"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Johann Lurf

Monday, 21 November 2016 09:33

Nice Fuck! (a proposito di Vertigo Rush)

Rinaldo Censi

François Truffaut ha appena fatto in tempo ad esprimere un pensiero a voce alta, ricordando la lentezza di Vertigo, che Alfred Hitchcock lo incastra subito, fulminandolo con lo sguardo. «Esatto, ma questo ritmo è perfettamente naturale, perché raccontiamo la storia dal punto di vista di un uomo emotivo. Le è piaciuto l’effetto di distorsione, quando Stewart guarda nella tromba delle scale del campanile; sa come è stato fatto?». La risposta di Truffaut non tarda ad arrivare: «una carrellata indietro, combinata con un effetto di zoom in avanti».

Era dai tempi di Rebecca che Hitch aveva in mente di realizzare questo particolare effetto visivo. «Già quando stavo girando Rebecca, nella scena in cui Joan Fontaine sveniva, volevo mostrare che provava una sensazione speciale, che tutto si allontanava prima della caduta». Ma all’epoca c’era un problema da risolvere: «Restando fisso il punto di vista la prospettiva deve allungarsi». Il tempo passa e il problema trova la sua soluzione una quindicina di anni dopo, in Vertigo, grazie a dolly e zoom usati simultaneamente. Un modellino della tromba delle scale appoggiato orizzontalmente per terra: carrellata-zoom sul piano.

Una cinquantina di anni dopo il film di Hitchcock, un giovane filmmaker austriaco, Johann Lurf, ha ripreso in mano questa soluzione tecnica, riducendola a soggetto di un suo film, Vertigo Rush. Una corsa vertiginosa. Mentre la macchina da presa si muove, arretra o avanza sulle rotaie del carrello, le lenti dello zoom si attivano modificando il nostro angolo di visione. L’effetto è spiazzante: l’inquadratura sembra quasi immobile, eppure assistiamo ad un’amplificazione, una distorsione della profondità di campo. La prospettiva insomma si allunga o si ritrae a seconda del movimento combinato, in avanti o indietro. Lungo i 19 minuti di film, Lurf forsenna temporalmente questo “effetto vertigo”, esplorandone tutte le potenzialità. Con un’acredine e un’attenzione “strutturalista”, gira il film in una sola ripresa, pianificando con un computer il tempo di esposizione dei fotogrammi: si passa da 1/25esimo di secondo a 30 secondi. Transitiamo dal giorno alla notte in 19 minuti. Il risultato è un’alterazione qualitativa dell’immagine. Un lavoro di accelerazione e compressione temporale inaudito, capace di captare tutta l’instabilità della luce fissata su pellicola 35mm.

Girato in un paesaggio boschivo, Vertigo Rush somiglia a uno di quei gesti compiuti nel paesaggio dagli artisti di Land Art. Un’esperienza telescopica, in cui la variazione e la ripetizione di un gesto tecnico articolano la nostra percezione del paesaggio, permettendoci di testarne i limiti, lavorando su una serie successiva di sfasature temporali. Risultato: il sito, da luogo arcadico, luminoso, comincia a perdere definizione, si sfalda. La continua accelerazione dovuta al lavoro di time-lapse, trasforma lo spazio in un ambiente cromatico: la luce si altera, giunge a noi modulata dalle nuvole, fino a venire divorata, dando luogo a pattern monocromi verde, rosso, fino al nero: il bosco si trasfigura. È la notte che avanza. Lo spazio si deforma, gli alberi sembrano porsi lateralmente, creando un corridoio naturale per semplice capriccio ottico; col buio i tronchi si trasformano in pareti marroncine poste ai lati di uno spazio profondo, cieco. Finiamo in una vera e propria esplosione di luce bianca, in un crescendo di onde sonore, un riverbero elettronico che ricorda - è fin banale ricordarlo - Wavelength di Michael Snow.

Insomma, una macchina compie esercizi fisici all’aria aperta. E a pensarci bene, forse in Vertigo Rush, come nei romanzi di Raymond Roussel, in Alfred Jarry, come in <------> o La Region Centrale di Michael Snow, questa macchina è celibe. È una macchina impossibile, inutile, che non ha uno scopo preciso se non quello di captare vibrazioni atmosferiche, o magari di essere «vista, nello stesso tempo, nella prospettiva immediata come immagine sessuale, e nella prospettiva anteriore come figurazione del Tempo».

