"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Minding the Gap (Bing Liu)

Sunday, 28 April 2019 20:37

Uno skateboard di malinconia

Vanna Carlucci

La macchina da presa scivola lungo le strade di Rockford, cittadina dell’Illinois. Ogni immagine sembra poggiarsi sul niente, sorretta dall’aria che taglia o forse attraversa i corpi di tre ragazzi che nutrono la stessa passione per lo skateboarding: Keire Johnson, Zack Mulligan e lo stesso cineasta Bing Liu. Minding the gap si apre così, con uno sguardo falciato dalla luce che scivola enorme sopra certe strade deserte dove Bing Liu riprende i suoi due compagni con la carezza di chi conosce chi ha di fronte a sé costruendo un documentario che apre ricordi, infanzie, prospettive e lo fa scavando nella malinconia degli sguardi persi nell’aria tiepida della sera, cercando barlumi sui loro profili notturni, tra le crepe delle loro stanze caotiche lì dove la violenza ha creato solchi, provando ad afferrare nel movimento fluido dei ragazzi sullo skateboard uno spiraglio ancora possibile.

Il paesaggio pare apocalittico nella sua completa assenza di vita o forse, di vitalità, colpita com’è dalla recessione economica e che ha fatto dell’Illinois uno dei paesi con il più alto tasso di criminalità. Dentro questo scenario ogni ripresa diventa una voce isolata, rannicchiata in questa coltre di desolazione che sembra investire Zack che ancora piange sulla tomba di suo padre nonostante le percosse subite, Keire che incarna lo stesso atteggiamento violento di suo padre.

In questa carrellata di volti che si ripetono nella loro tragica quotidianità Bing Liu affila i loro sguardi per potercisi riflettere, specchio della propria vita, anch’essa disagiata e che trova voce attraverso le parole di sua madre. Minding the gap riporta in vita una memoria lucida, quella della violenza domestica che crea fratture, rompe legami importanti (quelli tra padri e figli) e crea fardelli impossibili da sopportare; una memoria che è narrazione, un racconto fatto di tasselli temporali, immagini in vhs di vecchi filmati di famiglia per alimentarsi poi di nuove riprese, interviste e voli pindarici sulle quattro ruote di uno skateboard rispolverando così il passato (suo - di Bing Liu - e dei suoi due compagni) per sbatterci la faccia e ritracciare un nuovo cammino. Sembra una eterna rincorsa, quella di Liu che cerca di acchiappare tutto ciò che resta della leggerezza dei suoi protagonisti, una leggerezza che in realtà non esiste se non quando sfrecciano, saltano, volano con i loro skate (l’unico dispositivo che cura dall’angoscia) allontanando il passato, schivando il presente sfondato dal peso di una vita che ha abusato di loro e di cui portano addosso ancora le ferite.

 

 

Tarde para morir joven (Dominga Sotomayor)

Wednesday, 05 December 2018 23:40

Il movimento aperto delle relazioni umane

Vanna Carlucci

È il 1990 in Cile, cade la dittatura di Pinochet, si apre un nuovo capitolo, una strada che, in questo film, diventa una via sbeccata, selvatica, metafora di una rinascita (quella del Cile, ora, democratico) che deve arrivare ancora a piena maturazione e deve riformulare il proprio senso attraverso una costante interrogazione. Tarde para morir joven (presentato in concorso a Festival di Locarno e vincitore del Pardo per la miglior regia) rappresenta un lungo percorso che non si chiude mai, come una domanda sempre aperta, una dimensione sospesa dentro un territorio fuori dal mondo, dalla città, senza confini. Qui, nella natura, vive una piccola comunità di famiglie, adulti e adolescenti come figli di un tempo non ancora nato. Non esistono muri, anche le piccole abitazioni diventano finestre sul mondo, un eterno sguardo aperto (quello della regista) ed un eterno slanciarsi verso l’altro da parte dei singolo. Il concetto stesso di comunità è un rendersi conto della presenza dell’altro non come barriera ma come mezzo che scatena passioni attraverso l’esposizione della propria singolarità: comunità «come essere in comune. L’in (il con, il cum latino della ‘comunità’) […] indica un essere in quanto relazione, identico all’esistenza stessa: alla venuta all’esistenza dell’esistenza. […]» (J. L. Nancy 1986, p.184). La condivisione degli spazi diventa ogni volta ridefinibile, riconfigurabile e dunque mai compiuta non perchè c’è mancanza ma perché lascia aperta ogni possibilità di trasformazione.

