"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Lorenzo Esposito

Mi sono sempre interrogato sul metodo di scrittura di Edoardo Bruno. Solo apparentemente impressionistico, era invece una miscela - spesso sintatticamente atipica e finanche irregolare - di emotività e razionale ingegno artigiano (nel senso rosselliniano).

Tutto nasceva da un’idea semplice e appassionante (la cui influenza è - tra i visionatori di film, non certo tra i filmcritici - molto, se non del tutto, sottovalutata), che il film, al tempo stesso soggetto e oggetto, vive soprattutto nelle sue pieghe, e che anche una singola motivazione, un colpo d’occhio con la coda dell’occhio (L’occhio, probabilmente si intitola uno dei più recenti libri di Bruno), un guizzo, anche solo una sequenza, sono sufficienti a tuffarsi di corsa e giocare d’azzardo con la sua struttura mobile mutante e segretamente filosofica.

Una lezione che mi porto dietro: Edoardo ‘vedeva’ un punto d’entrata e lo afferrava, velocissimo e spericolato, trasformandolo in un rovello anche linguistico, seguendolo ossessivamente fino al punto da non temere di essere ideologico (nel senso proprio di logos dell’idea, scienza antimetafisica dei fatti, dove i fatti qui sono le scelte che compie un regista). Da cui, per contrasto, il proverbiale “inutile parlare dei film che non ci parlano”. Altra lezione che va al di là delle differenti interpretazioni e delle diverse modalità - anche quelle che possono portare fino alla rottura dopo anni di percorsi e battaglie comuni - con cui una rivista di cinema (e non solo) può essere pensata.

È stato così fino all’ultimo. La lingua scritta testimonia con precisione questo doppio binario del pensiero, obliquo e duro, infantile (nel senso di Debord: “L’infanzia? Ma è qui; non ne siamo mai usciti”) e aspro.

Si prenda Confini - Un’estrema giovinezza, l’ultimo libro scritto da Edoardo che, fin dal titolo, è dunque esemplare. Ricordo, nella tradizionale conversazione col regista in occasione del Premio Filmcritica-Maestri del Cinema, un momento di contatto profondo tra Edoardo e Stanley Donen. Donen, cineasta mostruoso e geniale, spesso facilmente equivocato come mero esempio di gioioso incedere creativo, all’improvviso si esalta e annuisce seriamente quando Edoardo lo incalza chiedendogli piuttosto di quanta rabbia ci sia alla base del suo lavoro. Appunto: confini, estrema giovinezza. Da un lato un territorio da delimitare, dall’altro la battaglia ininterrotta per cancellare linee di demarcazione. “Scrivo, dunque penso” l’attacco cartesiano di un periodo che, insieme al successivo, apre il libro in lunghezza e flusso per più di una pagina giocando su continue contraddizioni interne: “penso di tuffarmi nella pagina bianca, libero di prendere una direzione qualsiasi” e subito, di contrasto: “ma poi non è così, molti inizi mi vengono in mente, Gide […]” e via di corsa: Sartre, Lynch, Beckett (che ritornerà per tutto il libro, a segnare questa idea della parola che scivola su se stessa arrampicandosi a ritroso per le vie impervie del pensiero), Boleslawsky (un suo cult), Cameron, Chaplin. “Dove sono? Come sono finito su questi tasti che sorprendono il pensiero senza dargli tempo di riflettere, senza ordine e ragione?” E ancora, poco dopo: “Dove sono finito? Ricordi senza logica, come volevo, senza paletti razionali, senza limiti, vasti, sconfinati, ma era poi questo che volevo?”. Malick, Kafka, Murnau, Mamoulian, Minnelli, Melville (fattore M, noto ora, con Kafka che è tutte le lettere dalla A alla Z).

Ricordi nomi e intuizioni presi nella fuga della parola e rovesciati a ‘riguardare’ lo scrivente (come l’angelo di Benjamin, che Edoardo aveva individuato di nuovo e ancora come premessa necessaria al numero finale, il 700, di “Filmcritica”), che sembra felice di perdersi e disperato per il troppo smarrirsi, per non riuscire, come vorrebbe chi si è fatto occupare dalle immagini per tutta la vita, a ridirle tutte in una sola infinita frase, in uno sguardo unico.

