"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Gli angeli dal suono della sua voce conoscono l’amore di un uomo , dall’articolazione del suono riconoscono il suo regno, e dal senso delle sue parole il modo di conoscere. (voce femminile fuoricampo in esergo al film)
Il microfono è in campo. Dall’alto giunge volando il microfono, una bambina seduta, come in Balthus, guarda certa-incerta verso di noi. “Suono!” Prima del cielo e della terra, solo le onde sonore. Uno sfrigolio, un luccichio, una nebulosa (la frittata in un pentolino, forma divinatoria), come ab initio, caosmico, della Comedia de Deus. Il film di Rita Azevedo Gomez divarica le distanze, gli echi, appunto le corrispondenze, per compitare una rinascita, ritessere le voci di due poeti lontani e ridare vita, nell’arco “in cielo” dell’epifania del suono, a una parola che mentre “manca” , mentre si pone continuamente fuori campo, da luogo, in presenza, al farsi dell’immagine, anzi al suo moltiplicarsi in intarsi e iscrizioni di schermi, in “angoli tra luce e buio”, in rimbalzi vocali e immaginali. La lingua degli angeli. Lingua di nascita e di scissione, in cui il nostro Altro si pone come corpo sottile, si pone accanto, aleggiando a mezzaria. Lingua animale, corpo e lingua, possibilità di filmare il corpo poetico con il suo peso leggero che ogni volta occupa uno spazio diverso, e oscilla sospinto, e invisibile. Come quell’altalena che viene mossa da un vento che scalpita. Ai quattro angoli del mondo, come i cavalli del vento.
“Mi viene in mente la sentenza di quel padre Malagrida, messo in esergo da Stendhal al capitolo XII del Rosso e il nero. “La parole a été donnée à l’homme pour cacher sa pensée”. Non lo intendo solo nel senso che grazie alla parola egli può nascondersi agli altri ; ma che si nasconde, volente o nolente, anche a se stesso. Penso che il Doppio sia nato da questa divaricazione. Con la maschera, con le figure del discorso, col fatto stesso di autorappresentarsi (mentre all’animale sarebbe bastato essere). Mentre ci estrania al corpo, all’animale, alla semplicità dell’essere, lo sdoppiamento prepara i viaggi estatici. Qui morire significa rinascere.” (Vincenzo Loriga L’angelo e l’animale )
Nel film le voci e le parole di De Sena e De Mello, la loro corrispondenza, rispondono a un tra-guardare, che è anche un tra-guardo diffratto e sdoppiato nel tempo e collocato-ricollocato nello spazio. In quello spazio che, come nei film di Pollet, corrisponde alla “dimora inquieta”, con il suo “tavolo su cui poggia l’enorme mela rossa, nella stanza sul mare”, con le porte e le finestre che si aprono e si s-chiudono su altrettanti schermi. E gli schermi sono i battiti d’ala di un angelo che vola da una parte all’altra. Tra i soffitti e i pavimenti. Tra gli arbusti portoghesi di un orto botanico e le onde dell’oceano che sbattono sulle rocce brasiliane o sulle spiagge californiane (dove de Sena si esiliò), laddove, città degli Angeli, i piedi alati osano, esitano, sfiorare la terra. A volo d’uccello, come sul “miradouro” che a Lisbona è stato dedicato, a picco sull’amato mare-fluidofiume, a Sophia. Massima distanza e massima prossimità, dis-giunzione che è “l’intensità del vuoto e l’intensità della comunione”. Lotta con l’angelo fino all’alba, presso la scala su cui vanno e vengono le anime, vita delle immagini che sarebbe “la lotta d’immagini che non vogliono morire”. Ecco appunto la