friedkin era e resta la messa in scena, dopo David W. Griffith, dopo miliardi di ore di tv, dopo internet e nell’era del cinema “diffuso”, ovvero dappertutto e in mano a chiunque. L’unica dicotomia che regge, per Friedkin, è quella bene/male e l’avvicendarsi delle diverse tecniche lascia intatto il potere del cinema di mostrare quest’ultimo e magari esorcizzarlo. È questa la forza da cui parte The Devil and Father Amorth, la stessa da cui partono per esempio l’ultimo Eastwood, o Ex Libris di Wiseman, o ancora 4:44 (ma anche Pasolini) di Abel Ferrara, quattro opere che vanno in direzioni diverse, a volte opposte, ma che insieme formano un crocicchio di quelli in cui può accadere come a Robert Johnson di incappare nel Diavolo. Appunto, o meglio, probabilmente.