Ogni fotogramma diventa immagine evanescente, un cane scompare riappare e, ancora, esce di scena, sembra quasi chiedersi cosa resta di un tempo ormai trascorso e cosa si perde tra i fumi di una terra ai piedi delle Ande. C’è la nostalgia, un sentimento che s’impolvera per tutto il film e c’è il colore sbiadito della mancanza (il tempo in cui la stessa Dominga Sotomayor ha vissuto) che si fonde con certe musiche anni ‘80; ogni immagine sembra la proiezione di una vecchia pellicola o VHS, ogni momento sembra la rievocazione di un ricordo. Ma Tarde para morir joven è anche e soprattutto un racconto su alcuni adolescenti (Sofia, Lucas e Clara) in piena lotta con se stessi e con l’altro: in fondo l’occhio di Dominga Sotomayor è concentrato a seguire il movimento delle relazioni umane (prendiamo Mar, ad esempio, che inscena la vita di una coppia al mare; o De juvenes a Domingo che ritrae il viaggio di una famiglia in vacanza) senza l’aspettativa che ci debba essere un colpo di scena. La quotidianità è ripetizione e in questa partitura emerge la vita: l’amore allora diventa scavo interiore, attesa verso una madre che non tornerà mai più, lotta per la conquista di un bacio, delusione, odio: è la natura stessa a diventare madre ostile pronta a bruciare.

 

 

Wonderstruck (Todd Haynes)

Saturday, 05 May 2018 08:34

Transvedere

Vanna Carlucci

Il tempo, questa “eterna corrente” che ci dissipa e separa dai giorni, che ci sfugge eppure ci tiene stretti nella morsa degli accadimenti, è il punto cruciale delle vicende dei due protagonisti nel film di Todd Haynes, Wonderstruck. Qui la dimensione spazio temporale si separa e si riannoda portando in superficie un passato dalle tinte classiche del bianco e nero e un presente sfumato nei suoi colori, dialoganti l’uno con l’altro grazie ad uno squarcio nel cielo notturno, una sorta di interruzione fulminante che ha ribaltato le coordinate e che mette in relazione due vite.

Cos’è il tempo per noi? “Il ricordo e la nostalgia. Il dolore dell’assenza”, ed è questa assenza e questo dolore che maturano dall’affetto o dall’amore per qualcosa che non c’è più a ricalcare e ribaltare il normale flusso degli eventi. Ben e Rose si muovono su due piani temporali diversi eppure entrambi gli adolescenti sono alla ricerca del loro amore assente, il padre, la madre. Qualcuno ha scritto che  “l’occhio vede, il ricordo rivede, l’immaginazione transvede”, ed è proprio con questo sguardo che Todd Haynes sviluppa la storia di due esistenze che scorrono parallele per incrociarle solo nel finale e “transvederle”. Ben e Rose, due vite sole che cercano di trovare un proprio posto nel mondo: “Where do I belong” scrive Rose su un foglietto di carta, in quale luogo è possibile sentirsi a casa se esiste una distanza che separa; tutto il film è avvolto da una bolla insonorizzata che lascia i due protagonisti isolati nella loro sordità fisica che altro non è che metafora di una perdita affettiva: la scrittura così come il linguaggio dei segni diventa strumento unico di comunicazione facendo sí che il film muto parli solo per suoni e immagini.

Wonderstruck diventa la stanza dove è possibile meravigliarsi ancora, dove le cose appaiono legate ad un passato remoto e ancora una volta, sono superstiti del tempo. Il museo di storia naturale percorso da entrambi i fanciulli, assume le sembianze di una caduta, un universo trasognato, un luogo dove il tempo veglia sui reperti del passato, veglia nel presente, lascia tracce. Il luogo possibile diventa memoria, sogno, viaggio tra le stelle, le stesse che Ben legge e rilegge su un foglio attaccato alla parete, le stesse che vengono rievocate da David Bowie in Space Oddity, viaggio dove perdersi e ritrovarsi. Non dimentichiamo anche che Wonderstruck nasce a partire dall’opera grafico-letteraria di Brian Selznick (autore di Hugo Cabret e che sarà anche lo sceneggiatore del film) e non è un caso allora se il cinema si assume il compito di ridare vita («i film devono essere disegni destati a vita» affermava Hermann Warm) ad un’opera che, dal principio, è soprattutto visiva.

