"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Vive nel mondo postgenere, non ha un sé originale né una storia, non ha un Eden da ricordare né memoria del cosmo, non rimpiange la famiglia organica, l’oikos... è Okja.
Sintesi di un’epoca e di un cinema “disumani”, la creatura di Bong Joon-ho è il meraviglioso atlas della geografia interconnessa di corpi inessenziali, fantasmatici, eppure pieni di desiderio. Forse inconsapevole, il regista di Taegu ha messo in scena il sogno di Donna Haraway, filosofa, e il suo manifesto cyborg. Corpo materico, corazza prodotta in serie, modello ippopotamo/maiale/cane, sguardo adorabile, Okja è una femmina di superpig, prodotto da una immaginaria multinazionale sudcoreana, la Mirando Corporation (alias Monsanto), boss una Tilda Swinton estremamente pop e crudele, figlia dell’inventore del napalm, memorabile per aver imbrattato le pareti della sua fabbrica di sangue operaio. Più che metafora, cronaca.
Alterata l’alchimia cellulare della bestia ogm, che come il mostro di Mary Shelley, chiede di essere amato e non di “sfamare il mondo”, Bong Joon Ho ha voluto Okja come risultato benefico di una manipolazione malefica, al contrario dell’anfibio mangia-uomini di The Host.
Gli incroci di senso si infittiscono nella relazione simbiotica tra la ragazzina Mija (Ahn Seo-hyun) e la bestiona cresciuta libera tra le montagne verdi, esperimento che genera non solo un magnifico esemplare da esposizione, ma il mix inscindibile animale/essere umano/macchina. Okja è un super maiale senziente nato due volte, nei laboratori Mirando e Netflix. L’azienda via internet, produttrice del film, ha negato al regista il 35mm e imposto il 4K, giustamente. Cos’è Okja se non l’avamposto dell’immateriale che pretende di scorrazzare tra i boschi, “pesare” (tonnellate) sul mondo analogico, e ritagliarsi un posto tra i viventi? Non c’è più frontiera ormai tra natura, umana e animale, e artificio. “Le nostre macchine sono stranamente viventi - scrive la filosofa americana - e noi, noi siamo spaventosamente inerti”. Vivacità del non-essere, del robot intelligente senza padri e dal sesso cangiante. L’aberrazione estrema sta nel fatto che il bestione di pixel si può riprodurre, e li vedremo i piccoli nati da genitori senza carne né sangue ammassati nel tetro mattatoio dove il superpig verrà macellato, sequenze conturbanti nel buio dei recinti, in attesa che la pistola spari nel cervello di tanti Okja. Visioni perverse da Alberto Grifi con le sue mucche sacrificate e da John Berger con il suo abisso che separa noi dall’animale, improvvisamente vanificato da Bong Joon-ho in quell’intimità transumana che fa strofinare la piccola Mija al “drago riluttante” disneyano.
C’è una promessa d’immortalità nel film in concorso a Cannes 70 e accolto da una selva di fischi per la perfetta distorsione con il quale è stato proiettato per 8’ prima che il proiezionista si accorgesse del formato sbagliato. Segno di una confusione concettuale, non solo tecnica - dallo schermino web al grande schermo - e di una indecisione sul come trattare l’ibrido assoluto Okja, un po’ il Totoro della Ghibli, simbolo del cinema Netflix, al centro di polemiche per la destinazione on line del film e la mancata anticipazione nelle sale francesi. Non che meritasse la Palma d’oro, ma l’anatema del presidente della giuria Almodovar ha confermato l’eccezionalità culturale del superpig, lasciato correre a travolgere ogni cosa nei vicoli antichi della moderna Seoul e poi nell’aeroporto tra cacciatori metropolitani e ineffabili animalisti, a testimonianza della sua esistenza. Mastodontico virtuale, “creatura da compagnia”, destinato a fare spettacolo sul palcoscenico di New York, in memoria di King Kong. Vittima la bellezza selvaggia e libera ai tempi di Cooper e Schoedsack, e ora specie da proteggere, specchio della metamorfosi che ci accompagna.