"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Ho sempre pensato che ci fosse nell’opera di Federico Fellini un processo analitico segreto e sfuggente, una voce lunare che la modulava dall’interno avvitandola e insieme sottraendola allo spettacolo incosciente e profetico di continue e contrastanti fasi luminose e oscure.
Non era solo l’ovvia spinta a liberarsi dalle catene dell’incomprensione (la vulgata, l’equivoco inarrestabilmente planetario - vissuto da Fellini come una vera metamorfosi kafkiana - del fellinismo), ma proprio il ripetersi di un motivo interiore doloroso e di devastante impatto mentale e fisico. Sono anche convinto che è questo a fare di Fellini il secondo polo, da cui tutto discende, del pianeta cinema (italiano e non solo). I due poli in questione si incrociano all’origine di entrambe le carriere (l’uno già un po’ più avanti dell’altro, ma naturalmente predisposto a funzionare come nucleo che ne genera un secondo altrettanto potente) per poi costituire un asse di rotazione bifronte che permette a tutti gli astri successivi di organizzare liberamente il proprio movimento unico e singolare: Roberto Rossellini e Federico Fellini.
Ho sempre pensato che se c’era qualcuno in Italia in grado di arrampicarsi lassù e muoversi con balzi elastici e saggi in questo mirabolante traffico lunare: che avesse nell’uso suo tipico di una parola densa di significati fino all’imponderabile, il tocco magico, angelico quasi, necessario ad avvicinare un pensiero per immagini, quello di Fellini, insieme veggente e fragile, esplosivo e con la neanche tanto occulta ambizione di restare nell’ombra: ebbene, che questa persona fosse Bruno Roberti (senza dimenticare, certo, decenni di interventi e apporti essenziali, che infatti Roberti riporta, anzi direi proprio fruga minuziosamente come nel fondo del mare estraendone perle preziose e rare, nel geniale apparato di note che compendia ed esalta il suo bellissimo Federico Fellini. L’apparizione e l’ombra).
Scrive Roberti nella prima, illuminante, pagina: “L’orizzontalità e la frammentarietà delle immagini felliniane sganciano quindi il suo cinema dall’esperienza autobiografica, perché paradossalmente quelle stesse immagini possiedono come una risonanza universale e impersonale”. Lezione questa, per Fellini, che arriva direttamente da Rossellini, colui che di fatto lo convince a ‘restare’ cineasta (cioè umano) e sul quale anni dopo scriverà a sua volta un paragrafo inarrivato e non per caso troppo poco studiato da tutti i rosselliniani. Coerentemente, Roberti lo riporta per intero poche pagine dopo (e così chi scrive, per puro stupore e ammirazione):
“Rossellini […] viveva la vita di un film come un’avventura meravigliosa da vivere e raccontare allo stesso tempo. Il suo abbandono di fronte alla realtà, sempre attento, limpido, fervido, questo modo di situarsi in modo naturale in un punto impalpabile e unico nel suo genere tra l’indifferenza del distacco e l’adesione impulsiva, gli permetteva di catturare, di fissare il reale in ogni suo spazio, di guardare le cose dall’interno e dall’esterno insieme, di fotografare l’atmosfera intorno alle cose, di rivelare ciò che la vita ha di insondabile, di segreto, di magico. Non sarà forse tutto ciò il neorealismo?”1
Ora, al di là del fatto che è difficile trovare una ricostruzione del metodo rosselliniano altrettanto precisa e ispirata (compresa l’ancor più decisiva frase finale sul neorealismo che, col tipico tratto felliniano che unisce umiltà e ironia, si mantiene interrogativa), vi è inoltre racchiusa l’auto-analisi più lucida di ciò che di quel metodo si è tramutato nell’altro polo, con simile forza creatrice, ma espandendosi nell’impervio territorio creativo del paradosso e dell’inconscio.
I film di Fellini nascono da uno stato di crisi, o meglio possono essere fatti solo sul punto di fuoriuscita dalla crisi (che spesso non ha fine e si perpetua sul set). La crisi più nera, tremenda, che unisce depressioni abissali a odio assoluto per il film da fare. Si potrebbero suddividere i film di Fellini tra quelli che si lasciano andare a una quiete dopo la tempesta e quelli che invece ne traggono vantaggio perfino aizzandola e, come se fosse il film stesso a dirigere il regista, la sfruttano per valorizzare poeticamente il dato funereo.
