"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Ecco di nuovo la Russia con le sue luci ambrate sotto una neve eterna. Un Capodanno dopo l’altro, la ripetizione del rito, la famiglia barocca che si riunisce su un tappeto d’anni barocchi (Nabokov si sarebbe divertito). Non solo la lezione della Muratova ma l’eco del Klimov di Agony sembra ispirare questo racconto matriarcale di fate della grande Renata Litvinova. L’attesa della ‘tredicesima ora’ può portare la vita in un labirinto strabiliante di vesti e arazzi e specchi, oppure all’agognata fine in una risata d’amore e d’angoscia. Ma la felicità in questo mondo sospeso autocelebrante è folle, visionaria, incontrollata. Le regia stessa c’è per mettersi a soqquadro. E tutto, al contrario, comincia a colare a picco. Il caos. Basta poco, un tassello che viene a mancare, l’amore. Per colpa di un uomo inadeguato, di solito. “Stai lì ad aspettarli e non c’è niente da aspettare”. Ma la ripetizione di gesti e dialoghi, cioè la struttura stessa del film, è il dato reale, quotidiano, o meglio l’ironia acida con cui lo si testimonia (qui la Litvinova è totalmente muratoviana), la semplice constatazione che la vita di tutti i giorni è fatta per la maggior parte di gesti sempre uguali e che siamo tutti immersi in un’eterna prova dello spettacolo che ci affligge. Eppure domani è un nuovo giorno. Anche la Litvinova è, in fondo, una fervente proustiana.