 

 

Published in SPECIALE Americans

Lucky (John Carroll Lynch)

Monday, 27 November 2017 10:20

Vanna Carlucci

Exit

Una città senza nome, in Arizona, sembra essere quella zona di mezzo in cui il campo vuoto del deserto restringe ulteriormente il confine visivo tra vita e morte mentre il tempo sembra dilatarsi nello spazio. Qui, un cowboy novantenne ateo, si prepara al grande salto. Così John Carroll Lynch, al suo primo lungometraggio presentato in concorso a Locarno, mostra pezzi di vita, pelle, carne sconfitta dalla solitudine di questo cowboy sempre più prossimo alla fine;  il suo cappello e i suoi stivali da western accompagnano l’eco di un’armonica che suona Red River Valley e di nomi che hanno bucato lo schermo del cinema americano (John Wayne, per esempio) riproiettando in avanti il Mito di un certo cinema in cui il deserto diventa luogo di intercessione per fantasmi.

In questo passaggio d’anime invisibili, Lucky (questo è il nome del protagonista e il titolo del film) diventa un viaggio spirituale che, in realtà, accompagna l’attore Harry Dean Stanton al suo ultimo film; di lì a poco infatti Stanton, all’età di 91 anni, ci avrebbe lasciato scrivendo inconsapevolmente e definitivamente il suo testamento cinematografico (con ovviamente la coda di Twin Peaks: The Return), perché Lucky è Harry Dean Stanton e Harry Dean Stanton è Lucky, attore e personaggio a fare un organo intero, corpo caratterista, corpo umano: qui ombra e immagine si fondono nella gravità del suo sguardo per farne spettro trattenuto, rumore di fondo, rumore nelle immagini. Ogni corpo filmato infatti, traccia un segno e che in Stanton è sempre stato il tratto scavato della sua figura, voce morbida tra le sue ossa e poi gli occhi, due bocche spalancate sulla macchina da presa. Lucky e Stanton qui si incrociano come due destini che si riflettono e raccontano pezzi di vita in una pulsione fortemente autobiografica (l’inizio di carriera come attore in film western, il suo passato da cantante e veterano della Seconda Guerra Mondiale) e indagano sul tempo che resta, sul realismo che è una cosa, sulla vecchiaia sempre più accomodata ai bordi del letto, sulla verità della solitudine che dilata la percezione del tempo e che uccide più del fumo di sigaretta. Stanton è un performer e Lucky rappresenta sicuramente la performance della sua vita e, in verità, il tempo qui diventa prova di resistenza, esercizio instancabile, disciplina ferrea che Stanton pare vincere ogni giorno, prestante nella sua prestazione, con quei movimenti del corpo che rappresentano l’incipit di questo corpo-film per cui il luogo fisico del film diventa il corpo stesso dell’attore mentre una voce di fondo ci chiede “ma anche i film invecchiano”? e, mentre ci si prepara alla fine, “cosa ricorderemo” e cosa non verrà trattenuto? Quale immagine? Quale anima? e allora la scena più commovente del film è il viso di Stanton piegato dal tempo e dalla voce di tenebra di Johnny Cash mentre si arrende all’oscurità che non si dirada e alla speranza di una luce.

Ma Stanton, nella sua lunga carriera cinematografica, è stato anche personaggio lynchano e non è di certo un caso se David Lynch lo omaggia inserendosi in questo film nell’unico luogo possibile in cui il tempo invece pare smembrarsi per diventare ponte e punto estremo: in perfetto stile, il modo unico con cui Lyncha ci lascia sempre un enigma tra le mani; qui Lucky dialoga con lui di notte in un bar come due vecchi amici che si conoscono da circa trent’anni, lui che è disperato per aver perduto il suo migliore amico, la tartaruga di nome Presidente Roosevelt e che troveremo ad inizio e fine film come un Caronte che accompagna Lucky verso la fine. Ma esiste nel cinema una fine? e la morte? anche quando è vera il cinema pare fingerla così come Stanton non è ancora sul punto di attraversare quella porta rossa con la scritta Exit in bilico tra un’entrata e un’uscita di scena, visto che al di là non c'è niente, quasi a voler fingere la vita stessa.

