"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Oggi come non mai il cinema è fondamentale punto di fuga in cui far convergere esperienze e identità di culture e percorsi che rischiano l’oblio. Anche per questo Garin Nugroho rimane una delle figure più affascinanti, complesse e intricate del cinema indonesiano nel tentativo sempre vivo di ri-costruire la storia di un paese attraverso le storie del cinema. Nello stesso anno, lo scorso, realizza due film estremamanete differenti e quasi inconciliabili nella struttura ma che condividono le stesse profonde radici che si autoalimentano. Chaotic Love Poems è un opera apparentemente leggera, un Romeo e Giulietta del sud-est asiatico, la storia di due ragazzi così lontani e così vicini, che giocano a sfuggirsi, nonostante siano cresciuti nello stesso quartiere, si conoscano e amino fin da bambini. Sullo sfondo, un’Indonesia che cambia, da paradiso autoctono di epopee sociali e politiche a territorio sempre più caotico, teatro perfetto di finzione. A Woman from Java invece è di rigida impostazione teatrale e ci riporta negli anni venti del Novecento, nella claustrofobia di una camera, nella casa di un ricco e malato terriero olandese, che vive con la sua bellissima e giovane moglie indonesiana che rinuncerà al suo nome e così a tutti i diritti di cittadina. Nel gran teatro del mondo ogni strato ne sottende un altro, ed un infinito piano sequenza ci invita a respirare l’eleganza della lotta silenziosa che la protagonista vive come dialettica personale e morale.
Sono due donne, infatti, a tessere i fili di queste tele, di un amore che va oltre il labirinto delle proprie storie, di quelli che probabilmente non potranno essere mai vissuti, ma che in un’immagine possono resistere nella loro completa diginità di rapporti opposti e conflittuali. Yulia (Chaotic Love Poems) affronta continuamente il proprio destino di un sentimento che vive già di ricordi, impossibile, passato e sublimato in quella malinconia che scavalca i tempi, portando a riva bottiglie dai messaggi sconosciuti. Mentre Nyai (A Woman from Java) parrebbe una donna libera solo perché concubina di un facoltoso occupatore, vive l’amore come astrazione di giornate che si susseguono in una prigione dorata che nulla esclude, ma che diventa il set di spettacoli d’intrattenimento per il capo famiglia. Nella chiusura dei due film, entrambe, sono costrette a riflettersi tra specchi e memorie, a prendere coscenza. Da una parte il re-incontro del finale che lascia aperto uno spazio sul futuro, dall’altra la morte dello straniero (e della colonia) che spalanca la stessa finestra. La finzione è il caos, il caos è vita, la vita è poesia, e la poesia è amore. In entrambi i film si costruisce la razionalizzazione necessaria al gioco di chi ama non potendo possedere, lasciando l’idea che si possa esistere attraverso la possibilità di vivere in una favola in cui anche il dolore rende partecipi facendo appartenere le figure allo schermo e rendendole responsabili del proprio destino. In entrambi i film Nugroho gioca con i linguaggi, virando sul meló pop e colorato anni settanta, passando per l’amato musical di estetica anni ottanta, per chiudere con la prima moda indie dei novanta (nel primo), modulando dolcemente il fluire in scorci di musica tradizionale e danza indonesiana, sottotrame di amori e possessioni, giochi di parte e di palcoscenico, drammi familiari e derive geo-politiche (nel secondo).
Bisogna guardare alle radici appunto, perchè quello di Nugroho è un cinema che si insinua su un flusso in cui sono gli stessi personaggi a declinare il passare del tempo disegnandosi in uno spazio di luce che è la loro stessa identità latente. La macchina da presa a sua volta ridefinisce un cinema da camera inteso come spazio possibile (utopico) di rivendicazione di diritti, lotte, identità e appartenenza. Emerge un mescolarsi delle arti (e della performance) del secolo scorso, quasi elevate a metafora di quelle scorie che il post-coloniale lascia in grembo a realtà che ancora oggi soffrono nel tentativo subdolo di de-occidentalizzazione e riaffermazione degli elementi culturali propri dell’inizio del secolo scorso, e che ritornano intatti nell’ancora più drammatica neo-colonizzazione globalizzata e capitalista di oggi. Nugroho continua il suo percorso insieme leggero e inclassificabile di contaminatore, teso a trasformare il rigore della forme in una sostanza morale. L’amore ha le sue storie, e le condensa sui binari di una ferrovia come tra le mura di una casa, ma spesso non le rispetta e le lascia smarrirsi aggrappando i propri protagonisti alla casualità della vita come alla causalità del contesto. Rimane un percorso di visione che muta radicalmente e che lascia aperta una possibilità continua di dialogo, apparentemente utopica e retorica, ma tesa allo svelamento di un’ipotesi assoluta di scavo e comprensione. Il cinema ci può portare anche a fare i conti con noi stessi attraverso la storia, conti che spesso non tornano, alla radice.