Esiste un’idea per un film intitolato L’invenzione americana, il trattamento scritto da Edoardo Bruno insieme a Alessandro Cappabianca (che ringrazio in modo particolare per avermene fatto regalo, a coprire i buchi della mia memoria ferma a un pomeriggio lontano nella redazione di “Filmcritica” in cui Edoardo e la sua amata compagna Amalia Chimenti, la ragazza, la donna che è sempre stata il cuore pulsante della rivista, mi parlarono del progetto). Nel film, attraverso il gioco serissimo di un “un bambino inquietante”, si svolgono i fili e i destini del mondo, cui basta mancare un ingranaggio per andare in mille pezzi. E insieme a questo però si svolge la concretezza, di nuovo l’occhio artigianale, con cui un bambino gioca a smontare il mondo. Se da un lato è possibile che questo piccolo meraviglioso demolitore professionista sia il cinema stesso, dall’altro non posso non pensare all’ammirazione che Edoardo aveva, e di cui mi parlava sovente, per le scene ne Il Messia di Rossellini in cui Cristo racconta le sue grandi parabole mentre lavora a confezionare oggetti di artigianato, utensili per la vita quotidiana, e che non a caso discusse insieme a Cappabianca (e a Enrico Magrelli e Michele Mancini) in una bellissima conversazione con Rossellini. Gli proposero: “Accetterebbe dunque per i suoi film la definizione di qualcosa come una grammatica delle cose?” Rossellini rispose: “Direi piuttosto un abbecedario. Non voglio fare altro”1.

Ecco, l’esperienza dello scrivere e del guardare di Edoardo era forse come quella del bambino del film mai fatto, un lambicco solitario ma curiosissimo di vedere che effetto faranno le sue invenzioni artigianali sulla realtà, desideroso di condividere e tuttavia disposto anche a rompere il giocattolo tanto amato pur di custodirne lui solo il segreto del funzionamento. Malinconico incosciente e iconoclasta. Proprio come i suoi amati Pinocchio e Piccolo Principe, che di Confini si prendono tanta parte, sconfinando e mostrandosi apertamente come “regno dell’impossibile possibile”. Di questo suo rapporto rocambolesco e tenace con la parola Edoardo era sempre al tempo stesso consapevole e genuinamente infastidito (nulla sfugge più della parola). Certi interrogativi nel libro arrivano come fulmini a ciel sereno: “Riuscirò mai a dare un ritmo al mio discorso? O, come diceva Rossellini, il ritmo si ha o non si ha?”, insistendo sull’idea di doppia posizione: lo slancio rabbioso e quasi volubile e la correzione materialista, politica.

Fantasia e disordine, probabilmente. Entrambi furenti però. Non a caso un momento di chiarezza assoluta del libro è la foto, che è anche l’unica immagine da ‘vedere’ (non ci sono fotogrammi o film se non quelli parlati), scattata da piccolo, la prima foto, una bambina la bambola e il ramoscello. Il narcisismo che, come per tutti noi, fa parte del gioco, curiosamente non agisce qui come meccanismo di germinazione ma come congegno che mina dall’interno il flusso costringendolo continuamente a interrompersi, deviare, scrivere sessanta pagine invece che seicento. Non si tratta di pigrizia, né di incostanza, quanto del tentativo febbrile di agganciare la prosa febbricitante dell’immagine. E, pur ammettendolo con difficoltà, è necessario dare un nome alla sconfitta. Si legge alla fine un brano così: “È notte, fa presto a diventare buio in inverno, non ho ancora sonno, i pensieri girano, mi rivedo cinquanta anni prima, nel 1968, giovane, impegnato, sognatore, ancora oggi, come prima, con lo stesso furore e con la stessa impotenza. Con la stessa gentilezza con cui so trattare i nemici”. Cui segue, gran finale, di nuovo in piena contraddizione, il ricordo di un viaggio in Palestina e, prima della chiusa via Alain, Bertold Brecht: “Oh, noi che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza, noi non potemmo essere gentili”.

 

1 E. Bruno, A. Cappabianca, E. Magrelli, M. Mancini (a cura di), Conversazione con Roberto Rossellini, “Filmcritica” nn. 264-265, maggio-giugno 1976, p 136.

 

 

Published in SPECIALE Confessions

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