 

 

Il monte delle formiche (Roberto Palladino)

Monday, 27 November 2017 10:18

Vanna Carlucci

Pungere gli occhi

È ancora possibile, oggi, credere alla pupilla che tocca, vitrea, la morbidezza nera delle immagini? Esiste cioè una disposizione d’animo, più esattamente, un’accorta devozione verso ciò per cui i nostri occhi hanno ancora voglia di credere? Riccardo Palladino sembra rincorrere questa necessità di fondo perché fare cinema è già in sé un atto di resistenza, significa lacerazione, sguardo dilatato dentro ciò che non è possibile ancora vedere. Secondo J.M. Straub, nel cinema “bisogna scavare, ma per scavare bisogna avere una punta, ci vuole acutezza” e così, probabilmente, si è cercato di fare con questo documentario Il monte delle formiche, presentato in concorso a Locarno nella sezione Cineasti del presente, poiché si scopre un’Italia diversa, forse scomparsa in cui Palladino scava o, sarebbe meglio dire, scala la sua montagna per scoprire cose mai viste in chissà quale passato remoto la cui perdita è diventata nervatura stessa dell’occhio, quel territorio sconnesso che è  ancora in grado di sovvertire la scena.

Il Monte delle formiche è un appennino distante alcuni km da Bologna su cui sorge il santuario dedicato a Santa Maria fornicarum: ogni anno (l‘8 settembre, compleanno della Vergine)  migliaia di formiche alate femmine portano con se un maschio nel proprio volo nuziale. Subito dopo l'accoppiamento, i maschi precipitano agonizzanti sul sagrato della chiesa e muoiono mentre la femmina, terminata la cerimonia, si stacca le sue quattro ali, si rinchiude sottoterra e fonda una nuova colonia. Decine di bambini assistono alla scena e partecipano a questa danza con quell’innocenza che fonda interrogativi e quella purezza d’animo che porta con sé lunghe lenzuola bianche, abito nuziale su cui si abbandoneranno gli insetti, raccolti poi come reliquie in sacchetti di stoffa. C’è qualcosa di estremamente mistico e sacro in questo sbattere d’ali vorticoso e, allo stesso tempo, di così crudele se “l’amore ha quasi sempre il volto stesso della morte” (Maeterlinck) e questa effervescenza che si sprigiona nell’aria, trova il suo sottofondo, una voce che intona una filastrocca spezzandosi poi in un vero e proprio rituale antico che ogni anno si ripete. La voce si fa nenia, ancella di una natura arcana, madre per cui noi non siamo altro che “da lei circondati e abbracciati, incapaci d’uscirne fuori, e incapaci di penetrar più addentro in lei” (Goethe).

 

Palladino, qui al suo quarto film, polverizza l’immagine ricorrendo alla pellicola (Super8 e 16mm): si tratta di una realtà rara, quasi trasparente, prossima alla scomparsa e lo spazio ripreso non può che insinuarsi nella grana sporca dell’immagine, sguardo antico come questa piccola comunità di cristiani che assiste alla cerimonia della Vergine partecipando a un mistero che li rende tutti fedeli alla vita, alla morte. C’è uno sguardo non solo estetico, sicuramente lirico, ma soprattutto politico in questo film ché ci rende ben consapevoli di quanto l’uomo moderno sia lontano dal concetto stesso di comunità e aggregazione; al contrario, il profondo misticismo della formica che nel suo volo d’amore si concede alla morte per il bene di una collettività sotterranea, fa sí che lei operi ed esista solo “per il suo dio, né immagina che si possa avere altra felicità, altra ragione di vivere, che servirlo e dimenticare se stessa, perdendosi in lui […] il suo totem è lo spirito del formicaio” (Maeterlinck). Le parole del grande entomologo Carlo Emery e di scrittori come Maurice Maeterlinck e Goethe puntellano il movimento stesso di questi sciami al galoppo che fermano il tempo in un eterno presente e tutto si ripete come i resti di una memoria collettiva ancora in grado di tornare in superficie a cercare di rovesciare un sistema individualistico che ci riguarda e che il cinema, di rimando, prova a smuovere nella sua (in)attualità senza la pretesa di svegliare coscienze ma per lo meno di pungere gli occhi.

