Lorenzo Esposito
Le ragazze, in pieno trip hippie, entrano in un laboratorio sotterraneo e si denudano ai piedi di una macchina del tempo (operazione ossessiva, erotica, che si eleva via via a coazione a ripetere), che le trasferisce in un futuro non precisato, una distesa rocciosa lunare in cui si accampano prolungando il trip ed esplorando quasi senza meta questa sorta di sogno interiore che, alla fine, si rivelerà il risultato ambiguo di un progetto di cui loro stesse e i loro padri sono colpevoli, riconosciute, in un ultimo tragico autostop, dagli abitanti di questa terra desolata, come delle intruse o file impazziti del programma. Non c’è più tempo né spazio, solo il delirio compulsivo e una lotta fratricida, allo spasimo. Ma la cosa notevole in questa corsa distopica, che si intitola Idaho Transfer, e che è il secondo sconosciutissimo e stupefacente dei tre film diretti da Peter Fonda (e che esce praticamente già invisibile in un anno, il 1973, che vede su questa linea Soylent Green di Fleischer, Westworld di Michael Chricton, Zardoz di John Boorman, The Crazies di George A. Romero - e che infine potete tutti liberamente vedere su YouTube anche adesso), la cosa notevole è che non solo tutta la struttura spazio-temporale che si allarga come un prisma, ma proprio la piega interna del film ne è affetta fino a spappolarsi, ad allungarsi in una dimensione cubista e iper-visiva, che in qualche modo porta alle estreme conseguenze l’insegnamento di Corman (gli incredibili venti minuti finali). Con una lucidità e intelligenza e generosità che però erano e sono solo di Peter Fonda.