"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Arturo Lima

Pittori di anime

A dire il vero If Beale Street Could Talk di Barry Jenkins è un film considerevole. Uno di quei casi rari in cui l’adattamento si scopre essere in realtà quasi un naturale scivolamento, qualcosa di già forse contenuto nelle pagine del romanzo di provenienza o scritto come se fosse ancora tutto da filmare (come è tipico dell’autore, James Baldwin). Jenkins traduce questa qualità in desiderio immersivo, si muove morbido e sensuale, fisico e in primo piano. Davvero era da tempo che non si vedeva un film che anche quando si chiude in una stanza o in una casa senza temere lunghe sequenze di dialogo, lo fa conducendo sempre gli attori verso un terremoto di sentimenti, e tutto sembra bruciare, i corpi i volti le reazioni sono letteralmente infuocati (certe sequenze sono addirittura indimenticabili, come l’incontro esplosivo e tesissimo fra le famiglie dei due amanti, puro incandescente mélo a metà fra Sirk e un Cassavetes black). E ancora più raramente è dato vedere una tale perizia di messa in scena, dove il décor e la grana concorrono insieme a ricreare, senza artificio, l’Harlem degli anni ’70 (l’estate di Harlem, con quell’accensione unica che sembra al tempo stesso aurora e crepuscolo), dove neppure si può dire che siamo invitati a entrare, siamo già morbidamente parte di una memoria che si svolge liquida e fluidissima, e dove la pur evidente causalità del difficile contesto sociale non scade mai nel sociologico, passando anzi in secondo piano rispetto allo scatenamento puro di un amore in trappola. Non sentimentale, romantico. Non didascalico, didattico. Forse allora non c’è da stupirsi che Jenkins pubblichi di recente sul “New York Times” una conversazione con Claire Denis su High Life, dove oltre alla convergenza all blacks (per Denis all’inizio della carriera quando si trattava di chiudere i conti con la sua giovinezza ‘africana’ e suo malgrado colonialista), i due riflettono insieme sui caratteri di umanità e tenerezza e sul modo di orchestrare il tempo. Denis spiega la sua procedura per diagrammi, volute sempre più ampie e insieme aggiranti, che del tempo cercano di implicare e proprio di filmare ciò che viene costantemente perduto o sviato. Senza che Jenkins faccia riferimento al suo film (lo fa Denis però, complimentandosi), si capisce l’ispirazione che trova nel metodo di Denis, ma che tuttavia lo elabora partendo dalla concentrazione assoluta sui volti, i quali recano i segni e, appunto, le ferite, i vuoti di memoria, del tempo che stringe d’assedio e culla con lo stesso movimento. Si tratta di cineasti che non temono la vulnerabilità, anzi conoscono la fragilità delle storie e delle immagini, degli uomini e delle donne, e ne traggono linfa visiva. Sono piuttosto dei pittori, pittori di anime che ci mettono l’anima. Nella gentilezza delle giustapposizioni temporali di Jenkins c’è la capacità di mostrare come presagio la tristezza verso cui volge la storia d’amore fra Tish e Fonny. Senza alcun patetismo, lo spettatore si ritrova nella posizione di accompagnare questa inesorabile linea malinconica, conscio che è da qui che si genera per i personaggi la forza necessaria a resistere. E allora, grazie a quest’ultima pennellata, non è solo un rapporto individuale, ma un intero mondo, un’intera epoca che si sprigiona.

 

 

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