metamorfosi, o metempsicosi, in cui, da un punto sempre diverso, l’immagine rinasce a se stessa, proprio nel momento in cui il suono si accende come un attrito, un toccare la luce improvvisa che scaturisce dall’ascolto dell’aria intorno, dal captare, in presa diretta la grana di quella voce. Lingua degli uomini, lingua degli angeli, lingua degli uccelli. Ascoltiamo: “Gli uomini erano angeli e sono diventati uomini. Gli uomini erano uomini e sono diventati animali.” Gli animali tornano ad essere angeli, nelle costellazioni, nelle corrispondenze. Nelle voci che si rispondono, nelle lingue (francesi, portoghesi, spagnole) che sobbalzano ogni volta che il microfono entra ed esce dal campo. Sono proiezioni del destino, sono trasparenze imbricate le une nelle altre a lasciar vedere, intravedere, intrasentire. E sembra non ci sia luce, eppure una piccola luce luccica, “una piccola luce e tutte le lingue del mondo”. Nel silenzio si sente lo scalpiccio del cavaliere che monta i cavalli del vento. Un cavaliere che (come avviene nel Fisico Prodigioso di De Sena, e come viene assorbito nel-dal film) può fermare il tempo e rendersi invisibile, proprio perché parla con gli angeli, mentre cadono, e quindi compone “diablerie” insieme agli angeli che cadono come stelle, durante la loro caduta, la “scorribanda” del demonio, che è come l’aleggiare di quell’angelo. Qualcosa da guardare da lontano, da “tra-guardare”. Un indotto nomadismo, va e viene di una voce. Che già filmò, in quanto voce di Sophia, Joao Cesar Monteiro nel 1969. E che ora ritorna, attraverso il tempo. Laddove si mettono le ali per innalzarsi lungo le spire serpentine (come i boccoli e la collana viva di Simonetta Vespucci nella tavola di Piero di Cosimo) del labirinto nelle nostre vene, dove il sangue parla lungo i secoli, e vaticina. Presiedendo quell’Apollo Delio, quel Minotauro, quegli Idoli Cicladici che appaiono nel film come d’improvviso. Pietre che parlano, pietre di luce che emettono immagini, per l’alchimia del verbo cui De Sena si richiamava, scrivendo anche lui la sua Pedra Filosofal. Oppure, tra cielo e mare, ponendo in esergo al suo Fisico prodigioso le parole di Rimbaud, fanciullo divino, che reclama l’orina dei fanciulli (immagine alchemica dell’oro filosofale): “Je pisse vers le cieux trés haut e trés loin-avec l’assentiment des grands héliotropes”.
Hay pájaros, muchos pájaros en la tercera y última parte de la trilogía que Miguel Gomes presentó en la Quincena de Realizadores del Festival de Cannes, bajo el título de As mil e uma noites. Hay muchos pájaros en una película que no es solo la tercera parte de una trilogía, que no es un resumen de las otras dos, sino una propuesta cinematográfica en sí misma. Y quizás la más libre de una trilogía que reivindica de forma evidente la locura, la libertad, el error, el disparate, y el goce, el ecantamiento, frente a la grisura, la tristeza, la formalidad y las políticas económicas sustentadas en el dolor ajeno. Hay muchos pájaros, y la metáfora podría ser fácil, y también errónea: los pájaros son esos animales fáciles de leer en clave simbólica como imágenes de la libertad, el escape, el vuelo libre y sin amo. Pero Gomes, encantador inteligente, no cae en la trampa fácil de la metáfora barata, y lo que propone en este tercer volúmen, llamado así O Encantado, es un encantamiento colectivo para conjurar los embates del mal: uno, dos, tres. Hipnotizados.
