Differenza e ripetizione di una dramma troppo umano
Lucrezia Ercolani
L’attrice Berth Bovy, un letto, un telefono. Questo fu il primo allestimento de La voix humaine, monologo di Jean Cocteau presentato alla Comédie-Française nel 1930. L’idea dell’autore era quella di mostrare una donna completamente devota al proprio compagno nel corso della loro ultima telefonata, in seguito alla scelta di lui di rinunciare a quella relazione clandestina. È una scena da sempre presente nei meandri della nostra psiche, tanto che non udiamo mai le parole dell’uomo ma sono estremamente semplici da immaginare. Lo sono anche quelle di Elle in effetti, perché come scrive Barthes, «il testo amoroso (un testo e niente di più) è fatto di piccoli narcisismi, di meschinità psicologiche; esso non ha grandiosità: oppure la sua grandiosità (ma chi è che, socialmente, può ravvisarla?) sta appunto nel non poter raggiungere nessuna grandezza, neppure quella del “materialismo spicciolo”». Insomma la grandezza sta nel girare intorno a qualcosa di enorme, misterioso, che viene avvicinato attraverso balbettii e frasi di circostanza. Frammenti di un discorso amoroso è un libro in sintonia con il monologo di Cocteau perché ci mostra il carattere archetipico e sovrapersonale dei discorsi d’amore, è in questi casi più che mai che siamo parlati da parole che ci precedono, immagini che ci sfuggono, divinità che si perdono nel tempo.
La forza del testo risiede quindi unicamente nell’interpretazione, nella voce appunto. In tutte quelle sottili sfumature che si concretizzano in un timbro unico. Nelle numerosissime messe in scena de La voix humaine da novant’anni a questa parte si manifestano allora altrettante variazioni su tema di un copione invisibile, andrebbero osservate in controluce per carpire la filigrana di un dramma universale che continua a parlarci.
Dal 1930 passano diciotto anni e una guerra fino a al momento in cui Rossellini recupera il testo e lo fa interpretare alla Magnani ne L’amore. Rispetto al lungo vestito bianco e ai capelli raccolti di Bovy, la grande attrice romana porta con sé un’altra immagine. La disperazione amorosa abbrutisce perché se non si mangia più, non si dorme più e si ingeriscono delle pillole per giocare con la morte, sarà difficile apparire come ninfe leggiadre. Il dolore è brutto, è sporco, è animalesco. Non c’è nessuna redenzione nel soffrire ma solo un toccare il fondo. Questa interpretazione magistrale della Magnani portò ad una vera e propria esplosione, il monologo negli anni ’50 e ’60 verrà proposto un’infinità di volte a teatro, al cinema, in tv e su dischi 33 giri. Uno strano scherzo del destino (?) fa sì che nel ’66 anche Ingrid Bergman interpreta The human voice in un adattamento televisivo diretto da Ted Kotcheff. La versione operistica di Francis Poulenc per soprano e orchestra del 1958, con il libretto curato sempre da Cocteau, inaugura un percorso parallelo anch’esso molto fortunato (che giunge fino all’allestimento di Emma Dante ai giorni nostri).
Almodóvar aveva già preso ispirazione da La voix humaine per Donne sull’orlo di una crisi di nervi. Tanti anni dopo ha scelto di tornare sul testo, riscrivendo lui stesso le parole di Cocteau in spagnolo per poi tradurle in inglese, operazione indolore proprio per il carattere universale del discorso amoroso. La scelta di fondo è sostanzialmente opposta a quella di Rossellini: il film è ambientato in una casa estremamente curata, con quadri e mobili di classe, Tilda Swinton indossa vestiti eleganti e alla moda, utilizza profumi costosi mentre la cornetta del telefono è sostituita da dei modernissimi airpods. Un richiamo alla frivolezza del mondo cinematografico dichiara il regista, ma sembra anche un’allusione al fatto che qualsiasi donna, non importa quanto agiata e cultivée, possa trovarsi in questo ruolo. Nella sua compostezza British, l’attrice trasmette un dolore sordo e profondo. Un elemento importante è il ruolo di primo piano affidato al cane, già evocato nel testo. Il padrone dell’animale è sempre l’uomo in fuga, che l’ha lasciato alla donna senza fare complimenti, contro la sua volontà. Entrambi sono stati abbandonati ma il cane rappresenta una sorta di ancora per Elle, un appiglio alla realtà e alla vita, a qualcosa che esiste al di fuori del dolore lancinante. Naturalmente è anche un essere non colpevole, rispetto alle turpitudini tra cui si destreggia l’amante-essere umano. Swinton ha dichiarato che, lei lo sa per certo, la vita di una donna sola con un cane è una bella vita. Ad ogni modo, l’animale potrebbe essere una chiave importante per il finale, in cui Almodóvar ha inserito la nota più originale. Laddove la Magnani terminava con un lungo pianto, il regista spagnolo ha ritenuto necessario un momento di riscatto: Swinton esce dalla casa (insieme al quadrupede) che viene mostrata per quella che è - un set costruito all’interno di un ambiente molto più grande - e le dà fuoco. Un epilogo totalmente diverso dall’originale. Il momento di vendetta, con tanto di esplosione ed effetti speciali, potrebbe apparire un po’ forzato, è interessante però l’idea di abbandonare o distruggere il teatro mentale: la casa non è una prigione, anzi, non ha neppure le pareti. Il punto è riconoscere la finzione, capire che si può sfuggire al ricatto. È chiaro che, senza voler cavalcare nessuna onda, The human voice pone la questione delle specificità ataviche dei sessi - è possibile immaginarci una versione al maschile? Perché sembra così difficile (tanto che nessuno ci ha mai provato)? Le parole dall’altro capo della cornetta, potrebbe pronunciarle una donna? Sono ancora quelle immagini antiche che vanno interrogate, o quei frammenti di discorso; intanto nel corso degli anni nuove sfumature sono state aggiunte al ruolo, sempre più distante dalla vittima sacrificale di Cocteau, fino al fuoco di Almodòvar.