"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Sicario: Day of the Soldado (Stefano Sollima)

Wednesday, 05 December 2018 23:48

Messico e nuvola

Michele Sardone

Ci sono due film giustapposti in Soldado: il film di guerra e il western.

Nella prima parte si predilige il punto di vista dall’alto, il mondo sembra una enorme cartina militare. La ripresa aerea dà la sensazione di dominio sul territorio attraverso la perlustrazione; la visione perpendicolare dei droni e dei satelliti fa percepire lo spazio come un sistema di cose schiacciato e bidimensionale, facilmente percorribile e ordinabile; le immagini rimandate dei visori termici degli elicotteri riducono le persone a ombre sgranate, grigie o verdi. Sono delle proiezioni necessarie, per dare a chi le guarda l’illusione di avere tutto sotto controllo: il mondo non è mai stato analizzato come ora da molteplici occhi elettronici, sezionato in immagini sempre più limpide e definite, dovrebbe risultare chiaro e intelligibile, eppure tanto nitore insinua la sensazione di essere esposti a qualsiasi pericolo. Anche quando la camera scende a terra, compare puntuale la didascalia che indica la dislocazione della messa in scena, come se venissero poste di volta in volta immaginarie bandierine sulla cartina - del resto anche il cattivo super ricercato apparirà solamente come un puntino rosso su una mappa.

L’insieme di queste sofisticazioni serve pure per fornire a chi attacca l’indispensabile distanza tra sé e il nemico da colpire, per poterlo percepire come un semplice obiettivo da abbattere. In questa separazione è facile confondere persone in carne e ossa per dei fantasmi e, di contro, far prendere corpo alle fantasmatiche paranoie che affliggono le narrazioni occidentali: il terrorismo, il complotto delle grandi organizzazioni criminali, il nemico che si mimetizza fra i migranti, il narcotraffico. E tutte queste paranoie vengono fuse tra loro, al criminale viene data la definizione di terrorista, in Messico viene traslato l’Iraq, i poliziotti messicani diventano miliziani contesi da opposte fazioni.

La paranoia induce alla macchinazione, e quanto la paranoia è complessa e pervasiva, tanto più la macchinazione sarà sofisticata. Ma anche l’operazione meglio congegnata può incepparsi. Per far saltare tutto basta una nuvola di polvere: alleati e nemici si confondono ulteriormente, si scambiano i ruoli, si scoprono uguali fra loro. Il piano militare è andato all’aria, bisogna ricominciare daccapo, in un altro modo. Difficilmente si poteva scegliere qualcosa di più beffardo per scombinare un film di guerra e al tempo stesso di più classico per annunciare l’inizio di un western: una nuvola di polvere.

Di colpo cadono le varie sofisticazioni, si perdono droni e satelliti, niente più rielaborazioni grafiche, svaniscono didascalie e coordinate, persino chi ha progettato la macchinazione vorrebbe cancellare tutto senza lasciare traccia. La paranoia viene ricondotta a un più sano sentimento di solitudine.

Benicio Del Toro, il soldado del titolo, quasi con fare rituale (di notte, la scena illuminata dal fuoco) seppellisce le sofisticatissime armi avute in dotazione, tranne una pistola. Non indossa più la divisa da paramilitare ma jeans e una camicia a quadri, poi calca un cappello da cowboy in testa e poggia sulle spalle uno sciarpone di stoffa grossa. Sembra di assistere a un ritorno a una dimensione più lineare e immediata, quando buoni e cattivi erano facilmente distinguibili. Anche il modo di girare di Sollima risulta più fluido, come se si avvertisse il puro piacere di filmare una storia che si riduce a un uomo, la sua pistola, una ragazzina da salvare, e intorno il deserto e il suo immancabile corredo - piani lunghi, albe e tramonti, nemici in agguato. Forse solo una così radicale riduzione può permettere l’emergere dell’istanza morale, impossibile nell’artificiosità del film di guerra ma così necessaria nel western.

E qui c’è un ulteriore scarto, Sollima evita la tentazione di dare un messaggio edificante. La superiorità morale è un lusso per chi è innocente, ma nessuno lo è, neanche nel western, non lo sono nemmeno i morti. Sarà un non morto a chiudere la vicenda, o forse solo a troncarla, potrebbe iniziare un horror, ma si decide che è meglio finirla qui.