La gran parte de esta película, casi cincuenta minutos, es un documental hipnótico, un ejercicio de prestidigitación cinematográfica dedicado a retratar con detalle el trabajo aparentemente absurdo de una comunidad de los arrabales de una ciudad portuguesa dedicada a una tarea invisible y secreta: la captura de pinzones para educarlos posteriormente en cantos antiguos que recuperan de viejas grabaciones, o que recomponen pacientemente en rudimentarios equipos informáticos. Una tarea a la que dedican su vida entera por el mero hecho de practicarla: por la belleza, y no por el rendimiento, por el goce, y no por el dinero, por la memoria, por el tiempo disfrutado, por la poesía, los cantos, los pájaros. Un documental, inserto con total naturalidad en una película que no es ficción, pero tampoco documental, sino un compendio de todo lo posible y lo imposible, que no es solo el retrato de un ejercicio de resistencia, de puesta en práctica de la belleza frente a un mundo azotado por las sombras del paro, la crisis y los recortes, sino un ejemplo de que el cine político puede encontrar caminos insondables. En los pájaros, por ejemplo, que hipnotizan al espectador con sus cantos casi constantes durante 45 minutos, creando ese encantamiento del que habla el título: un espacio de resistencia, un acto de amor por lo mínimo, por aquello que no tiene valor de cambio, no genera plusvalía, no es monetizable, y por tanto, es imposible de recortar o contabilizar. En aquello que además se realiza en colectivo. Como cantaba el movimiento 15M en España, que inauguró una nueva concepción de lo común en la poliica: “Nos quieren en soledad, nos tendrán en común”. Así, la película reivindica lo colectivo, lo grupal, la vivencia en sociedad de que quizás no es real, pero tampoco imaginado. Como el propio Gomes reconocía en una entrevista con Mark Peranson, “In all the film we spend our time trying to organize this battle between the imaginary and reality - what belongs to Portugal, and what belongs to the tale of Scheherazade”. ¿Y a quién le importa la respuesta? Con su equilibrio entre lo documental y lo imaginario, entre los cuentos de Sherezade, a la que vemos cantar, gozar, bailar, huir, beber, amar, y los cuentos extraídos de la realidad de un país al que quería arrasado, en soledad, Gomes entra de lleno en esa categoría que Paul Ward denomina “lo irreal”: “The ‘irreal’ does not simply refer to something that is ‘not real’ but is a distinction between objective reality on the one hand and outright fantasy on the other. The irreal is distinguished from both of these by virtue of being a recognizable reality that does not literally exist in the objective world ‘out there’, but might be said to be (hypothetically) derived from it”. Nos tendrán en común. Encantados. O cantando, contando cuentos, silbando, bailando. Durante mil y una noches.
Although Arabian Nights is a work of perpetual interpolation, it’s the second volume that celebrates both the pleasure and pain of insertion, for when one thing is put into another, some things change, but others do not. Perhaps that’s what makes The Desolate One so affecting, the slow, aching realisation that however joyful the insertion, it will still be swallowed up by reality sooner or later. Even where there is blood, there will later be pragmatism.
Clad in red, rangy fugitive Simão always feels like a foreign body against the greens, yellows and browns of the Portuguese landscape, despite his best efforts to blend in. At one point, he does indeed vanish into the vista behind him, only to frustratingly reappear shortly afterwards. As Simão roves this austere realm, a string of absurdities is inserted into his wanderings: a donkey dragging Miguel Gomes’ bloodied corpse, a trio of nubile women who offer all the trimmings, a pedalo for pottering across a lake. But all this absurdity comes to nothing in the impassive setting, drowned out by the relentless buzzing of insects, the roar of the wind, the sound of birdsong. It’s no surprise when the landscape finally expels Simão too, his capture as implacable as the air, the rocks and the sun or the lone poplar visible from his cell.
A principled judge must preside over a straightforward matter, the case of a desperate woman driven to sell her landlord’s possessions. Everyday life in a Portugal gripped by austerity, even if this nocturnal assembly is held in an ancient amphitheatre and not all its attendees are human. As the judge probes further, the circle of the implicated only widens: a runaway cow, a yelping pack of unrepentant thieves, a put-upon genie, a mournful olive tree. Yet all these gleeful injections of fantasy fall silent in the face of reality, each happy flight of fancy wrenched back down to earth by another true-life detail of Portuguese suffering. And it’s inevitably one final insertion that brings tears to the judge’s eyes, a note placed in a wallet to replace the money it held, a dignified apology for a theft whose only culprit is the situation itself.
Somewhere among the trees, mist and herds of sheep, there lies a housing estate whose inhabitants are uncommonly sad, grown weary of evictions, rusted-up lifts and the air currents that circulate between the blocks. Yet one day, a mysterious newcomer arrives to lift the gloom, a quiet marvel in the form of a white dog named Dixie. His is a truly beneficent presence which does indeed spread joy, offering comfort to the desperate and uniting the marginalised. But tragedy is an unstoppable force, for even inserting such a perfect machine for loving into this cruel world cannot change its essential nature. Maybe that’s why Dixie must also be a machine for forgetting, shutting out the misery around him so as to continue his mission, the only thing able to confound him being the sheer miracle of his own spectral presence.