 

 

The Challenge (Yuri Ancarani)

Monday, 21 November 2016 10:05

Falcata finale

Vanna Carlucci

Quando parliamo di immagini, quando parliamo di cinema, dimentichiamo spesso a noi stessi che si tratta di qualcosa che imprigiona gli occhi, di una specie di folgorazione, di volo mentale che ci scaglia su territori indefiniti e stranieri ma che ci tiene stretti nella morsa della visione; allo stesso tempo l’occhio, questa sfera cristallina che risucchia e capovolge ciò che della cosa vista è diventata pura proiezione, imprigiona l’immagine sulla retina, la manipola secondo impulsi elettrici, l’annienta poi al successivo battere di palpebra e cambio di visione. Prede e predatori, la sfida sta in questa eterna lotta che il cinema ci pone in vista, magari, di una utopica liberazione degli occhi. Così i primi minuti del film The Challenge di Yuri Ancarani mostra la resistenza e la prigionia: centinaia di falchi volano all’interno di un edificio/gabbia e sembra quasi un girare a vuoto (quello dell’animale, quello del regista) come in uno stato di perenne cattività che diventa anche sguardo dello spettatore che prova a reggere l’attesa di fronte a un desiderio oscuro, occluso, ancora bendato prima di essere slacciato definitivamente in volo e poi dentro la propria preda. In questi primi 4 minuti il senso della visione e del veduto è un pensiero che si rimargina continuamente, è l‘incipit di un colloquio inesatto, di una geografia di immagini ancora da raggiungere. Il falco, animale predatorio, qui viene addestrato secondo una pratica millenaria, in vista di una gara di falconeria nel deserto del Qatar. Anche il deserto occupa la vista, appunto, ci imprigiona nella sua grandezza, nel suo essere niente o meno di niente e proprio per questo rappresenta una «perenne eccitazione» – dice Bachmann – «pronto a divorare l’osservatore [perché] è più forte di tutte le immagini che siano mai entrate nell’occhio». Ma qui ciò che pietrifica è il colore netto che invade la superficie dell’immagine, l’oro colante sugli oggetti e sulla sabbia a creare strati e apparenze, ulteriore gabbia alla naturale brutalità dell’immagine: è la cromia esatta di un luogo che, in The Challenge, mostra la sua immagine capovolta. Il deserto non è più deserto, povertà fisica, pura assenza ed essenza d’altro ma diventa un luogo di messa in mostra: non più un vuoto che libera i corpi, che li desertifica rendendoli polvere e miraggio, non più una luce che acceca e inghiotte e che espone la percezione al suo limite, qui al contrario tutto è sempre esteticamente esatto, limato, addestrato e preparato per avere già tutto nelle nostre mani. Dentro questa proliferazione materiale di oggetti, denaro, jeep e lamborghini (è l’aristocrazia petrolifera nel Qatar a fare da padrone), il deserto diventa territorio senza zampe ma fitto di rombi di motori nella sabbia a sviluppare tracciati di un’umanità esagerata, quasi surreale, aliena forse, e proprio per questo in grado di rompere le coordinate del puro spazio dell’immaginario. Qui gli uomini non guardano il deserto, non assistono al cielo rivoltato negli occhi, alla sabbia manipolatrice di percezioni, chimere e fantasmi ma ciò che compie Ancarani è dirottare gli occhi nella visione sospesa al movimento del falco che mentre insegue la sua preda dentro un volo epilettico, liberatorio e allo stesso tempo estatico, tutto in soggettiva grazie a una microcamera legata alla testa dell’animale, viene a sua volta inseguito, ingabbiato al volo e riproiettato all’interno di schermi che infrangono e rifrangono le immagini. Campo e controcampo, quello di Ancarani, è la sfida dello sguardo che si genera e rigenera installandosi sulla sabbia come un monolite kubrickiano, schermo nero, terzo occhio che assiste a ciò che resta dell’umano. Un occhio che - parafrasando Merleau-Ponty - è nel mondo e allo stesso tempo è il mondo nell’occhio, è cioè il medium attraverso cui l’immagine accade nella sua falcata finale, un volo in picchiata.