 

 

Detroit (Kathryn Bigelow)

Saturday, 05 May 2018 08:52

A matter of how and when

Michele Sardone

Prologo: la camera scorre su una sorta di collage di pannelli animati e sonorizzati tratti dalle Migration Series di Jacob Lawrence, mentre le didascalie in sovrimpressione ricostruiscono le precondizioni delle rivolte razziali che hanno avuto luogo a Detroit nel luglio del 1967 e ne annunciano l’inevitabile epilogo. L’ultima didascalia recita: «Change was inevitable. It was only a matter of how, and when.»

 

Stacco. La messa in scena. Le rivolte non sono ancora iniziate, ma la macchina da presa continua a muoversi, sempre più nervosa, mentre pedina i vari personaggi fra i vicoli e gli interni della Detroit dei Sessanta. Per una volta, la camera a mano tremolante (della quale troppo spesso si abusa in certo cinema pseudo indipendente) sembra avere una sua legittimità: assisteremo a una ricognizione in soggettiva, quindi senza alcuna pretesa di onniscienza e oggettività, su ambienti urbani prossimi a divenire un campo di battaglia.

 

In un primo momento potremo avere la sensazione che il gioco di collage iniziale continui attraverso la riproposizione di vari scampoli di storie collettive e individuali: l’irruzione della polizia in un locale “per neri” senza autorizzazione, i primi scontri tra afro e poliziotti, i saccheggi, e le vicende di una guardia giurata di colore, di un poliziotto bianco, di un gruppo di cantanti di black music. Poi però i personaggi iniziano a confluire verso un unico luogo frequentato da neri, l’Algiers Motel, le storie pian piano collimano fra loro e quelli che ci sembravano dei frammenti di un quadro generale refrattario ad essere colto nella sua interezza si riveleranno essere delle vere e proprie premonizioni di alcuni degli atti violenti prossimi ad accadere.

 

Gli spari di una pistola giocattolo da una finestra dell’Algiers durante una festa notturna vengono interpretati come l’attacco di un cecchino alla polizia: qualche scena prima, uno scambio simile era stato fatto con una bambina che sbirciava dalla tapparella di casa. Un poliziotto bianco spara a un nero che corre per le scale del motel: durante il giorno quello stesso poliziotto aveva ucciso in maniera pressoché identica un altro fuggitivo. Due ragazze bianche sono presenti nell’edificio in compagnia di ragazzi di colore: al mattino un’altra ragazza bianca era stata colta dalla camera mentre si mescolava ai rivoltosi per prender parte al saccheggio di un negozio.

       Durante l’operazione della polizia nell’Algiers, i ragazzi lì presenti vengono messi al muro e interrogati; per estorcere loro delle confessioni che giustificassero l’irruzione, vengono inscenate, in stanze separate, delle finte esecuzioni di alcuni di loro. Nella scena iniziale avevamo assistito a qualcosa di simile: in una camera chiusa un poliziotto aveva finto di malmenare un infiltrato nel locale senza autorizzazione per spaventare gli altri avventori fuori dalla stanza. Ma nel motel il gioco della messa in scena cade: uno dei poliziotti prende il suo ruolo troppo sul serio e uccide a freddo uno dei ragazzi.

 

Quello che a prima vista ci sembra un atto assurdo e di estrema idiozia (l’idiozia cioè tipica e banale di coloro che eseguono un ordine alla lettera e fino in fondo) è invece il logico epilogo delle violenze descritte sino ad allora. Si può azzardare anzi che tutto il film, rivisto a ritroso, non sia altro che la ricostruzione di tutte le condizioni, e precondizioni (e precondizioni delle precondizioni: la storia potrebbe essere riavvolta fino ai pannelli delle Migration Series e, volendo, ancora prima) di un unico sopruso, di un singolo gesto limite.

La ricostruzione fatta dalla Bigelow scopre quindi la meccanica che c’è dietro l’assurda logica dell’esercizio della forza: una volta messa in moto la violenza, pur essendo ogni atto prevedibile e previsto (previsto in senso stretto: le premonizioni sparse per il film stanno lì a dimostrarlo), le conseguenze di ognuno di quegli atti si danno come incontrovertibili, prefigurandone l’escalation, come la palla di neve di un cartoon che rotolando si ingrossa fino a diventare una valanga. Così l’ordine dato all’ottuso poliziotto, se pur dato per finta, non poteva che essere eseguito alla lettera.

