"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Di scoraggiante banalità dire che sembra – Beckett giovane – un personaggio dei suoi romanzi (sia gli impubblicabili del periodo in questione, che quelli a venire). Ma così è. Tutto comincia con una rinuncia bartlebyana: preferirei non insegnare (e all’epoca Beckett ha già una o due cattedre, già sa tutto, è questo che gli è insopportabile, e gli studenti ridono, ridacchiano, scambiandolo per chissà quale riferimento autoerotico, quando lui angosciatissimo - perché non si può spiegare un bel niente! - cerca di spiegare quello che definisce “suicidio ottico” in Rimbaud). Non si tratta di non avere riferimenti, ma di perderli. Da qui alla fine (dal 1929 al 1940, tecnicamente fra i ventitre e i trentacinque anni) impone a se stesso di riconoscersi e di negarsi in questa sola immagine: un albero sbattuto dal vento in giro per l’Europa di cui vorrebbe strappare le radici, ma il vento stesso preme sulla terra invece di scoperchiarla (ma manca poco anche a questo).
Il primo problema da risolvere si chiama Joyce/Proust. Col secondo si fa in fretta, l’analisi dettagliatissima è coadiuvata dall’immancabile scatologia, che a sua volta non è solo la bozza preparatoria all’eterna posizione Murphy a venire (corde legacci pipì feci erpes psichiatria: corpo martoriato perché questa è l’unica via per avvicinarsi a dire qualcosa sul suo spirito), ma proprio necessaria totale evacuazione: “ventre colicoso” le cui “sedute al cesso” siamo costretti a contemplare. E non si pensi che siano offese gratuite, Beckett sta parlando d’altro, qualcosa d’altro che anche Proust sa bene: scrivere, la fatica di scrivere, è la vera deiezione (i riferimenti sono continui ed espliciti lungo tutta la raccolta, uno per tutti in una lettera del 1930 in cui alcune sue poesie vengono descritte come “tre stronzi presi dal mio gabinetto centrale”). Va’ detto inoltre che il saggio su Proust si chiude con la parola defunctus.
Col primo (che Beckett chiama Penman) è un’altra storia. Lettere addirittura comincia con “Caro Mr Joyce”, sia la prima che la seconda lettera, relative al saggio che Beckett sta scrivendo su Work in progress (poi Finnegans Wake), molto apprezzato da Joyce e pubblicato sulla rivista “Transition”. E poi sottotraccia - accuse degli editori, commenti critici, assoluta autocoscienza del problema - puzza di Joyce ovunque, “a dispetto dei più convinti sforzi di dotarlo dei miei odori” (1931), e un accorato appello a se stesso un anno dopo: “Ma faccio voto di andare oltre J.J. pria di morir”. Detto fatto. Eppure. Qui non si tratta di discutere quel che è quasi lapalissiano, l’influenza di Joyce su praticamente chiunque pensi di scrivere qualcosa in quegli anni (figuriamoci per un così caparbio discepolo). Al contrario, quel che è difficile considerare è la portata dell’immediato e portentoso secondo “preferirei di no”, che solo per umiltà Beckett tace o finge lui per primo di non vedere, per cui fin dall’inizio nel confronto con Joyce si tratta piuttosto di pura profanazione, geniale tradimento, paurosa capacità di imboccare una strada tanto impervia quanto deviante. (Sia Beckett che The Penman schifavano il joycianesimo dei contemporanei, ça va sans dire). Il suo nome è Murphy, semmai il più arguto lavoro di depotenziamento mai visto. Semmai kafkiano (uno che lo ha capito, anni dopo, è Cortazar, nelle folgoranti pagine-citazione dell’ospedale psichiatrico di Rayuela). Semmai ironicamente freudiano (senza contare il rapporto davvero torbido con la figlia di Joyce, a sua volta abbonata a incursioni psichiatrico-ospedaliere).
E se l’origine - Dublino questa eterna tremenda amatissima nemica - è la stessa, e procura la medesima “rabbia stanca, astratta” che invita alla fuga, la risposta di Beckett è più affine a un movimento laterale, una specie di schivata assoluta e rocambolesca insieme, progetto di vagabondaggio e solitudine cui solo le lettere, il cui gettito è strenuamente mai interrotto, pongono un limite. E allora: “Questa vita è spaventosa, e non so come si possa sopportare” (1930); oppure l’estrema propaggine del progetto bartlebyano consegnato al fido Thomas McGreevy: “Comunque nulla è più allettante dell’astensione. Una bella vita tranquilla costellata da esoneri volontari” (1931); o ancora (1932): “[…] gran parte della mia poesia […] fallisce proprio perché è facultatif”. (Uno di questi esoneri, sia detto per inciso, è una lettera datata 2/3/36 a Sergej Ejzenštejn dove lo prega di “essere ammesso alla Scuola statale di cinematografia di Mosca”, e nella presentazione si dice “ho lavorato con Joyce” e, dopo aver precisato che gli “interessano di più gli aspetti di sceneggiatura e del montaggio” si chiude col mirabile “la prego di considerarmi un cineasta serio”. Mentre poco prima nello stesso anno magnifica Pudovkin e Arnheim e ha questa fascinosa speranza che un film sonoro technicolor come Becky Sharp - Mamoulian! - un fiasco nelle sale dublinesi, abbia molto più successo in modo “da creare una riserva per il cinema muto bidimensionale, affossato non appena emerso dai suoi rudimenti”. Da qui a Film scritto per Keaton nel 1964 il salto è naturale).
Ora, quale astensione ed esonero volontario più assoluti e visionari che, in pieno nazismo, partire alla volta della Germania per una visita squisitamente turistico-culturale. Qui Beckett dà il massimo come uomo come scrittore come cineasta. Sono pagine incredibili, che necessiterebbero di ben altro spazio e tempo di riflessione, fondamentali per comprendere questo vero e proprio sacrificio e sforzo di guardare sotto la coltre delle cose. Beckett alla ricerca di strutture architettoniche e artistiche che il nazismo si ossessiona a cancellare. Beckett che visita musei e convince impauriti direttori a mostrargli dipinti esclusi dalle collezioni perché “arte depravata” e viene fatto scendere negli scantinati dove si alzano lenzuola bianche e cominciano visite private sottoterra. Beckett che contatta giovani artisti che vivacchiano in superficie come se fosse un altro caso di sottosuolo. “L’integrità delle palpebre che si abbassano prima che il cervello si accorga del pulviscolo nel vento“.