“Oh re fortunato e felice, si racconta che in un triste paese tra i paesi, dove si sognano di balene e sirene, la disoccupazione si espande. In certe zone la foresta brucia la notte nonostante la pioggia e in altre uomini e donne fremono d’impazienza per tuffarsi nell’oceano in pieno inverno. A volte gli animali parlano, benché sia improbabile che qualcuno li ascolti. In questo paese, in cui le cose non sono quelle sembrano essere, gli uomini di potere si spostano cavalcando cammelli e nascondono permanenti e vergognose erezioni, nell’attesa che arrivi il momento della raccolta delle tasse per poter pagare lo stregone che...”
Così Sherazade comincia a raccontare le sue storie al sovrano in As Mil e Uma Noites Vol.1 – O Inquieto di Miguel Gomes. Il “triste paese” di cui si narra è il Portogallo, “triste paese tra i paesi” d’Europa, capo/testa d’Europa, ma anche appendice, estremità, confine di un continente che è stato a sua volta caput mundi, ma che forse non è altro che estrema propaggine dell’Asia. O, forse, solo propaggine fallica di uomini potenti e senza controllo che viaggiano su cammelli...
Il 20 maggio del 1990 Jacques Derrida tenne una conferenza a Torino dal titolo “L’altro capo – Memorie, risposte, responsabilità”, nell’ambito di un convegno che si proponeva di ragionare su “L’identità culturale europea”. Derrida, ispirato da alcuni testi di Paul Valéry, scritti nell’imminenza della Seconda Guerra Mondiale, cercava di descrivere un’Europa in cui da poco era caduto il muro di Berlino, in cui si agitavano ancora confuse perestrojke, in cui il capitalismo occidentale sembrava trionfare e la storia sembrava finire, nell’imminenza di possibili razzismi, nazionalismi e diseguaglianze sempre maggiori.
25 anni dopo, sugli schermi di Cannes, al giorno d’oggi, un regista portoghese si agita, inquieto, durante le riprese del suo film: vuole raccontare la dismissione dei cantieri navali di Viana do Castelo e, insieme, la storia di un McGyver locale che riesce a sconfiggere un’invasione di vespe.
In effetti As Mil e Uma Noites comincia così, con il regista/capo che scappa, cerca di sfuggire alla capitale questione del racconto che vuole essere militante e insieme fantastico, e, affascinato dalla propria locura, ha paura di non poterla sostenere e di non riuscire a raccontare l’oggi d'Europa, nell’imminenza di una crisi sempre nuova che inquieta senza sosta e senza soluzione.
Il capo (del film) lascia spazio non a un altro capo, ma all’altro del capo, che anche Derrida cercava nel suo breve testo come antidoto a un’identità culturale europea che allora rischiava di chiudersi e che, al giorno d’oggi, si è chiusa nella retorica di linguaggi tanto trasparenti, quanto uniformanti, e violenti nell’esclusione e nella decisione.
L’altro del capo è Sherazade che cercherà di incantare il sovrano, l’uomo potente in erezione perenne, con storie infinite, liberando la forma del cinema dalla necessità di essere riconosciuta, incasellata, neutralizzata (vedi la paura di Fremaux, direttore del Festival di Cannes, burocrate della cultura europea che temeva Derrida, di fronte a questo geste de cinéma da anestetizzare in fretta). La locura di immaginarsi un film in cui le vespe convivono con i cantieri, in cui il reale diventa fantastico e le balene sputano sirene, in cui un gallo parla e un giudice lo ascolta, è la locura che solo può creare una cultura (e un cinema) che sappia essere sempre diversa da se stessa, inclassificabile, sempre critica, responsabile, per lasciarsi trasportare ancora da Derrida, della possibilità dell’impossibile.
Al giorno d'oggi, in Europa.