 

Ci si può chiedere se uno schema simile sia circostanziabile solo a quelle determinate condizioni che l’hanno prodotto o se sia riproponibile nel qui ed ora. È già successo, per esempio qui da noi (Genova) e non molto tempo fa (2001), con una scuola al posto di un motel. C’è stato dopo, come in Detroit, un processo che non ha reso piena giustizia. Ancora una volta si è detto, con orrenda espressione, che “ci è scappato il morto”, quasi a voler scambiare per fatalismo quella che è stata l’insulsa e implacabile meccanicità della forza. Può accadere ancora, forse è inevitabile che succeda. Si tratta solo di capire «how, and when».

 

 

Published in SPECIALE Americans

Los versos de los olvidos (Alireza Khatami)

Monday, 27 November 2017 10:23

Michele Sardone

Rapsodie cilene

Alireza Khatami è regista di origine iraniana e ha girato in Cile il suo primo lungometraggio, Los versos del olvido (presentato durante l’ultima Mostra veneziana e vincitore del Fipresci come miglior esordio e del premio per la sceneggiatura nella sezione Orizzonti): basterebbero la sua erranza apolide e il richiamo all’oblio nel titolo per poterlo affiancare a Ruiz, cileno, esule e cantore della memoria e della dimenticanza. Se aggiungiamo poi che l’ambientazione del film di Khatami non è geograficamente localizzabile e che il fantastico e il passato convivono con il realistico e il presente fino a confondersi, allora la corrispondenza con Ruiz è fatta, e tutto quel che si potrà dire in più sarà superfluo.

Però è proprio quel superfluo, quella parte eccedente a interessarci. Los versos è ambientato per lo più in un cimitero e inizia con il racconto numero 997 di una serie di aneddoti dedicati alla morte: dove sono andati a finire gli altri 996, e da dove vengono? Probabilmente sono tornati, e si sono persi, nella stessa regione labirintica della Recta Provincia ruiziana, dove ogni racconto ne contiene un altro e questi un altro ancora, come infinite matriosche. Racconto dopo racconto, confluiscono nella Provincia immagini che riconosciamo come originarie da altri luoghi cinematografici: nel film madre e figlio inscenano un road-movie, e a vederli da lontano si potrebbero scambiare per Totò e Ninetto di Uccellacci e uccellini, o a due pellegrini de La Via Lattea; e il labirinto delle storie si complica ulteriormente nei meandri delle autocitazioni dei film di Ruiz, se si pensa che forse la madre è la stessa di Días de Campo (altro film autocitazionista: pensiamo ai fiammiferi giganti già presenti nella quarta parte di Cofralandes, altro paese immaginario così simile al Cile – ma ci fermiamo: la serie delle matriosche, come detto, è potenzialmente infinita, meglio tornare a madre e figlio), con il figlio che le manda lettere da Antofagasta, la stessa città di La noche de enfrente...

Come fare allora una genealogia ruiziana delle immagini nel film di Khatami se già quelle di Ruiz si fa fatica a inquadrarle e definirle? Prendiamo ad esempio l’immagine ricorrente della balena de Los versos: la sentiamo evocata alla radio, la scorgiamo come graffito, la vediamo addirittura volare. Forse proviene dalle favole di Pinocchio-Pinochet, mentitore e burattino degli americani, come veniva soprannominato dai suoi oppositori. Oppure la balena potrebbe essere il grosso pesce, simbolo di rinascita, che aveva ingoiato il biblico Giona: per analogia, potremmo accostarvi la scena del custode del cimitero che per sfuggire alla morte si lascia inghiottire dai budelli labirintici di un immenso archivio per poi emergere, quasi miracolosamente, da sotto un masso posato al suolo. Già un’altra volta era sopravvissuto ai suoi sicari, mandati dal regime dittatoriale per cancellare le tracce della propria cruenta repressione, e si era ritrovato a vagare in un deserto surrealista, con rocce a forma di dita che affioravano dalle dune.