 

 

Philippe Garrel

Wednesday, 13 July 2016 12:52

Matrici

Vanna Carlucci

Feu aux poudres (Fuoco alle polveri) è il titolo di uno dei due capitoli che compongono La jalousie. Dare Fuoco alle polveri sembrerebbe rinviare a più interpretazioni: all’atto incendiario di rivolta, quella che ha attraversato nel ’68 le strade di Parigi e che Garrel ha più volte raccontato nel suo cinema (pensiamo a Les amant reguliers o al ritrovato Acte 1 che ha preceduto guarda caso la proiezione de L'ombre des femmes a Cannes); al fuoco alchemico e di combustione e conversione della materia; all’atto stesso di proiezione delle immagini, cono di luce che buca e accende l’oscurità: dare fuoco alle polveri significa anche riporre l’occhio lì dove la memoria ha creato delle falde, apnee interminabili e sospensioni fuori tempo di corpi che tornano da un luogo remoto e che sfuggono ancora dalle mani.

Il cinema garrelliano è un circolo vizioso di ritorn(ell)i autobiografici, di immagini già viste, fantasmi che si riform(ul)ano in un corpo, di mani che si toccano come echi di mani del passato, ma qui tutto si mescola in un angolo buio della memoria per sfaldarsi e ricompattarsi di nuovo e per essere ogni volta diverso. Alchimia appunto, polvere che vortica su se stessa fino a scivolare in luoghi in cui non si è guardato mai. Ciò che resta sono le pareti scrostate degli interni, l’eco di baci rubati per le scale; il vuoto riempie camere, cinema, strade e certe notti in attesa: sono spazi e luoghi interrotti, territori d’esilio, interstizi e buchi di serratura (pensiamo alle prime immagini de La jalousie) attraverso i quali il buio della pupilla riformula certe visioni perdute: stanze come scatole, scatole come forni alchemici, come film. Un disegno apre i contorni su visi e corpi e nella distanza tra un atto e uno sguardo, tra un bacio e un addio, nel solco di questo spazio che separa il bianco dal nero, gli amanti sanno già di essere fantasmi.

L’immagine claustrofobica dell’amore stavolta non precipita in macabra ossessione, ma sembra quasi che l’ultimo Garrel (quello de La jalousie e de L'ombre des femmes) vada oltre l’imperdonabile perché il cinema in fondo è memoria andata in pezzi, pezzi che sono immagini, cicatrici interiori e, allo stesso tempo, l’amore è luogo così irrisolto da lasciarci sospesi ancora nel vuoto: frammenti di vita proiettati continuamente sullo schermo, resistenza della memoria che registra ricordi (quelli del padre di Philippe) che si sfaldano e si ricompongono continuamente per diventare immagine deformata, pura finzione. Ne La jalousie Louis (figlio di Philippe) incarna il fantasma di suo nonno (Maurice) mentre ne L'ombre des femmes la cinepresa di Manon e Pierre, le pellicole conservate in archivio che fanno incontrare Pierre ed Elisabeth, scandiscono questo rapporto sentimentale tra cinema, vita e memoria: viaggiano l’uno accanto all’altro in un dialogo che li attraversa e, incrociandosi, li sfiora. Come i corpi urtano, si toccano, si amano, si tradiscono e ritornano così Garrel fa dell’immagine la messa in scena del (proprio) desiderio, più reale della realtà stessa, una ripetizione mai uguale a se stessa da rendersi sempre nuovamente possibile.

C’è una consapevolezza nuova: una certa leggerezza attraversa la pellicola e il sentimento diventa peso incorporeo; l’orgasmo di una donna che fa l’amore in chissà quale appartamento attraversa, nel suo moto arioso, il cortile interno di un palazzo ed entra di notte nella stanza vuota di Manon, dove la solitudine diventa immota presenza delle cose. Da una finestra spalancata (ipotesi di una veduta, sguardo che si dilata) non vediamo l’amore ma soltanto un’idea proiettata per aria, negli angoli bui delle pareti, voce fuori campo e fuori visione perché il cinema è questo rovescio senza fondo che nasce “in silenzio sotto lo sguardo”, un corpo sconosciuto - dice Deleuze - che abbiamo dietro la testa, “nascita del visibile che ancora si sottrae alla vista”. Eccolo il Vuoto del suo filmare, si tratta di tendere i sensi e guardare altrove, perché “vedere è avere a distanza”, dare atto al ricordo di mostrarsi li dove “la retina è cieca nel punto in cui si diffondono in essa le fibre che permetteranno la visione”(Merleau-Ponty 1969, p.260). Sia l’amore che il cinema diventano allora matrici (athanor alchemici) entro cui formare storie e immagini sempre nuove, combustioni che si sprigionano da un abbraccio (vedi l’ultima immagine de Les ombre des femmes) dove il morso al collo di lei diventa il bacio di una riconciliazione, l’abbraccio perfetto di una storia imperfetta o da una stretta di mano dove il buio in un cinema ci dice che sì, è possibile (ancora) amarsi nel vuoto.