Filmare delle intensità luminose. Oppure, un amplesso. Michael Snow non ha mai fatto mistero del suo interesse per il sesso. «Wavelength literally "cums" at the end: the last thing you see is liquid», argomenta in un’intervista con Scott MacDonald. Vertigo Rush, con quel suo movimento percussivo in crescendo, fino alla scarica luminosa finale, non risulta estraneo a tutto questo.

In un questionario su Wavelength, alla domanda: perché un film di 46 minuti? Snow aveva risposto: «Nice Fuck!» Vertigo Rush ne dura 19. Resta ugualmente memorabile.

 

 

Nota:

Selezionati per anni al Milano Film Festival, i film di Lurf sono stati mostrati nel 2015 a Filmmaker Festival, in un programma curato da Tommaso Isabella.

 

Per Hitchcock, si veda F. Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Pratiche, Parma, 1977; sui tempi di esposizione della pellicola, rimandiamo a S. Payne, “Sequence”, #1, no.w.here, London; per le macchine celibi, M. Carrouges, “Come inquadrare le macchine celibi”, in H. Szeemann (a cura di), Le macchine celibi, Electa, Milano, 1989; l'intervista a Michael Snow appare in, S. MacDonald, A Critical Cinema 2. Interviews with Independent Filmmakers, University of California Press, 1992; per il questionario su Wavelength, vedi S. Hartog, “Ten Questions To Michael Snow”, ora in The Michael Snow Project, The Collected Writings of Michael Snow, Wilfrid Laurier University Press, 1994.

 

 

À propos de Venise (Jean-Marie Straub)

Saturday, 11 April 2015 14:56

Giocare la partita dei flutti

Rinaldo Censi

Nel 1902, dopo diversi viaggi in loco, Maurice Barrès pubblica La mort de Venise. Nel 2014 Jean-Marie Straub isola nove pagine e ne fa un film, À propos de Venise, con un lago al posto dei canali. Per entrambi, la Serenissima è già perduta nel '700, quando due “cariatidi” come Goethe e Chateaubriand la frequentano.

Tre punti nello spazio, ciò che resta di un movimento che immagino da sinistra a destra. Tre inquadrature fisse. 1) Un tronco d’albero sulla riva del lago. 2) Un grosso ramo che posa sull’acqua. 3) Una donna seduta, un microfono, un prato e il lago alle spalle. Il testo re-citato, le pause, le cesure: gli a capo corrispondono a precisi stacchi sull’asse. È un moto ondoso testuale, tipografico, che si lega a quello lacustre. Idea di ritmo e contrappunto: la massa d’acqua, la luce, le anatre, gli insetti, il testo. Tre inquadrature. Poi uno stacco, un blocco di nero, ci catapulta davanti agli occhi un’inquadratura di Chronik der Anna Magdalena Bach (1967): BWV 205, Zerreißet, zersprenget, zertrümmert die Gruft (Lacerate, devastate e distruggete la tomba). Con un ghigno selvaggio, Bach aveva composto il suo “dramma per musica” pensando a Virgilio e a Eolo, con i suoi venti distruttori. Sono loro che creano le onde? E cosa distruggono? (Trop tôt trop tard – 1982, due grattacieli gemelli riflessi nel Nilo si sfaldano nello sciabordio dell’acqua.)

Il recitato e l’aria di Bach sono posti in posizione inedita – dialettica. Si pensi a Proposta in quattro parti, Cézanne o al recente Kommunisten: è la stessa rigidezza del concetto di filmografia ad entrare in crisi. Logica dell’essai – non si tratta di trasgredire una forma, quanto di testarne i limiti, coglierne la dimesione prismatica verificandone le variabili.

Giocare la partita coi flutti, direbbe Mallarmé. Creare correnti sotterranee tra i film. Forse la storia del cinema non è altro che il processo interminabile di una “ricaduta” filmica simile al moto ondoso. Nulla è fisso. 

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