"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Salpato da un porto di luccicanze, crepuscolo elettrico, cigolante già il proprio non essere più, la propria evanescenza accesa nel tremolio dei fari, Dead Slow Ahead è ecosistema di galleggiamento, di deriva, di protratta avaria in acque morte. Vive in una massa, un’inerzia d’acqua-tempo stagnante nonostante il moto ondoso che si vede dagli spiragli dell’inquadratura: mare aperto e spume, fino a banchi d’acqua colloidale, che si muovono lentamente in una plaga bianca, come intima ossessione, lo slow, dello sbaraglio del mare. La proiezione verso una stasi contemplativa e sibilante (arrivando fino alla soglia del dead) è incarnata dal passo rallentato delle sequenze: la dilatazione propria della macchina-cinema, che ampliando lo scavo sulle cose, le trasmuta vastamente, devastatamente in materia ultradensa, eppure evaporante oltre i propri contorni; e in apparato ipnotico, psichedelico di oggetti sonanti. Il che riguarda il processo di astrazione e di coordinazione attuato da Mauro Herce, tra la macchina e la natura, lo smalto, spesso ammaccato dei volani, dei grossi conduttori a bulloni, i radar, e il disegno dell’orizzonte, tra mare e cielo, come nella sequenza in cui lo strato orizzontale di nuvole forma una futuribile eppure ontologica coreografia con il torrione e le balconate del cargo, o le lamiere rosse con una pozzanghera specchiante: una neo-ontologia del quadro che, in ansia di astrazione, si avvicina a quelle spurie, altrimenti contingenti, di Tsai Ming-liang (garage invasi d’acqua in cui svolazzavano grandi e variopinte farfalle) o del Tarkovskij della zona che andava marcendo per infiltrazione e religione.
Ed è in questa zona morta (o morente) che sfolgora l’estetica (del negativo), cioè la constatazione della propria splendida estenuazione: una bellezza che mentre si disfa, si sdà alla macchina, sibila, canta di un canto cupo, vastamente, sullo sfondo che si sfinisce a perdita d’occhio. È la melopea affiorante dalla radice, anzi dalla sostanza delle cose, che siano artificiali o naturali, collante ed essenza di questa ontologia mutante, mito-macchina che risuona nella confusione dei rumori contingenti, degli apparecchi viventi nell’emissione di bip e ronfi, grida di lamiere, di venti sul ponte mentre la ciurma annega sottocoperta; e di una musica ambientale di poche note protratte, a innervare e affogare questo morto brulicame, che rivive all’infinito le fasi del suo sfinirsi in acque internazionali. Nave-fantasma, la “Fair Lady”, desta nei ricordi di Liverpool e Fantasma e dell’accrocco (generante metafisica, materia deliquescente) posto nelle stive ospedaliere di Sang Sattawat, con un senso di perdita, di fredda desolazione dell’immagine che è di Bartas. Ma certo Herce va oltre, conformando la sua (im)personale neo-ontologia nel lento movimento dell’avaria, della dimenticanza acquorea, nelle cui plaghe, non abissi, il “discorso” è di vastità, non di profondità, nel cui spazio piano, vastamente reliquiario, sembra divenire, oltre la fine del film, l’estetica dello sfacelo.