 

 

La voce della luce

Vanna Carlucci

Origem do mundo è una traversata, una ricerca nell’abisso che soffia sotto forma di palpito. Il vento, questo dio che spira da ogni luogo, s’infiltra tra le crepe delle rocce, bocche entro cui riformulare un suono, una lingua sconosciuta, un’impronta.

 

Siamo nel deserto brasiliano, luogo senza direzioni, distesa infinita sul cui strato essenziale si trovano i cosiddetti “pietroglifici”, disegni preistorici incisi sulla roccia. Si tratta di un paesaggio riconoscibile nella sua assenza, il deserto come spazio senza vita ma che si fa carico di una memoria lontana dai giorni: luogo che fa dei suoi miraggi il punto focale dell’immaginario. Batsow è un esploratore, mostra il non detto, rincorre l’aria, il disegno rupestre, ne tenta una possibile decifrazione che si allontana sempre più dal suo originale. Anche l’oralità, tramandata dai vecchi abitanti del luogo, lavora all’impossibile, all’imprendibilità della prima parola, a un mito che ritorna nell’immagine incisa: l’uomo paleolitico non ha solo visto l’animale ma lo ha raffigurato sotto forma di mostro, minacciosa bestia divina. Il segno allora, non è solo traccia ma atto, l’iscrizione non è solo un’incisione ma anche e soprattutto uccisione, sacrificio di una forma che lo sguardo cattura sulla pietra e che è rappresentazione di un’immagine divina solamente percepita e quindi immaginata.

 

L’origine è quel «grido della voce che sembrava la voce della luce» dice Pimandro, visibile solo nella distanza: è per questo che Origem do mundo scava nel tempo, allontana il mondo dal suo progressivo deterioramento per recuperane una forma primigenia, una memoria mitica, mai tradotta definitivamente e proprio per questo ancora intatta e lontana. Non è un caso - se di luce si tratta - che questo film faccia parte del progetto curato da Bressane il cui titolo rimanda non solo alla lingua portoghese ma anche e soprattutto al linguaggio del “cinema [che] è la musica della luce”, a questa riformulazione continua, tentativo perpetuo di traduzione e di salto oltre il confine della cosa vista per lasciare che si imprima la traccia sottile di un’immagine (o forma) luminosa venuta da lontano, il vento di un dio remoto: Tela Brilhadora da «brilhador, brilhadora» (sostantivo) = che brilla.

 

Così come in Batsow anche nel film di Rodrigo Lima, O espelho (che fa parte anche quest’ultimo di Tela Brilhadora), si tratta di scavare in profondità, attraversare la materia fluida di una superficie riflettente e di passare dall’altra parte. Anche Lima lavora sull’insufficienza del linguaggio di fronte alla cosa divina: non a caso la prima immagine è la punta rocciosa di una montagna in Rio de Janeiro chiamata Dito di Dio a cui segue l’indice di un uomo puntato in su.

 

