Senza futuro: film. John Carpenter’s Lost Themes
Giulia D’Agnolo Vallan
Le musiche di Carpenter sono in scope, come i suoi film. Hanno la stessa ambizione spaziale. La stessa istintiva eleganza. La stessa texture erotica e quella matericità della suspense che pochi come lui sanno imprimere al fotogramma, alla fluidità di un movimento di macchina.
Carpenter lavora ormai così raramente che la tentazione di tradurre questi lost themes in lost films - in film perduti, che non e mai riuscito a fare - è forte al punto che qualcuno ha persino provato a immaginarli: una vittima che corre inseguita in una foresta, un’altra perseguitata da un fantasma... Lo stesso Carpenter ha detto di aver concepito ogni canzone come un film a sé, composto di temi/scene diversi. Ma questo impulso alla visualizzazione è fuorviante, dato che i lost themes sono film che lui non ha mai scritto, visto, sognato, o per cui si è battuto. Completamente astratti.
Ma, ci dicono queste undici canzoni improvvisate sulla tastiera di casa, che dietro ai titoli prevedibilmente minimal (Mystery, Vortex, Night, Fallen..) nascondono sonorità barocche, synth-ornatissime, nella loro sensibilità retro (Bach come sempre, Morricone, i Beatles ma anche l’euforica cheesiness di gruppi come Abba o Procol Harum): sono questi i film che Carpenter (da) oggi è disposto a fare. “Senza pressioni di sorta, senza attori che mi chiedono istruzioni, senza una troupe che mi aspetta, una sala di montaggio in cui andare, una data d’uscita in sala”.
George Romero sta finendo un ciclo di graphic novels per la Marvel, Empire of the Dead. La prima graphic novel di Walter Hill, Balles perdues, è appena uscita in Francia. Ma se i loro scivolamenti di medium riflettono un contesto in cui per autori come Hill, Romero o Carpenter è sempre piu’ difficile fare film, lo scivolamento di Carpenter sembra rispondere a una necessità fisiologica più profonda, interiore.
Come succede nei suoi ultimi lavori, anche i momenti migliori di Lost Themes sono quelli - sempre più rari - di abbandono. Quel senso di lasciarsi andare quasi fisico, che anima per esempio la corsa d’inizio di Pro-Life (ripresa nell’apertura di The Ward) la maggior parte di Vampires e la sequenza della possessione in Ghosts of Mars... Spesso sono i riff alla tastiera di suo figlio Cody (cui si devono alcuni brandelli del disco) e la chitarra lancinante del figlioccio del regista, Sean Daniels, che scompigliano la (dis)attenzione della “maniera Carpenter” e lo trascinano - dietro alla coolness delle superfici - dentro quell’identificazione totale con il cinema e la sua fattura, che sta al cuore del romanticismo schivo, “americano”, che attraversa la sua opera.
Sono momenti di gioia, effervescenti. Commoventi, esagerati e - lui sarebbe d’accordo - quasi “ridicoli”.