Ecco, forse la persistenza della memoria rivela un ostinato attaccamento alla vita, il desiderio di non voler lasciar andare definitivamente quel che è dato per morto (e per questo la retorica comune, che invece è mortalmente vitalista e nuovista, stigmatizza l’approfondimento nel passato come perversione necrofila). Ruiz e Khatami danno due definizioni dell’oblio una contigua all’altra. Nella Recta Provincia si dice che l’oblio è un ricordo amputato. Ne Los versos, che l’oblio è dimenticare di dimenticare. Come dire che l’amputazione operata sulla nostra memoria è data dalla nostra incapacità di accorgerci di aver dimenticato qualcosa.
Oppure ci si può illudere di non morire mai del tutto: un corpo morto continua a progredire nel suo decadimento, a raccontare qualcosa di sé, e nel racconto in qualche modo vive, ed è ancor più vivo se quel che racconta non è verità bensì leggenda, o il lieto fine di una triste storia. Attraverso il racconto, che è innanzitutto rito evocativo e magico, prendono forma le immagini, che iniziano a danzare come fantasmi. Nessuna immagine è davvero originale: dall’archivio della nostra memoria ne attingiamo altre, affini a quelle evocate, che utilizziamo come modelli per formare le immagini del racconto: e così, di proiezione in proiezione, proteiformi le une alle altre, creiamo immagini e da queste altri racconti.

 

Abbiamo esagerato con le digressioni? Certo, ma ci sentivamo legittimati a farlo: nel suo Stato immaginario, come capo dell’opposizione al regime al potere Khatami ha nominato Tarkovsky, che compare in alcuni volantini elettorali (con lo slogan «El pasado pasará»), e Bergman come ex presidente deposto.

 

 

Published in SPECIALE Ruiziana

Interruption (Yorgos Zois)

Tuesday, 23 February 2016 10:00

Quel che vediamo è reale?

Michele Sardone

Uno spettacolo teatrale che mette in scena l’Orestea viene interrotto dall’irruzione sul palco di alcune figure vestite di nero: sono forse le Erinni che ossessionano Oreste? O dei terroristi che vogliono mettere in scena il loro spettacolo? Gli attori restano imprigionati in un elemento di scena, un cubo di vetro insonorizzato; una delle figure, un giovane uomo, prende la parola e presenta il suo gruppo come il Coro: da quel momento assumerà il ruolo di regista, e altri attori, dei volontari fra il pubblico, porteranno a termine la tragedia.

Questo l’inizio di Interruption, primo lungometraggio del greco Yorgos Zois, il cui obiettivo dichiarato era di estendere nel film la percezione di incredulità che alcuni spettatori pare abbiano avuto per qualche istante dinanzi a veri atti terroristici avvenuti in teatro, la percezione cioè che anche l’attentato facesse parte dello spettacolo.

 

Man mano che la visione prosegue, una strana immedesimazione si insinua: non ci identifichiamo nei volti in primo piano, un po’ impacciati, dei vari attori improvvisati, né in quelli freddi e determinati del Coro; ci accorgiamo che il nostro coinvolgimento è differente, e finiamo per riconoscerci nei volti opachi e indistinti del pubblico in platea. Ad essere in oggetto è proprio il nostro sguardo di spettatori inermi e impotenti dinanzi allo spettacolo del terrore cui assistiamo quotidianamente attraverso i media. Uno spettacolo che si mostra ogni volta clamoroso e insieme sempre identico a se stesso: e la sconsolata impotenza a far nulla di noi spettatori si ritrova ad essere speculare alla distaccata constatazione che nulla realmente accade. La caducità dell’evento spettacolare o spettacolarizzato, sempre pronto a farsi sostituire da un altro, restringe il tempo alla durata del clamore, mentre lo spazio si riduce al nostro punto di vista sull’evento stesso. Tutto si dà come flusso di immagini indistinte, distanti e separate da noi, fino a farci chiedere: “quel che vediamo è reale?”.

 

Ecco allora il tentativo di Zois: interrompere il flusso immaginale, ridare spazio e tempo all’azione, perché si possa avere la percezione che finalmente accada qualcosa. Zois cerca quanto più possibile di far coincidere la durata della vicenda rappresentata con la durata del film stesso, come avviene in molte delle tragedie classiche greche; e il teatro diventa così il luogo ideale per dare estensione e spazio a un’azione perché si compia. Ma l’azione scelta deve essere allora terribile, estrema, tragica appunto, fino ad arrivare al sacrificio di chi la compie.