È la natura nelle vesti di una donna ad annunciare poi la sua presenza con un grido che smuove il presente e risveglia l’attenzione di un pittore intento ad osservare la propria immagine riflessa in un specchio, tela vertiginosa attraverso la quale poter catturare l’altro da sé, un minuscolo riflesso luminoso. È un fantasma la donna che appare dalle acque del lago, è uno spirito che dà voce alla natura panica del mondo: ruggisce, urla si muove convulsamente come in preda a un dio incarnato in lei, immagine sfocata, ombra vagante per il bosco che trascina l’uomo in profondità, al di là del lago, specchio d’acqua, fino a scomparire. Lo specchio, questo vetro che ha struttura molecolare liquida, è un fluido: una volta passati si transita nel tempo, in questo continuo muoversi e approssimarsi a un’immagine capovolta dove il dentro ora risulta essere proiettato in superficie. Meccanismo alchemico, proiezione cinematografica, secondo Jean-Luc Nancy «l’immagine fa uscire la cosa dalla sua semplice presenza per metterla in presenza, in praesentia, in essere-davanti-a-sé, rivolta verso il fuori»; di conseguenza, «ogni immagine è una mostranza […] è dell’ordine del mostro», minaccia divina che si palesa in avanti: è questo abisso profondo che, cieco nel suo brancolare nel vuoto, ad un certo punto torna in superficie per mettersi in luce, immagine smagliata dalle frange delle acque, dal rimbalzo infinto degli specchi.

 

 

Published in SPECIALE - DEBUT!

Now (Chantal Akerman)

Tuesday, 27 October 2015 16:04

Nell’altro verso del cinema

Vanna Carlucci

Entrare nella notte e trovarsi al centro di un istante. In Now di Chantal Akerman è il QUI assoluto che ci sconvolge, è il qui e ora che ci afferra e ci porta più in là, nello spazio buio dove la velocità della visione (o delle visioni) ci trattiene. Cinque schermi sospesi in aria al centro di una stanza che riprendono fughe, linee perse all’orizzonte, dileguamenti visivi che non segnano un percorso ma impongono dispersioni. Sembra quasi un contraddirsi, ma la Akerman ci spinge in avanti senza indicazioni per portarci oltre il bordo, alla deriva o più in là, nel falsotracciato , nell’altro verso del cinema.

Si scosta la tenda come una palpebra pensando che solo lo sguardo possa aprire una visione (la visione che è palpazione con lo sguardo, direbbe Merleau-Ponty e questo basterebbe a toccarla), ma la trama allarga i propri confini ed è allora che tutto il corpo si muove, nello spazio. Non si tratta di contemplare lo schermo (anzi, gli schermi) per una visione passiva, ma di penetrarlo, quasi sfiorarlo nella fuga di orizzonti imprimendo una certa pressione nell’aria che sembra mancare di staticità e si sposta con noi nel vuoto; farci mobili nella mobilità delle immagini, costringerci a transitare più in là ancora, da uno schermo all’altro, di soglia in soglia e trovarci nell’intermezzo, in quel tra che è un viatico, medium oscuro, nell’insorgenza delle immagini. Sembra quasi che il cinema, questo luogo privilegiato di scontro frontale sguardo-visione, non basti più a sorreggere tutto l’impianto stratificato di un’immagine - edificazione di uno sguardo - ma, in Now, essa ci investe interamente tanto da pensarla fuori da un unico quadro, dal campo del quadro per ritrovarcela ovunque intorno a noi, investiti anche dal fantasma del suono, perché è nel passaggio da uno schermo all’altro delle immagini che la visione prende forma, è in quello spazio vuoto che noi diventiamo ombre buie, vaganti e perse con gli occhi infranti, incapaci di posare l’occhio su quell’attimo frugale che è l’epifania di una visione. L’adesso (Now) non c’è mai perché è già passato, l’immagine passa, scorre ed è già fuori perché lo schermo non è abbastanza, ci vogliono più schermi, il luogo stesso del cinema è anche, ora, fuori dal cinema stesso; non c’è approdo per l’immagine perché non c’è casa, non esiste il luogo che ora diventa punto cieco, ma c’è l’urgenza di scavalcare la distanza che ci separa da questo flusso ininterrotto, migrazione continua lungo orizzonti indefiniti. E la messa in scena diventa messa a punto di supporti sempre nuovi, di terze dimensioni (pensiamo a Godard, Scorsese o all’ultimo Zemeckis) e, ritornando alla Akerman, di nuovi territori (deserti) espressivi che vorrebbero inabissarci nell’interstizio informe della materia che manca continuamente al nostro sguardo: l’eterna incompiutezza di una veduta. Quello che la Akerman sembra chiedersi mentre fugge via con lo sguardo lungo paesaggi completamente vuoti, assenti, è cosa sia il cinema se tutto oggi è cinema, se non sia necessario invece destrutturarlo una volta per tutte e ritornare a cercarlo.

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