Sfatiamo infatti un luogo comune. In Fellini amore per i propri personaggi, per i propri ricordi, per i propri sogni o visioni: questo mai, o pochissimo, e sempre, alla fine (di ogni film), un senso di vuoto e angoscia indelebili. Si rilegga il carteggio sublime Fellini-Simenon che, curiosamente, manca tra i certosini riferimenti di Roberti (lo segnalo benevolmente, da fratello - così come Simenon nell’abbrivio di una lettera dice ‘Caro Fellini, fratello’ e in un’altra ‘Caro grande Fellini’, dirò caro Roberti, fratello e caro grande Roberti - soprattutto affascinato dal processo inconscio che può aver portato all’assenza di questo testo essenziale). Fellini esce da quella che chiama la “condanna” di dover fare Il Casanova (probabilmente, secondo Simenon, il suo capolavoro) dopo un sogno liberatore in cui Simenon stesso gli appare indicandogli la strada; e Simenon (come Fellini con Rossellini) risponde alla rivelazione scrivendo sul cinema di Fellini le parole definitive (che riporto, di nuovo, con stupore e ammirazione)2:
“Probabilmente lei è l’unica persona al mondo cui mi senta legato sul piano creativo. […] Tutti e due siamo rimasti, e spero che tali resteremo sino alla fine, dei ragazzi cresciuti che obbediscono a impulsi interiori e spesso inesplicabili anziché a regole ormai prive di significato sia per lei che per me”[…]
“Come me, lei è un istintivo, credo di averglielo già detto, e quel che ha involontariamente registrato sin dall’infanzia, quel che ancora oggi continua inconsciamente a registrare, lo restituisce con forza centuplicata che delle sue opere opere universali.
La stessa cosa, anche se in piccolo, succede a me. Ed è sempre successa a Jean Renoir.
Siamo come spugne, assorbiamo la vita senza saperlo e la restituiamo poi trasformata ignari del processo alchemico che si è svolto dentro di noi”
“[…] lei crea con il suo inconscio e quando, come ora, si sente vuoto, è invece il momento in cui dentro di lei si compie il lavoro vero e proprio”
[…]
“Lei è un poeta maledetto, come Villon e Baudelaire, come Van Gogh e Poe. Io chiamo poeti maledetti tutti gli artisti che lavorano molto di più con l’inconscio che con l’intelligenza, che anche volendo non potrebbero fare se non quello che fanno e che a volte creano mostri, ma dei mostri universali”
Entrambi innamorati del circo: la lettera in cui Simenon rivela a Fellini gli anni in cui faceva il cronista con una rubrica sul circo a Liegi nel 1916 e poi la sua amicizia con la famiglia di clown Fratellini, che appaiono guarda caso ne I clowns di Fellini, e la storia d’amore con l’ultima della stirpe, se non fosse di per sé impagabile, sarebbe addirittura inquietante per corsi e ricorsi astrali.
Entrambi, soprattutto, cultori di Jung, e in particolare di quella che Fellini definisce “misteriosa sincronicità”: accadimenti esterni che coincidono, estranei e apparentemente senza una logica pre-ordinata, con altrettanti accadimenti interiori, per cui, con meno quotidiana distrazione, potremmo comprendere meglio i rapporti tra pensiero e materia. Fellini si riferisce semplicemente al fatto che tutte le volte che si trova immerso nell’angoscia più profonda giunge l’accadimento esterno - una lettera di Simenon: ma tutto questo processo in cui la materia esterna, attraverso una coincidenza inconscia, genera pensiero, è il processo (come Simenon evidenzia) dell’opera felliniana.
Per questo Roberti, nel tuffarsi a sua volta in questo mare in tempesta, in questi naufragi cosmici, insiste molto sul potere che in Fellini ha il fare film stesso, e non il racconto. Sono le immagini che lo attraversano, non il contrario, e, in quanto attraversato, non può che stupirsene. In questo, peraltro, in contatto perpetuo col polo-Rossellini, anzi, rosselliniano fino al midollo. Roberti non perde mai di vista questo crogiòlo comune che si irradia e si divarica lungo la dorsale variegata del cinema italiano: “Ma se il risvolto simbolico si dissimula nel film, persiste l’idea di erranza neorealistica e il labirinto animico si concreta nella strada come forma della vita e del destino collettivo, da cui scaturisce la violenza e la potenza dell’essere gettati nel mondo (è la lezione di Paisà e di Francesco giullare di Dio, assimilata da Fellini accanto a Rossellini)”. Roberti sta in questo caso parlando de La strada, ma appare chiaro che questa mirabile ricostruzione ideale è in realtà la nervatura stessa dei film di Fellini: indifferenza per il simbolo, erranza pura e rossellinianamente aggrappata alla realtà storica o contemporanea come luogo insieme vero e ineffabile e al limite del meraviglioso, inconscio che risale la corrente e si interroga sulla vita di tutti riconoscendo “un dolore che ciascuno porta in sé”3 (si pensi, cito a caso, a Il bidone, a Fellini Satyricon, a E la nave va).
Roberti cuce nel suo libro un fil rouge che riconduce tutto il lavoro felliniano alla posizione (all’inconscio) dello spettatore. Si ricordi, non a caso, il metodo di Fellini di non guardare mai i giornalieri, ma solo alla fine, come un vero spettatore, di farsi proiettare tutto il materiale e da lì cominciare a lavorarlo come un unico grande subconscio che vive e respira. Fellini è il primo stupefatto spettatore di se stesso, e per questo la situazione e il processo stesso del guardare sono al centro dei suoi film. È un caso talmente unico nella storia del cinema, che per scriverne è necessario verificare continuamente la distanza giusta e al tempo stesso immergersi senza timore nelle sue magnifiche contraddizioni.
