Lorenzo Esposito
La scena del ballo di Vivre sa vie è un perfetto documentario. Vivre sa vie, un film che si estenua di primi piani, e poi ecco che la verità, vera e intatta, emerge abbagliante in questa danza a spirale intorno a un tavolo da biliardo e a qualche freddo bellimbusto. Guarda caso proprio quando Godard, forse con qualche desiderio non sottaciuto di godersi finalmente il movimento di macchina, sembrerebbe intenzionato più del solito a seguire l’evoluzione del personaggio piuttosto che documentare Anna. Lo so che non sei malinconica come vorrei, e allora sii felice per questi due minuti e mezzo, ma in modo che si capisca il tuo dolore. La concretezza della risposta di Anna Karina, che si torce e volteggia alzando la gambina, che sorride imperterrita ai maschi imbarazzati, non lascia scampo. È davvero solo una ragazza felice che balla e che vorrebbe solo ballare e essere felice. Forse Godard a un certo punto lo intuisce. Non c’è scampo al documentarsi della finzione. Il piano si interrompe e l’attacco successivo è un movimento sul vuoto, una lavagna, il termosifone, la finestra, una sedia alla parete, l’angolo del tavolo, ancora una finestra… Fino a qui siamo allo spettrale puro, l’occhio impersonale della caméra fantasma. Poi due uomini seduti guardano senza espressione quella che - in verità - è la soggettiva di Anna. Trascendenza della caméra-Karina. Questa donna-caméra ha degli occhi grandi e lievemente orientali, con una luce dentro che ha nostalgia di qualcosa, un sorriso largo che arriva fino agli zigomi, un caschetto nero fermato con due forcine, una camicetta bianca di pizzo e un golfino nero, una gonna lunga a quadretti, le gambe lunghe e magre, le scarpe nere lucide con i tacchi.