 

Sarà sufficiente per risvegliarci dal nostro torpore di passivi spettatori? Non è un caso che lo spunto della tragedia inscenata venga dall’Orestea, in cui per la prima volta è il popolo che assiste ad essere chiamato a prendere una decisione attraverso il voto democratico. Viene facile allora pensare che tutto il film si possa risolvere in una chiamata a responsabilizzarci, ad alzarci dalle nostre poltrone e diventare noi attori in scena, e che la catarsi finale non ci purifichi, ma al contrario ci contamini: siamo tutti coinvolti, anche solo con la nostra omissione.
Ma non si può così eludere la banale obiezione che Interruption non sia altro che un film, e che quindi anche l’azione che viene rappresentata come vera è mera finzione: la rappresentazione teatrale è stata interrotta solo da un’altra rappresentazione spettacolare, solo un po' più verosimile. Il rischio è quindi di perdersi nel gioco di specchi fra le finzioni, ricadere nell’incantesimo della visione.

 

Oppure possiamo portare all’estremo la provocazione di Zois, e vedere in un’immagine non più il segno di una rappresentazione che non ci appartiene, ma il riflesso di uno specchio oscuro, come se l’immagine fosse un buco nero che attrae a sé chi la guarda, fino a perdersi dentro di essa, finché ognuno di noi diventi figura, fantasma, macchia opaca nel nero: e allora la domanda che ci poniamo dinanzi allo schermo non è più “quel che vediamo è reale?”, piuttosto “quanto siamo reali noi?”.

 

 

Published in SPECIALE - DEBUT!

Singularity (Albert Serra)

Tuesday, 27 October 2015 16:14

E i droni stanno a guardare

Michele Sardone

Film di otto ore proiettato su schermi disposti in circolo, ognuno dei quali ne rimanda uno spezzone differente che s’interrompe per lasciar spazio a un altro, scelto secondo un ordine casuale, diverso da quelli proiettati sugli altri schermi: forse ha poco senso chiedersi cosa Singularity sia, se film o videoinstallazione o altro, dato che il suo senso sembra porsi non tanto nel suo essere quanto nel suo farsi, nel movimento fluttuante e vorticoso che circonda lo spettatore da parte a parte, come in un abbraccio. (Del resto, qual era per de Oliveira la "singolarità di una ragazza bionda" se non quella, appunto, di non essere, per farsi pura figura, immagine fantastica, ricordo di un sogno, riflesso del desiderio; e in questa molteplicità di attributi intangibili – molteplicità slegata da tutto tranne che dallo sguardo del suo amante-osservatore che le conferiva esistenza – si affermava la sua impossibilità a cristallizzarsi in una forma unica, singolare).

 

Ma al contempo c’è la sensazione che, nel passaggio delle immagini da uno schermo all’altro, qualcosa si perda negli spazi vuoti fra gli schermi, o che il film continui a essere proiettato sul nero interstiziale, invisibile ai nostri occhi, come se volesse sottrarsi. La singolarità si dà proprio nella sottrazione, nel venir meno di uno spazio, di un legame, di un’affezione che leghi i corpi, i significanti, le immagini. Ecco quindi spalancarsi una voragine dinanzi al nostro sguardo, e prendere le sembianze di una miniera d’oro, esemplare oggettivazione della tensione tutta occidentale a esaurire tutto ciò che è in superficie per poi, insaziabilmente, scavare il nulla – il nulla della fine della storia, dell’insensatezza della produzione capitalistica, della mancanza di senso nel linguaggio.

 

L’investigazione nomade di Serra pare trovare nell’eclissi del sacro l’origine di questo vuoto e tocca le tracce della sacralità perduta – la gloria dell’oro, la santità delle puttane, il mistero del disfacimento del corpo e della materia, l’aspirazione a perdurare oltre la consumazione e il decadimento, l’amore omosessuale, o gerontofilo, in pura perdita – ma il suo tocco è una delicata carezza, come a voler sfiorare le immagini con gli occhi, ben sapendo che la paura mangia l’anima (ci sono tutti qui, Fassbinder, Syberberg…). Nello schermo che introduce Singularity viene proiettato una sorta di trailer, una selezione di alcune immagini del film, con l’aggiunta, in sovrimpressione, di un drone che sembra mimare questo gesto carezzevole: la macchina guarda ma non giudica, scivola sulla superficie del mondo senza violentarla e si limita a rifletterla in immagini. E le immagini sfuggono a tutto, al nostro giudizio, alla staticità di una qualsiasi definizione dell’essere, alla mummificazione in categorie ordinatrici. Possiamo cercare di inseguirle, senza ovviamente raggiungerle: ma in questo moto, nella ricerca di un’immagine che sia rimando a un qualcosa al di fuori e al di là di noi, possiamo trovare una singolarità altra, e sentirci meno soli.

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