È dunque per stare al passo di Fellini che Roberti, dopo aver allontanato la matrice autobiografica, con doppiezza felliniana la riporta in gioco e piomba senza paura in una dimensione creatrice più avanzata: “È significativo come dall’incrocio tra set e avvenimenti reali nascano, quasi per proliferazione, degli intrecci tra immaginazione e vita, a conferma del fatto che il tracciato biografico per Federico è interconnesso con il “vivere” il film”. Il set è pronto per diventare il tutto nel tutto che lo circonda. La narrazione è pronta per sperimentare il gioco ininterrotto di apparizioni e trasfigurazioni. L’immagine è pronta per essere la membrana “ipersensibile” che letteralmente respira il film e chi lo guarda. I cosiddetti “finti documentari-inchiesta” (che sinceramente fanno impallidire tutto l’odierno chiacchiericcio intorno all’illusoria linea di demarcazione tra fiction e non fiction) sono l’unica via possibile di un documentario che davvero desideri avere a che fare con la realtà: operazioni sciamaniche, viaggi medianici.
Grazie a queste intuizioni il libro di Bruno Roberti raggiunge uno stato di grazia in cui la parola e l’immagine si scambiano visioni terminali. Fellini difficilmente verrà più parlato con la medesima lingua misteriosa e rivelatrice che i suoi film sperimentavano sul campo. Cos’erano questi film? “Una sola grande immagine-brulichio entro cui lo spettatore, insieme al regista, può vagare come in un labirinto”. Cos’era Il Casanova? “Un balletto d’ombre elettrificato”. Cos’è il racconto? Una visione aerea, ventosissima, in cui “la finzione getta le sue ombre perché diventa via via la stoffa in cui si materializza, come un ectoplasma, quel mondo onirico che può rivelarsi anche minaccioso”. Dove finiscono tutte queste rovine circolari al termine della “danza macabra” (Roberti cita Eliot e Deleuze, ma vengono in mente anche Ophüls, Beckett..)? “Salvarsi e perdersi in un sol momento, tale è il destino delle immagini felliniane, della loro germinazione, che nasce da una fermentazione, da un deterioramento”. Cos’è la cinepresa? L’ultima delle apparizioni, un’ombra, un impaccio (di nuovo Rossellini): “Me ne frego dell’obiettivo. Devo essere in mezzo alle cose. Ho bisogno di conoscere tutto e tutti, di fare l’amore con tutto ciò che è intorno a me” (Roberti scova questa decisiva dichiarazione di Fellini che arriva a noi dal 1971). Cos’è la realtà? “Non si tratta tanto di fantasmi, di spiriti, di insorgenze dell’altra dimensione, quanto della possiilità di ‘vedere’ un rovescio del reale. Di rovesciare puntualmente la mise en scène”. Cos’è il tempo? Cos’è lo spazio? “[…] un corteo, una parata di creaure sommerse che sbucano dagli angoli più impensati delle inquadrature, piuttosto che in una ricostruzione del passato, in una sua decostruzione proiettata nella sconosciutezza dell’avvenire”. Roberti qui sta infine volando con Fellini, suo fratello:
“Si aprono abissi, palpitano nel momento in cui precipitano le visioni, un ribollire sotterraneo che continuamente emerge come dal fondo materico della pellicola. Le immagini fermentano alchemicamente. L’orizzonte è basso e incombente eppure si apre in squarci infiniti. Una ‘adimensionalità’ in cui le forze imprimono in modo incessante alle forme una deriva. Un naufragio di detriti scomposto in posture indecifrabili, impastato di gesti sospesi, di cifre corporali inorganiche in cui le ombre ancora una volta danzano ma in un balletto arcano e automatico”
Nessuno come Fellini ha esplorato (a sue spese, sempre sull’orlo del crollo nervoso) questo aspetto dell’immagine e di quello che il cinema scommette di continuo nella sua conversazione con e attraverso l’immagine: essere al tempo stesso uno sguardo sulla morte e il rinvenimento di un luogo di rinascita. Senza mai tuttavia - questo è d’altra parte più difficile e di pochissimi (Rossellini di sicuro, poi Ferreri, Sergio Citti e pochi, davvero pochi altri) - prendersi sul serio, se possibile combattere se stessi fino a ‘bidonarsi’ (il capolavoro Il bidone, non solo è l’entrata definitiva di Fellini nel mondo dei fantasmi che disarciona in un sol colpo il proprio cinema e lo spettatore, ma è l’ordigno che - talmente potente da risultare ancora oggi quasi invisibile - compendia e rovescia la storia del cinema italiano fino a quel momento). Solo così può cominciare il traffico sacro di segni che porta a giocare pericolosamente con l’oscurità e a farsi follemente attraversare dallo spreco e dalla tentazione di non finire mai e di ricominciare sempre (Il viaggio di Mastorna).
1 F. Fellini, Fare un film, Einaudi, Torino 1980, p.138.
2 Carissimo Simenon Mon cher Fellini, Adelphi 1998. Le cit. che seguono sono ripettivamente alle pp. 36-37, 41, 69, 132.