"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Spesso, pur nell’aridità continua in cui siamo (auto)confinati, sorge l’interrogativo sul senso dell’amore, sulla sua declinazione e la sua sintassi oggi, senza preoccuparsi del suo possibile contenuto. Definire una mappatura permanente dell’amare, lo spazio del far convergere elementi in un tempo infinito, dove solo la durata possa scorrere ad alienare le nostre ossessioni. Julio Bressane è, di tutto questo, esploratore estremo ed ultimo, dall’abisso delle emozioni del farsi di un set, alla deriva cosmica della genesi di un’immagine. Ben consapevole che ora, più che mai, per poter amare dobbiamo aver il coraggio di mettere in gioco tutto, compreso il contrappasso possibile dell’oblio.
Siamo tutti navigatori, sì, sempre più legati al voler continuamente riferire il fremito caldo della luce alla fenomenologia di una lingua sconosciuta, alla radice di un sentimento. L’educazione sentimentale ora diventa la modulazione della diseducazione di coordinate perse, di etica dell’esercizio di una passione, di esperienza sensibile dell’appartenersi oscillante tra soggetto e oggetto, come tra autore e spettatore. L’esperienza degli abitanti di quel set continuo in costruzione (o distruzione?) in cui il cinema trova il suo farsi, culla di visione, embrione di carne viva che riflette il battito cardiaco e i nervi scoperti. Il gioco è flusso continuo, dove il montaggio si fa struttura liquida e impavida della scoperta e del sentimento come della loro rappresentazione. Uomo e donna, nessuno può sapere se si vedano, ma sicuramente non possono appartenersi. Rimane l’istante, l’attimo in cui si scontrano liberato da quel tempo. Poi, lo stacco, il teatro domestico in cui l’uno vive nell’altra, attraverso la passione che può detonare qualsiasi coscienza individuale.
La prima voce del film, il primo dialogo, i fonemi iniziali sono: amor / humor. È una poesia di Oswald de Andrade, essenziale ed esistenziale, come il primo sorriso di lei a cui lui non sa rispondere, flusso vitale e liberatorio. Il resto è la continua e indefinita reiterazione di un’impressione, dualismi di letteratura (da Machado de Assis ad António Vieira), filosofia (la roccia di Surley che ispirò a Nietzsche la teoria dell’eterno ritorno, il pendolo di Foucault che rimbalza nell’anima), storia (l’attrice che rappresenta la difficile scena della civetta di Atena, l’epopea del Brasile), di maschile e di femminile. Ogni nuova parola è scoperta, ogni svolta, ogni sogno che ritorna e che si evolve, ogni battaglia casalinga si fa ludica comprensione di suoni e luci, tra un’ebbrezza e una metamorfosi, ed ogni scoperta sottolinea l’incompletezza di corpo e anima. Poi l’erotismo di un trenino giocattolo su paesaggio femminile, di un sensuale spruzzo d’acqua, di un’orgasmica borsetta, di una piramide americana dal senso magico, e addirittura di una guerra in cartapesta. Ogni oggetto si fa specchio di noi stessi, ogni lettera si fa pantomima e desiderio di una fantasia, la sensualità che si impone all’oblio, o all’immaginazione della sola domanda “Quem somos nós?”
Un altro lui, un’altra lei, altri noi. In principio fu l’uomo, e l’idea che il suo amore non potesse finire, ma solamente trasformarsi. Prima venne l’immagine e poi la parola, prima venne il montaggio e poi il cinema, sarà solo l’oggetto dell’amore a cambiare, e la radice di ciò non può che essere la ferita scavata nella necessità del rinnovarsi di un altro frammento di poesia strappato alla vita, il cinema. Nella pratica del ripensare e riscrivere dello stesso Bressane, riemergono A Fada do Oriente e soprattutto Memórias de um estrangulador de loiras, che sopravvivono nella finzione di un’altra finzione, e quindi nel reale. Sarà lei ad esser strangolata, o forse no. Saranno le corde, saranno le sue stesse mani, sarà lo stesso cinema di amore e di morte. La resistenza di questa mappatura non è altro che la reiterazione continua dello svelamento della rappresentazione in una manifestazione più pura dell’esistere attraverso gesti, ombre, elementi, materie, forme e traduzioni di tutti questi significanti nel senso comune ed intimo dello scoprirsi al mondo. Il dispositivo così ancora una volta crolla nella tensione di uno sguardo uditivo ed un ascolto visivo, nell’esigenza di allontanamento e vicinanza, nella proiezione dalle infinite prospettive di una materia viva e flagrante, nell’identità sempre più libera della suggestione condivisa. Beduino (da badw, abitante) è cinema locale quanto universale del desiderio e del dono, che trova nella compenetrazione di infinite traiettorie disegnate dai corpi (come dai linguaggi) un amore arcaico e folle, moderno ed ininterrotto nello sperimentare la vita. Atto di disperatissima, e mai così dolce, tensione del conoscere e del conoscersi. Un invito a tutti coloro che abitiamo e alle anime che ci abitano.
Boy meets girl at the end of the world. Once again, Julio Bressane stages the beginning of life itself as a stylized and dysfunctional yet mysteriously minnellian dance. O Garoto, element of the collective project Telha brilhadora, that comprises also O prefeito by Bruno Safadi, O espelho by Rodrigo Lima and Origem do mundo by Moa Batsow, is a film that has at its core a mischievous insurgent sexual energy that bristles and sparks relentlessly poetic hybris. Those who are not familiar with Bressane’s work may be puzzled by the minimalistic approach and its reiterative patterns, but it is obvious that O Garoto (The Kid) is just a different kind of educaçao sentimental. The boy and the girl inhabit a world whose only other sign of life is a rhythm pattern that seems to be almost detached from them, even though they watch and listen amused to the silent musician who keeps drumming away. The other element is the camera itself. The sensual geometries of the film try to make this triangle work. The camera wants to make love with the bodies in front of it. But the gaze of the girl and the boy point out toward the wilderness, a barren yet intoxicatingly magnificent landscape. This impossible triangle tries to claim hold of the land. Make it again a land of the living. Or, at least, they try to survive in and on it again. Let’s rewrite the social contract for the very last time. As it happens with Bressane’s recent work, O Garoto also recalls elements and patterns from his previous films. These fragments of memories and echoes from a different time are the tools with which Bressane shapes his vision. His newfound Adam and Eve are the sign of a never ending quest. To regain the world, that is the problem. As in O gigante da America, the film is also an arcane and bewildering reflection on the results of colonialism. O Garoto is definitely Bressane’s song of exile. His Paradise Lost, if you want. Minus the angels and the devils. Minus god. There is no regenerative utopia here. The two are destined to be apart. And even though the girl tries to break the diaphragm that separates her from the boy and the camera and the audience (the most sublime moment of the film), she is on her own as is the boy. Bressane films the end of the world as a reenactment of the origins of cinema: a boy and a girl. One plus one. Where the plus sign is obviously the camera itself. A precise yet restless camera, that roams a never before seen landscape as if it were the ultimate set of the world. A world that still hopes to be filmed, seen, and experienced as such. Bressane thus offers the image of a filmmaker at the end of time and space. Looking for signs of life, Bressane comes up with a sensual dance that manages to rethink the Lumière brothers filmmaking in an utterly innovative way.